Carte d’erranza. Su Simone Pellegrini

13/09/2023

Si potrebbe pensare alle composizioni di Wölfli, di Kandinsky, di Dubuffet, di Mirò, ma forse, per confrontarsi con le opere di Simone Pellegrini, è bene lasciare per un momento da parte la storia dell’arte moderna e tentare salti verso altri luoghi: quelle di Pellegrini sono cosmografie, mappe psichiche, miti in abiti formali che sembrano venire da lontano, dalle pitture rupestri del Brandberg in Namibia o del Tassili in Algeria, ma anche dall’arte calligrafica araba, dalla notazione musicale moderna, dalle figure ornamentali a margine nei codici medievali. La lista potrebbe continuare o cambiare a seconda di chi le guarda, tuttavia ogni riferimento cui si accorre per comprendere l’immagine – l’immagine forte – alla fine non può che risultare un fraintendimento.

Simone Pellegrini, Posa della slittante, 2021 © Simone Pellegrini

Certo, tutte queste allusioni connaturate nel lavoro di Pellegrini hanno fatto sì che trovasse luogo felice tra le sale di un museo delle culture. Una geografia anarchica, curata da Nora Segreto e Francesco Paolo Campione e progettata da Marta Santi al MUSEC di Lugano, è la prima personale di Simone Pellegrini in Svizzera. Mostra dedicata al percorso dell’artista marchigiano degli ultimi sedici anni, un percorso intrapreso e perseguito con una concentrazione rigorosamente rivolta all’umano; e come ogni concentrazione protratta nel tempo ha finito per chiuderlo in una crisalide sulla quale le dinamiche dell’arte contemporanea si dimostrano inefficaci. Si è scomunicato, come lui stesso afferma, forte di una pratica artistica che nella teoria non vede la struttura delle proprie opere, ma anzi ciò che le netta da ogni concetto, da ogni intenzione informativa e pedagogica per lasciarle appese in autonomia.

Sotto luci tenui carte strappate, sporche e impresse di figure; in un’atmosfera scura e cavernosa, in un’intimità perturbata dalla natura di questi paesaggi cartografati ab intimis, nella mostra si partecipa dell’archeografia di Pellegrini. Più il pittore esplora le sue profondità più si trova a vagare per un paesaggio condiviso, popolato da forme archetipiche, quelle che scarabocchia ai margini delle pagine di filosofia, di mistica, di psicologia: fronde, foreste, lobi, uteri, corpi umani che si intrecciano allo sfondo, arti, teste, orde infernali e cellulari, bronchi, cerchi, croci, membri, grembi e membrane, spesso in qualità di scritture, quasi volesse alludere alla natura biologica dello spirito. Si tratta di segni nati vecchi, non solo per i referenti arcaici, ma soprattutto per il loro aspetto, per gli strappi, le macchie d’olio, le finte fioriture, i pigmenti scaricati, consumati o persi nel passaggio da matrice a supporto. Il lavoro di Pellegrini è tutto fuorché nuovo. È come se la composizione fosse nata tutta in una volta molto tempo fa, nata distante.

Simone Pellegrini, Corriva Montante, 2021 © Simone Pellegrini

Pare che Pellegrini non osi disegnare direttamente sul supporto. Malgrado l’abbia composto con le sue mani, per affrontare lo sfondo Pellegrini cerca una mediazione, un automatismo, o meglio un rituale che gli permetta di superare l’assenza di segni. Come agire? Dove? La risposta è altrove, alle spalle del supporto: a margine delle pagine, su frammenti di carta da spolvero dove c’è spazio per una sola figura, e solamente allora imprimere manualmente il disegno sullo sfondo, attendere l’esito della stampa, gettare la matrice. Depositata la prima figura le altre seguono per contaminazione od opposizione. Un mondo ha avuto inizio, e mentre sullo sfondo si dà luogo all’ordine deliro e imprevisto di questo mondo, a terra si accumulano carcasse di carte calpestate dal pittore, poiché bisogna sapere che ogni matrice si esaurisce dando vita a una sola figura, prima di essere abbandonata ai piedi del tavolo.

