La soglia e la marca
Sulla copertina di Who’s Next, l’album del 1971 che seguì a Tommy, i quattro Who sono immortalati dopo avere appena urinato su una colonna grigia, unica traccia verticale su un terreno destinato allo stoccaggio di rifiuti. Chi ingobbito, chi assorto, chi istupidito, sullo sfondo di un cielo di nuvole bianche a compattare la distesa di terra brulla, i quattro ragazzi sono ripresi nell’atto di richiudersi la patta. Le quattro scie di piscio campeggiano sulla colonna, fanno eco alla sua verticalità.

Inizialmente, l’idea della cover era riprendere l’incipit di 2001 Odissea nello spazio: le scimmie che si accalcano nei pressi del monolite. Ma il gesto improvviso di Pete Townshend, leader del gruppo, di “non tenersela” e orinare sull’equivalente del monolite cambiò i piani. Gli altri lo emularono. Ne uscì fuori la copertina arcinota. Molto punk. Estremamente maschile. I codici ci sono tutti: quattro giovani maschi marcano il territorio, fosse anche il vuoto scatologico della “teenage wasteland” di Baba O’Riley, lasciano la loro traccia, poi ostentano la fine della pratica. Il rock può solo seguire.
Quella di Who’s Next è solo uno dei tanti esempi, icastico il giusto, di una linea di partizione tra maschile e femminile che un libro arduo a classificarsi illustra a dovere. L’oro è giallo di Benedetta Fallucchi è un romanzo e insieme un saggio, un memoriale e una finzione di autofinzione: alla storia di una narratrice anonima, madre di un bimbo che sta imparando a “regolarsi”, alle sue memorie, ai traumi e alle malattie tutte incentrate sul tema dell’urina, si mescolano considerazioni assai più ampie sul ruolo sociale della deiezione più ordinaria. L’organo è la vescica, l’atto è la minzione, e l’autrice lo indaga come soglia. Soglia culturale, soglia sociale dove gli usi si mischiano agli abusi, il divieto alla licenza, la gioia alla vergogna. Scrittura narrativa e ariosità saggistica si fanno il contrappunto. Ma L’oro è giallo parla anche attraverso un florilegio sapiente di ekphrasis che intervallano i capitoli. Fallucchi sceglie quadri di epoche distanti, e performance artistiche, installazioni recenti, che vanno a comporre un peculiare mosaico sull’uso psicosociale dell’urina. Che è innanzitutto un fluido divisorio: separa giorno e notte, il conscio dall’inconscio, la prima infanzia e le altre età, la borghesia dalle classi basse, l’ordine dal disordine. Nella psiche la sua presenza disturba sogni e quiete, anima incubi ma ritaglia anche porzioni di tempo ‘totale’. Nelle città il suo olezzo orienta lo sguardo, spinge all’apnea, forza a paure immotivate, perché è un segnavia culturale. Indica che dove c’è scarto di materia c’è anche scarto sociale.
L’ombra e l’acqua santa
Attraverso storie e immagini, il libro indaga i sottotesti – religiosi, politici, psicanalitici – delle parole e dei pensieri ‘deiettivi’. “Acqua santa”, il piscio dei bambini? L’espressione è meno innocente e poco beata. Tra i rites de passages, spiega Fallucchi, la minzione autogestita indica il transito dal controllo all’autocontrollo. L’occhio genitoriale, con le sue domande, le sue insistenze, i precetti, i consigli e i divieti, carica su di sé l’occhio sociale: è la prima intimazione all’infante di farsi occhio di sé stesso. Gestire l’idraulica dei propri flussi è la prima pietra di un ordinamento giuridico che poggia sull’individuo, e poggia sulla sua vescica. Chi controlla gli sfinteri ha introiettato un armamentario di regole che può rinfacciare ai ‘minori’, ai bisognosi di tutela.

Chi ‘si’ controlla, insomma, ha un super-io che gli dice dove farla e quando. E che gli dice anche il come. Perché non la si fa sempre o tutti allo stesso modo, né la si è sempre fatta così. Anche la minzione va storicizzata. Per esempio, quando in Europa la borghesia egemone aveva ormai interiorizzato il bisogno edificando stanze dedicate e privatissime, Gauguin in Te Poipoi registra per l’ultima volta una terra incontaminata della piscia, non colonizzata dal nostro sguardo. Una donna che si piega, solleva il vestito rosso, guarda lontano. Sullo sfondo un’altra donna a seno nudo. La minzione è qui liberatoria, dice il piacere di cui il libro parla anche in chiave sessuale, di concentrarsi su un organo soltanto, di sentirne l’energia e il predominio. Di sentirne la liberazione – come quella del cane che alza la zampa nell’Adorazione dei magi di Tiziano, proprio al centro del ritratto della sacrosanta famiglia.

