Esporre l’assente. Contro le mostre “immersive”

14/09/2023

Nelle logiche di una selvaggia spettacolarizzazione digitale il nostro tempo è riuscito ad inventare e a legittimare il più inutile e kitsch degli eventi pubblici: la mostra d’arte in digitale, che un volpino lessico tecnologico sigla come “immersiva”. Scusate, no, mi correggo: non la mostra, ma la pseudo-mostra perché il pubblico macina chilometri e paga un biglietto per non vedere niente se non un contenitore trasformato in un sollazzevole Luna Park di avatar, mettiamo, vangoghiani.

E come con i giochini del Luna Park è possibile immergersi nel fatato mondo matrixizzato che pretende di raccontare l’artista olandese rinunciando a ciò per cui si è torturato e scarnificato lungo dieci anni di fuoco creativo fino a morirne, ossia le opere nella loro unica, incontestabile e irripetibile verità materiale. Dico proprio le opere. Le opere alle quali Van Gogh, come qualsiasi altro artista, ha affidato il suo resistere oltre il tempo, la parte migliore di sé, la disperata e sublime prova che è esistito per qualcosa. Ma che vado mai a scomodare, io, così romantico e reazionario? Le opere? La sacralità della mistica del tocco? La lotta perché due tinte o una composizione funzionino dentro tutti i secoli? La fatica di trovare un proprio linguaggio formale dopo infiniti tentativi? Trascurabili orpelli! Oggi siamo al tempo delle pseudo-mostre costruite su un masturbatorio illusionismo di massa. Cosa aspettiamo? Abbracciamo anche noi, in nome delle nuove tecnologie, le forme divulgative del nostro tempo, pazienza se esse stanno all’opera d’arte come il porno al sesso reale. Insomma, gli stessi curatori ci tengono alla roboante, retorica dicitura “mostra immersiva”, quando sarebbe preferibile tracannare un sorso nel Lete per dimenticare all’istante l’offesa.

Leggo che a Milano sono arrivate le ennesime opere digitali di Van Gogh e mi ribolle l’inchiostro. È questa l’ultima pagliacciata di una lunga trafila di “eventi” partiti, anni fa, con le riproduzioni in HD di alcune opere di Caravaggio. Per dovere filologico, e per non essere il solito pedante stroncatore, ho dato comunque un’occhiata, un po’ da voyeur, ai video dei visitatori sbarcati alle precedenti edizioni: trasvola su tutto una patinata musica hollywoodiana, sulla quale un mazzo di girasoli animati muovono le corolle a ritmo e una strisciata bidimensionale proietta sulle pareti dettagli de “La notte stellata”; tutt’intorno, in una zona callidamente adibita a Spa, i visitatori possono sdraiarsi su sedie a sdraio da mare e osservare il passaggio dei soli e dei cieli di Van Gogh. Immancabile la ricostruzione stereometrica della camera di Van Gogh. Un’intera parabola creativa, dove ogni conquista è costata fatica e sangue (si leggano le lucide e strazianti lettere inviate a Theo sulla creazione artistica), ridotta a ninnoli ludici e quasi fumettistici; a poster da camera adolescenziale; a piccole animazioni in mano al gusto di una cafoneria tutta provinciale anche nei centri delle grandi mostre tradizionali.

Punto da curiosità, ho provato a cercare su google voci polemiche in merito alle pseudo-mostre d’arte in digitale che hanno dilagato in alcuni dei principali centri d’arte italiani, come Firenze, Torino, Napoli e, ora, Milano. Fatico a digitare la parola “mostra” per queste plateali baracconate. Le più celebri, dopo Caravaggio in HD e forse altre (ci hanno provato anche con Giotto e Canova, non serve ricordare gli immancabili impressionisti), sono quelle dedicate a Van Gogh. Caravaggio e Van Gogh: e chi, se non loro? – gli artisti pop “maledetti” par excellence, affiancati dall’altra (ma pittoricamente mediocre) icona pop, Frida Kahlo.

