Non brevi i decenni del dislocarsi dal sottotraccia d’arterie, le tortuose curve i flussi d’aria impensati, d’una città che ho perduta e non smette di promanare getti-geyser dal vivo cratere del suo golfo liquido, dalla malleabile pietra che se ne cavò perché fosse edificata: dritti nei ritmi verbali che erigo a surrogarla. Sinapsi mi si tendono, e dilatano, su un rumoreggiante silenzio di sirena morta; fin nella camera (equorea, magmatica) della salinità: extrasistole, acqua del fuoco, ricordo al futuro, humus generativo fin nella soglia dell’estinguersi. Nuoto un acquario ancora amniotico fitto di branchie e suono, espirazione di bolle che riemergano ai piedi dei vulcani delle Superfici, emessi allato dei vulcani del Sotto; triturata, imbevuta d’acqua, l’ipertrofia-spugna dell’indistinto dire, s’avvolge di spezzati coralli di voci e di rumori, colate babeliche che si rapprendono per sciogliersi. La sonora conca di città, la conchiglia o corno in cui più spessa si avvolge la mia orlatura d’anima, è quella nel cui cuore mi si è sepolta l’oltreumana vergine d’acque, la fanciulla Partenope che morta, già in cattività forse in una cella atroce d’acquario, rinvenuta esanime sull’isolotto di Megaride, vibra mute armonie dalle mie, dalle nostre, corde: sopra l’ottusa-risonante cassa armonica di quello che fu il suo regno sottocrosta, subequoreo: tra affreschi di mostri marini, tra corteggi di nuvole erranti; come fosse da una bara d’argento, adesso alla deriva (e mi riviene a galla l’esecranda, sublime pagina di Malaparte), o alla postura orizzontale, natante, sott’acqua o nell’aria (pesce, comunque, di fondale), che sorprese Breton nel contemplare movenze d’una creatura di music-hall nel suo numero di danza: e però già “vista” una decina d’anni avanti, nella profetica poesia del Girasole. Così ogni notte, inavvertito, so che il pensiero vola alla vuota tomba di Partenope, eretta in un tempio poi riconvertito in basilica, che sorge più a valle del marmo del dio Nilo; «Omnigenum Rex Aitor […] Partenopem tege fauste» è lì inciso sulla lapide, a invocare l’onnigenerante Sole di Gennaio acché protegga le mortali, rimorte spoglie della sempiterna sirena. E rigenero, nella semiveglia, preghiera o scongiuro, rimemorando il futuro, la mormorazione-mantra dei miei epitaffi di naufrago, nell’emersione delle secche.

* oltre ai riferimenti qui dichiarati, nei testi che seguono compaiono tracce da liriche di Tim Buckley (Song to the Siren, 1970; e relativa cover dei This Mortal Coil), e di Pete Sinfield (King Crimson: Epitaph, 1969).





In copertina: ph. Jacqueline Lamba, “L’air de nager“