Merleau-Ponty dichiarava alla madre che «quel che c’è di insostituibile nell’opera d’arte… è il fatto che essa contiene non tanto delle idee quanto delle matrici di idee». Chi ha avuto a che fare con la tradizione geroglifica conosce gli effetti di una scrittura muta per immagini: l’incantesimo di figure che alludono a luoghi del sapere, ma che però non approdano presso alcun significato, condanna a vagare per un non sapere o un sapere ancora a venire. Le figure ricorrono come pittogrammi di un linguaggio che non comunica, e se non fosse che nell’opera di Pellegrini non c’è nulla di trascendentale, si potrebbe pensare a quella lingua divina di cui parlava Plotino a proposito dei sapienti Egizi: fatta non di lettere che si articolano in discorsi, ma di immagini, di ombre che indicano senza dire niente, giacché sono vuote, giacché, come scriveva Cristina Campo, «la figura preesiste all’idea da colarvi dentro».

Simone Pellegrini, Proposizione secondaria, 2019 © Simone Pellegrini

Per molti anni Simone Pellegrini ha insistito su una modalità processuale e formale ben riconoscibile. Che questa ripetizione sia di natura economica o estetica, che sia dovuta a un automatismo o a un rito, non è chiaro. Chiaro è quello che negli anni si è andato formando: un complesso di segni di una scrittura che, come il Tetragramma per i cabbalisti, si scrive ma non si legge. Il fatto che in Pellegrini non ci sia verticalità lo rende a tutti gli effetti un cartografo, e come tale segna l’orizzonte, coste e confini, forse le grotte, ma non i monti, non le stelle. Si tratta di carte che si sviluppano orizzontalmente come qualsiasi mappa, ma a differenza loro non c’è omogeneità; in virtù del peso dei segni, dei colori, del verso delle linee, delle figure camuffate, si tracciano direzioni, percorsi, tranelli. Primo fra i tranelli è la somiglianza della composizione a qualcosa che potrebbe essere letto. Al primo tranello ne segue un altro più lungo: lo scavo. Le cartografie di Pellegrini inducono a un’archeologia in cui gli scavi non hanno destinazione se non quella di formare un dedalo – la città di Psiche – dove il pittore invita tacitamente a perdersi, dove lui, per primo, si è perso. Pellegrini ha capito che solo errando può mappare itinerari per l’erranza, strappandoci così dalle nostre piccole comunità e consegnandoci ad una comunità troppo grande per essere nominata; e per farlo necessita di immagini incontrollate, nate vecchie, di disegni trasposti, venuti da lontano, di scritture che non si leggono, di figure che indicano sempre l’altra direzione.

Simone Pellegrini. Una geografia anarchica, vista dell’installazione © FCM/MUSEC, Lugano

Simone Pellegrini. Una geografia anarchica
A cura di Francesco Paolo Campione e Nora Segreto
Coordinamento del progetto: Paolo Maiullari
Progetto di allestimento: Marta Santi
MUSEC Museo delle Culture, Lugano (Svizzera)
Fino al 26 novembre 2023

In copertina: Simone Pellegrini. Una geografia anarchica, vista dell’installazione © FCM/MUSEC, Lugano

Valerio Abate

(Lugano, 1994) ha studiato Arti visive all'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e all'Universität der Künste di Berlino. Dal 2019 scrive per il Canale Cultura della RSI (Radiotelevisione della Svizzera italiana). Nel 2022 ha concluso la formazione annuale in drammaturgia Luminanza. Dal 2023 insegna Arti visive nel liceo di Mendrisio (CH). Dal 2016 espone tra Italia, Svizzera e Germania – il suo lavoro, in pittura, scrittura e scultura, ruota attorno alla distinzione tra figura e sfondo indagando temi quali il tempo, la morte, la soglia e il sacro in una prospettiva etica e poetica.

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