Devo dire che il silenzio della critica attorno a questo fenomeno mi lascia sgomento. Che dire? Speravo in un intervento al vetriolo di un Tomaso Montanari o di un Vincenzo Trione di fronte a questa manifestazione assurda della “società dello spettacolo” che, non so come, calamita consensi ovunque, talora perfino tra gli storici dell’arte, in particolare giovani. Quando penso a questi consumistici Luna Park, a queste grandi macchine buone solo per far soldi, mi viene alla mente il titolo di un saggio di Daniel Arasse: “non si vede niente”. Proprio qui sta il paradosso. Pensiamoci bene: per vedere queste pseudo-mostre, magari si fa un viaggio di andata e ritorno; magari, si spendono più o meno ore in fila all’ingresso, e, soprattutto, si paga il biglietto che costa quanto entrare a Brera, o agli Uffizi o a Capodimonte, talora di più. Si impiegano tempo e denaro per continuare a non vedere niente. Ergo: ne usciamo senza che la nostra conoscenza dell’artista e della sua opera ne sia minimamente arricchita. Se, nel frattempo, non è cambiato qualcosa e se la mia opinione non suona troppo reazionaria, fino a ieri sapevo che andare a vedere una mostra significava fare esperienza degli originali. Ripeto: fare esperienza degli originali. Ossia vedere, direttamente sul campo, da più o meno vicino, le opere d’arte nella loro eccezionale presenza; nella loro materialità e unicità, cogliendone le stesure, lo stile, i colori e i segni del tempo; senza filtri libreschi e finalmente liberate dal diaframma della riproducibilità tecnica. E badiamo, non si sta parlando di rivisitazioni di capolavori con medium digitali o di dialoghi con la tradizione, come nel caso esemplare di Bill Viola o dei geniali critofilm di Carlo Ludovico Ragghianti; né siamo in presenza di operazioni culturali condotte secondo una logica divulgativa, come nel caso dei documentari d’arte in mano al cinema e alla televisione. Qui siamo di fronte alla manifestazione del nulla: se l’opera d’arte, attraverso i secoli, “parla” nella sua potenza visiva incarnata in una “cosa”, nel caso di “Van Gogh Alive” e affini si cammina in un contenitore “funebre” pervaso da striscianti immagini di larve e fantasmi bidimensionali. Un contenitore kitsch, nel quale la musica non fa che coprire il silenzio delle opere assenti.

Di fronte a questo fenomeno penso a ciò che scrive Yves Michaud nel bel saggio L’artista e i commissari. La tesi principale espressa in quest’opera è che se per molto tempo sono stati gli artisti a definire l’arte, oggi questo potere è passato nelle mani del jet-set del mondo dell’arte, ossia di quelle persone, soprattutto i curatori nel loro infinito divismo, che Michaud chiama i «commissari», mentre «gli artisti e le opere sono solo pretesti per far continuare a girare la giostra del mondo dell’arte, un mondo che si stordisce di eventi, scoperte e tattiche comunicazionali», e che si evolve sempre più in direzione della mondanità. Questi pseudo – operatori d’arte hanno assunto un potere enorme rispetto agli artisti – e non solo artisti viventi – attraverso mostre banali e offensive, accozzando pratiche e mezzi disparati come quelli virtuali dei vari “Van Gogh Alive” e schermandosi dietro ad una parvenza d’idea che non viene assolutamente sviscerata perché inesistente. Questo sta a testimoniare la caratteristica d’intrattenimento che va assumendo la pratica espositiva, sempre meno legata ad una sua peculiarità e sempre più inserita nel flusso senza senso di una contemporaneità consumistica e facilona. Un antidoto? Disertare sistematicamente queste finte mostre, rispondendo al loro vuoto culturale col nostro vuoto fisico.

Ma voglio passare dalla teoria alla pratica. Cercherò di far vedere come si “entra” davvero in un’opera d’arte con l’occhio e la mente raccontando un celebre quadro di Van Gogh: la sua natura morta composta da un paio di scarpe sdrucite.

