Motus Terræ

12/09/2023

Il nuovo allestimento di “Terræ Motus” di Lucio Amelio nella reggia di Caserta

Non riusciamo proprio a vederle. In realtà le opere esposte si possono vedere, ma è facile non accorgersene, o meglio, le vediamo ma senza vederle davvero. Stiamo parlando del nuovo allestimento – al primo piano nell’ala dell’ottocento e nelle retrostanze di quella del Settecento – della collezione tematica Terræ Motus nella Reggia di Caserta. Per questo, come scriveva Vincenzo Trione sul Corriere della Sera del 31 luglio di quest’anno, “non desta stupore […] che sia passato quasi sotto silenzio l’importante riallestimento di Terrae Motus, la più ampia collezione d’arte contemporanea a tema del mondo, voluta e radunata con passione e tenacia dal gallerista Lucio Amelio (1931-1994), formata da settantadue opere ispirate al sisma del 1980, realizzate da alcuni tra i maggiori artisti del secondo Novecento, lontani dal punto di vista generazionale, culturale e poetico”. La storia di questa raccolta straordinaria (che comprende Richard Long, Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Andy Warhol, Keith Haring, Robert Rauschenberg, Joseph Beuys, Giulio Paolini e tanti altri) è stata fatta tante volte (si veda Terræ Motus. La collezione Amelio alla Reggia di Caserta, Skira 2001), e l’invisibilità di cui parliamo non ha a che fare con le sovrintendenze e i musei, la burocrazia e l’inerzia conservatrice delle istituzioni culturali italiane: in effetti è una invisibilità che ha a che fare propriamente con il tema di questa raccolta promossa da Lucio Amelio, il terribile terremoto di Campania e Basilicata del 23 novembre del 1980. È una invisibilità che non implica un’impossibilità di vedere, quanto un non voler vedere quello che in realtà si vede benissimo. Alla base di questo sguardo negato c’è allora un diniego, cioè la negazione di qualcosa che è affatto evidente. Succede così che percorrendo i magnifici ambienti della Reggia di Caserta le opere ci siano e siano in piena vista (almeno quasi sempre), ma appunto risultano alla fine quasi invisibili. E non è un problema di collocazione. È il terremoto che più o meno direttamente si può scorgere nelle opere esposte che non si vuole vedere.

In effetti i quaranta e più anni passati dal terremoto del 1980 permettono di pensare a quell’evento in un modo diverso e complementare rispetto a quello che il titolo della raccolta suggerisce, terræ motus, terremoto, ossia l’improvviso movimento della terra. Nell’idea stessa del terremoto è infatti implicita l’assunzione che la condizione ‘normale’ della terra sia invece quella della stabilità. La terra, o come dicono i naviganti, la terraférma, è appunto ciò che non si muove, ciò che è stabile, il fondamento. Proprio perché la terra ‘normalmente’ è ferma e immobile, quando succede che si muova il nostro mondo va in frantumi. Ma appunto, il movimento è l’eccezione, la stabilità è, o ci aspettiamo che sia, la ‘regola’. Gli anni che ci separano dal terremoto del 1980, e dal modo con cui allora venne pensato, ci permettono di rovesciare quel presupposto. In effetti che cosa significa la scoperta che viviamo nel tempo dell’antropocene se non che ormai sappiamo che la terra, al contrario, non è ferma affatto, ma è viva e si muove, cambia e si trasforma continuamente? In questo senso nella collezione Terræ Motus questa consapevolezza, almeno in alcune fra le opere più potenti di quella stessa raccolta, era già esplicita. Vale per questi lavori quello che diceva dell’ opera d’arte lo stesso Amelio nel documentario diretto da Mario Martone Lucio Amelio (Terræ Motus) del 1993: si tratta di “una cosa che magari rimane lì sul muro come una bomba a scoppio ritardato per poter poi trasformare la tua vita”. Quel tempo è arrivato, la bomba è scoppiata, la nostra vita è stata trasformata. Ma siccome non vogliamo questa trasformazione, allora cerchiamo di non vedere quello che ormai non si può fingere di non vedere.