Ma le cose appunto cambiano, dice Fallucchi, mentre la civiltà sancisce i suoi punti-luce: “il rifiuto delle escrezioni e delle deiezioni […] ha le sue radici nello sforzo costante di affrancarsi dall’ombra, dal buio della grotta platonica”. La civiltà tende a non accettare la penombra, quello che Jun’ichiro Tanizaki in Libro d’ombra chiamava il confine “labile tra il pulito e lo sporco”, lamentando l’introduzione filo-occidentale delle strutture in ceramica nei servizi igienici nipponici. Il desiderio di rendere ineccepibile il proprio spazio più privato, di cancellare la colpa della secrezione, si riflette nei materiali. E quindi il contatto con la propria corporeità va eliso, rimosso. La ceramica è forse il modo in cui la borghesia ha reso materia la propria amnesia.
Ma anche la plastica è venuta in soccorso. Nella società della trasparenza e del panopticon, dove ogni atto pubblico o privato è ripreso e potenzialmente o di fatto condiviso, dove i ricettori della pruderie e del decoro vengono sollecitati appena possibile, non solo la minzione resta perlopiù esclusa, ma costelliamo gli eventi pubblici – manifestazioni, concerti – di bagni chimici prêt-à-porter. Parallelepipedi rossi o blu intasano lo sguardo ovunque, affiancano le masse. Sono due metri cubi in cui restare invisibili per qualche secondo. Orinatoi non ancora ‘duchampizzati’ in cui chiudersi senza nulla toccare, nulla sfiorare, per non violare quella norma d’igiene apparentemente condivisa. O per non farsi vedere mentre la violiamo.
L’urina e lo sguardo
Vedere, farsi vedere. Pisciare è una lezione di sguardo rubato o negato. Monica Bonvicini costruì la sua installazione Don’t Miss a Sec dentro musei, mostre, esposizioni e vernissages. Vetri specchianti fuori, trasparenti da dentro, permettevano di “non perdersi” nulla proprio mentre si espletavano i bisogni, sicuri (ma non così tanto) di non essere viste/i. Che è proprio il punto.

Perché qui torna la linea di frattura tra i generi intravista nella copertina degli Who. Se il maschile che urina è addestrato a sentirsi dominatore dello spazio, a gareggiare sulla lunghezza del gettito, a contemplare e far contemplare la chiazza che resta, il femminile deve perlopiù nascondersi, mimetizzarsi. Gestire un’ipotesi di vergogna che può diventare una miscela putrida di effetti tra psiche e corpo (sono esilaranti, ma anche perturbanti, le pagine dell’Oro è giallo sulla tuta da sci fradicia di pipì che si fa ghiaccio).
Se gli Who ostentano chiazze e lampo semiaperte, le donne stanno accovacciate dietro macchine o siepi, sempre scortate da amiche-palo, coperte storicamente da gonne amplissime. Devono evitare a ogni costo l’occhio maschile, evitare una sessualizzazione impropria dell’atto obbligato. Il puer mingens di Bruxelles è stato affiancato da pochi anni da una puella altrettanto urinante ma più sfortunata, che la fa, ma la fa in un ‘recinto’ che in qualche modo, più o meno coatto, accetta. Il recinto indica uno spazio sacro.
Il coro e il recinto
L’eterno immaginario legato alla minzione femminile è quello di un sacro come spazio separato, un temenos o meglio una enclosure, con significati storici annessi e connessi. Ma il senso del sacro è sempre quello di una profanazione, di una trasgressione dolosa: un senso che sta tutto nel compiere ciò che l’interdetto vieta. Il recinto è lì per essere violato.
E qui emerge un altro elemento, più sottile e inquietante, che Fallucchi dipana tra la storia romanzata e l’ekphrasis. È una performance, Piedra di Regina José Galindo, a disegnare un profilo scuro dell’atto di espulsione più semplice. Piedra vuole raccontare lo sfruttamento nelle miniere di carbone, l’uso di corpi – di forza lavoro – come oggetti nelle miniere.Allora l’artista, cosparsa di carbone, si mette al centro di un circolo di astanti. Ogni dieci minuti un maschio, poi un altro maschio, poi anche una donna le urinano addosso: “l’ammasso nero immobile e quasi mimetizzato con la terra crepata grigia sotto di esso non reagisce al getto di urina, rimane lì dov’è, a disposizione del passante, e dello sguardo del pubblico che, come il coro di una tragedia, assiste al sopruso senza muovere un passo in soccorso della vittima”. Il pubblico resta a mormorare, ad assistere, a imprecare magari contro i carnefici, a volte contro le vittime. Poi si allontana. Oltre il coro, dentro il recinto restano le storie di persone, di donne rese pietre, monoliti marcati dai fluidi per recintare altri spazi come propri, cui poi dare le spalle.
Benedetta Fallucchi
L’oro è giallo
Hacca, 2023
158 pp., € 15
In copertina: Kiki Smith, Pee Body, 1992