Vincent Van Gogh, Scarpe, 1886 (Van Gogh Museum, Amsterdam)

La pittura moderna ha trasformato il soggetto in un pretesto. Cadendo nel dominio dell’arte tutto può diventare rappresentabile. Non esistono gerarchie. Non esistono soggetti adatti e nobili o, viceversa, vietati dall’estetica. Esiste la potenza dello stile che trasfigura l’oggetto rappresentato. Una piccola natura morta in mano a Chardin ha la stessa tenuta espressiva, profondità di esplorazione visiva e tensione artistica di un grande quadro di storia. Una mela o una sedia possono racchiudere e farsi veicolo, nella loro pura contingenza, di una metafora oggettuale più vasta. Possono incarnare dettagli di quella condizione più ampia che è la condizione umana. Metonimie visive universali. Gli oggetti dell’arte raccontano una storia o isolano uno status dell’artista. Il loro prelevamento dallo spazio della vita innesca una nuova rinascita: quella della “messa in forma” dell’espressione artistica. Nella famosa scena di “Manhattan”, Woody Allen, steso sul suo divano, registra un elenco di cose da salvare, di “eventi” che rendono la vita degna di essere vissuta, e tra queste cose vengono evocate le strepitose mele dipinte da Cézanne. La mela dipinta diventa un motivo per vivere perché la mela dipinta, ricreata nel fuoco della creazione artistica, ha una peso, una presenza, una “cosalità” direbbe Rilke, che la rende una sigla iconica di eterna bellezza. La sua trasformazione in segno dipinto ce la rivela agli occhi come fosse la prima volta. Il mezzo, quale esso sia, viene santificato da un fine più alto, quello dell’espressione artistica che rinomina l’oggetto più insignificante rendendolo duraturo oltre il tempo. L’oggetto dipinto diventa un “evento”. Non è più puro essere, è diventato parte di un nuovo linguaggio. A questo pensavo mentre tornavo con la mente ad alcuni quadri di Vincent Van Gogh, pittore di cieli blu notte solcati da apocalittici astri rotanti; di soli che schiantano sopra teneri e violetti campi coltivati; di contadini affumicati in antri cavernosi e di ulivi torti nello spasmo delle linee serpentinate; pittore di cipressi belli come obelischi egizi; di caffè notturni e di rossi impregnati dei vizi degli avventori dei locali notturni; pittore di chiese sghembe come fiamme sbattute dal vento; di danze macabre e svagate di corvi nell’aria di perla, di viottoli erbosi come imbuti di incerto destino; pittore di sterminate piane infiammate da gialli prepotentemente esplosi; pittore di formicolanti tappeti equorei, di spettrali laghi colorati dagli inchiostri potenti della notte. Ma anche pittore di oggetti poveri, quasi senza nessuna aura che scenda a riscattarli. Oggetti carichi di poesia residuale: presenze che ambiscono ad una sorta di nobiltà dello scarto. A questo sentimento delle cose – che sembra spostare, in una sorta di nuova conversione conoscitiva, la febbre evangelica di Van Gogh predicatore nel Borinage sulla rappresentazione a ciglio asciutto degli oggetti proletari o contadini – appartengono i dipinti dedicati alla serie delle scarpe. Va sottolineato che quello delle scarpe è un tema se non fisso ricorrente nella produzione di Vincent Van Gogh. Ad esse egli dedica differenti opere e in tutte queste le scarpe appaiono di una nudità disarmante: senza ornamenti, sbrecciate, consunte, usurate; in una parola, abbandonate. Parola chiave: abbandono. Le scarpe a cui Van Gogh dedica le sue pitture non sono da vetrina, non sono oggetti smaglianti; sono, invece, come si è soliti dire, scarpe consumate, scarpe vissute che sono state usate quotidianamente, pertanto, senza giro di parole «vecchie».  