Prendiamo ad esempio il primo lavoro che si incontra nel nuovo allestimento, il Terremoto in Palazzo (1981) di Joseph Beuys. Una rozza tavola di legno che poggia a terra su quattro zampe, intrinsecamente stabile e solido, zampe però che poggiano dei fragilissimi barattoli di vetro. Alla base non c’è il fondamento, non c’è la solida roccia che non si muove, al contrario, alla base c’è il vetro, leggero, tagliente, che si rompe facilmente. Il fondamento non c’è, o meglio, il fondamento è fragile, sempre sul punto di frantumarsi. Il fondamento non fonda nulla. Il fondamento non esiste. È tutta un’altra idea del mondo, c’è l’annuncio di un’altra metafisica in questo lavoro. La ‘regola’ non è la stabilità, bensì l’equilibrio precario, incerto, intrinsecamente mobile. Il mondo non è fermo, il mondo si muove, motus terræ appunto. E che cos’è un mondo senza fondamento, o meglio, un mondo il cui fondamento è l’assenza di fondamento, se non un mondo in cui l’umano non occupa più alcuna posizione privilegiata? Un mondo senza centro, un mondo sempre in movimento, un mondo che nessuno sforzo umano può fermare. Un mondo, infine, che è vivo (come annuncia delicatamente e ironicamente il vulnerabilissimo uovo in bilico sulla tavola) proprio perché è sempre sul punto di cambiare e di trasformarsi in qualcos’altro.

Richard Long, Vesuvius Circle, 1984

È lo stesso mondo che possiamo vedere nel Vesuvius Circle di Richard Long (1984), composto da blocchi irregolari di nera pietra lavica disposti a formare un cerchio. La pietra, il fondamento per eccellenza (come dice il Cristo a Pietro: Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam, Matteo 16, 18; ma lo sappiamo già da tempo, Dio è morto) è già da sempre in frantumi, bruciata e tagliente. Anche in questo caso non c’è nessun fondamento, la pietra è fuoco raffreddato, che può però sempre tornare a bruciare e a muoversi. Il mondo si muove, il mondo è un vulcano che non si spegne mai, un vulcano che anche quando non erutta (come succede al Vesuvio) non smette di essere vivo, sempre sul punto di esplodere. Ogni città è sul punto di diventare un’altra Pompei. Il mondo si muove, appunto, non hai mai smesso di muoversi. Il cerchio di pietre, allora, non è altro che un gesto difensivo, il tentativo di tenere lontano quello stesso mondo che non smette mai di terremotare, cioè di vivere, ché la vita del mondo coincide con il suo incessante cambiamento e movimento. Il Vesuvius Circle rappresenta così da un lato un richiamo alla brutalità mobile del mondo, ma contemporaneamente una sorta di preghiera, ché il mondo ci protegga, che il mondo – nostro malgrado – non smetta di ospitarci.

Tony Cragg, Senza titolo, 1983

Motus terræ, il sopra diventa sotto, il sotto diventa sopra, non c’è più una gerarchia assoluta, il mondo umano è un mondo come qualunque altro, questo è il senso della scoperta dell’antropocene. È quello che vediamo nel lavoro – Senza Titolo, 1983 – di Tony Cragg: tre povere sedie da osteria di legno, due rivolte verso l’osservatore un’altra verso il muro (gli umani se ne sono andati, e con loro le abitudini e i gesti degli umani), in equilibrio instabile su delle pietre arrotondate. Le zampe sono tagliate per appoggiarsi sulle pietre, come sono tagliati anche gli schienali per accogliere al proprio interne delle altre pietre. Non si capisce, in effetti, se sono le pietre ad infilarsi nelle sedie, o se, invece, sono le sedie a nascere direttamente dalle pietre. Se non sapessimo già che le sedie sono oggetti artificiali, strumenti umani per riposarsi, si potrebbe pensare che le sedie siano strane forme di vita che inglobano al loro interno materiali inorganici. In realtà è la stessa distinzione metafisica fra legno e pietra, fra vivente e non vivente, fra artificiale e naturale ad essere messa in questione in questa piccola installazione. L’antropocene è già superato, e siamo ancora nel 1983, prima ancora che il concetto stesso di “antropocene” venisse inventato. In effetti per Tony Cragg questa distinzione, e proprio a partire dal sommovimento generale rivelato dal terremoto, è già superata. L’umano è intrecciato all’inumano, la funzione antropocentrica è già superata dall’innesto con le forme inorganiche, così come le linee verticali – così tipicamente legate al progetto e all’artificio – si confondono con le forme tondeggianti e pesanti delle pietre. E allora, fin dove arriva la natura, e dove comincia la cultura? Questa domanda non ha più senso, l’antropocene è già finito.

Sergio Fermariello, Senza titolo, 1990 (particolare)

È lo stesso effetto che si prova avvicinandosi lentamente al lavoro – Senza titolo, 1990 – di Sergio Fermariello, che, da visto da lontano, si presenta come una compatta superficie grigia. In realtà man mano che lo sguardo diventa più attento al dettaglio dell’opera – cioè quando ci si sforza a superare il diniego dello sguardo – ci si accorge che il lavoro consiste nella ripetizione di uno stesso minimo gesto grafico. Gesto ripetuto fino a saturare tutta la superficie del quadro. Il pieno si rivela allora un formicolio di vita, così come il vuoto diventa, nella reiterazione di un segno elementare, un pieno che sembra privo di lacune. Anche in questo caso è il sovvertimento delle gerarchie che l’artista mette in mostra. La metafisica, che oppone lo stabile al mosso, come il pieno al vuoto, non è più affidabile. È un nuovo mondo quello di Terræ Motus, un mondo che solo ora riusciamo a vedere. O meglio, un mondo che solo ora non possiamo più rifiutare di vedere.

Perché è ovviamente la terra che gli artisti scelti da Lucio Amelio hanno interrogato, e da cui sono stati interrogati. Una terra improvvisamente inaffidabile, ma non perché non ci possa fidare della terra – ché non possiamo affidarci che alla terra – al contrario perché la terra non smette di ricordarci che la terra è movimento, trasformazione, vita. La terra, piuttosto, ci mostra che proprio perché non crediamo in lei non facciamo altro che cercare di immobilizzarla, di trasformarla, di adattarla ai nostri bisogni. Il terremoto, allora, il terribile e distruttivo terremoto, ci ricorda che la terra c’è, c’è sempre stata, che noi stessi siamo terra. Che non siamo al di sopra, e al di fuori, della terra.

Anselm Kiefer, Et la terre tremble encore, d’avoir vu la fuite des géants, 1982

È infine la terra che possiamo vedere, e quasi toccare quanto è consistente la sua presenza sulla tela, in Et la terre tremble encore, d’avoir vu la fuite des géants (1982) di Anselm Kiefer. Un’opera ispirata alla battaglia di Waterloo, là dove finisce la gloria di Napoleone. È proprio nel contrasto fra la potenza dell’Imperatore e la terra su cui si svolge la battaglia decisiva che, ancora una volta, vediamo che il terremoto – evocato dalle linee che tagliano in diagonale il quadro, come le crepe che tagliano trasversalmente gli edifici e le strade lesionati dalle scosse – in realtà non fa che rimettere a posto le smisurate ambizioni umane. La battaglia, la Storia, le migliaia di morti, e poi la terra, che non ha mai smesso di essere semplicemente terra. Ecco che cosa non riusciamo a vedere, che cosa non sopportiamo di vedere, la terra. Ma la terra è paziente.

In copertina: Joseph Beuys, Terremoto in Palazzo, 1981

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