Vincent Van Gogh, Un paio di scarpe, 1887 (Baltimore Museum of Art)

Sto pensando, e valga come esempio, a Un paio di scarpe, dipinto del 1887, oggi al Museum of Art di Baltimora. È indubbia la proiezione, il più possibile oggettivata, di uno scenario interiore che cerca nell’oggetto l’incarnazione della propria forma: in questo senso, le scarpe dipinte da Van Gogh contengono il ritratto inconscio dell’artista, a tratti la sintesi della sua poetica, il sunto del suo carteggio con il fratello Theo tutto teso a capire se la vocazione artistica in gioco, abbracciata tardi, fosse reale o inesistente. In quel paio di scarpe c’è il racconto accorato, immediato e sublime della sua vita, c’è la sua storia, la critica feroce al mondo; ma anche l’elevazione che interessa la stessa arte di Van Gogh. Ossia la possibilità di riscattare un paio di vecchie scarpe alla dignità di un’icona.

Tentativo che Vincent aveva già sperimentato con la congiunzione, piena di aspra grazia, tra cose e pittura ne I mangiatori di patate, l’opera con la quale Van Gogh diventa Van Gogh, affrancandosi da una mediocrità incombente che lo aveva incalzato fino a qual momento. Lì, con quell’umanità intagliata in uno strato basico quasi di basalto, con quell’afrore abbrustolito delle patate, Van Gogh trova un equilibrio tra contenuto e forma mai raggiunto prima. Così, quello che inscena con “Un paio di scarpe” è molto probabilmente uno dei suoi autoritratti più riusciti: Van Gogh “è” le scarpe che dipinge. Le scarpe evocano un intero mondo: la fatica del cammino percorso lavorando, la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo; la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala; il tacito dono di messi mature; il silenzioso timore per la sicurezza del pane; la gioia della sopravvivenza al bisogno; il timore dell’annuncio della nascita, l’angoscia della prossimità della morte. Tutte esperienze che Vincent conobbe nei suoi primi tre decenni di vita, soprattutto come predicatore di una religione vissuta in totale spoliazione di beni terreni, azzerata ad una forma basica di sopravvivenza, ustionata al contatto con una povertà di timbro noi diremo verghiano.

Nel quadro di Van Gogh non potremmo mai stabilire dove si trovino quelle scarpe. Intorno a quel paio di scarpe da contadino non c’è nulla di cui potrebbero far parte, c’è solo uno spazio indeterminato. Grumi di terra dei solchi o dei viottoli non vi sono appiccicati, denunciandone almeno l’impiego. Siamo al cospetto di un  paio di scarpe da contadino e null’altro; ma, come sempre con le metonimie che funzionano, evocano un intero mondo. Quale? Nell’orifizio oscuro dell’interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nella massiccia pesantezza della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell’umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale.

Scrive Heidegger su queste scarpe dipinte: “Stando davanti all’opera, ci siamo improvvisamente trovati in una dimensione diversa da quella in cui siamo comunemente. L’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa veramente sono le scarpe […] il quadro di Van Gogh è l’aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è in verità. […] Nel quadro di Van Gogh si storicizza la verità. Ciò non significa che qualcosa di semplicemente presente venga riprodotto, ma che nel palesarsi dell’esser-mezzo delle scarpe pervengono al non esser-nascosto l’ente nel suo insieme, il Mondo e la Terra nel loro gioco reciproco.”

In copertina: Van Gogh, Iris, 1890 (Metropolitan Museum of Art, New York)

Davide Pugnana

(Carrara, 1984) si è formato all'Università di Pisa con un percorso a metà tra Lettere moderne e Scienze dei Beni culturali. I suoi principali interessi di ricerca si orientano sui rapporti tra letteratura e arti figurative. Nel 2012 ha vinto la borsa di studio per la "XII Settimana di Studi Canoviani" a Bassano del Grappa. Da qualche anno, ha aperto un blog dal titolo "LetteraVisiva". Collabora con la rivista "Critica d'arte" della Fondazione Ragghianti di Lucca, con "Pangea" e con il "Bollettino Dantesco" del Centro Lunigianese di Studi Danteschi. È autore di tre saggi, editi da GD Edizioni: "Recensioni e altri scritti" (2020), "Voci dal mondo dell'arte. Da Marangoni a Michaud " (2021) e "Un diario pubblico di passioni private. L'arte e la letteratura al tempo dei Social" (2022).

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