La parola ai capelli

“Poi quello che mi aveva imbavagliata mi passò una macchinetta sulla testa: prima dalla fronte fino alla nuca e poi di traverso e dietro le orecchie, e intanto mi tenevano, in modo che potessi vedermi bene nello specchio del barbiere; e mentre vedevo quello che facevano non potevo crederci e piangevo e piangevo ma non potevo staccare gli occhi dalla mia faccia spaventosa, con la bocca aperta e le trecce ficcate dentro e la mia testa che usciva nuda di sotto la macchinetta”: nella Spagna degli anni Trenta lacerata dalla guerra civile la giovane Maria racconta all’uomo che ama, il volontario americano Robert Jordan, il giorno in cui è stata violentata dai falangisti di Francisco Franco. Lo stupro, però, è solo accennato: “Mi fecero brutte cose”. A restituire il senso dell’orrore e dell’umiliazione, in questa che è forse la scena più drammatica di un romanzo di Ernest Hemingway, Per chi suona la campana, un tempo molto famoso e oggi – come il suo autore – quasi dimenticato, è sufficiente il ricordo della rapatura brutale, di quel volto che si trasforma fino a diventare irriconoscibile a sé stesso.

Di scene simili, di teste maschili e soprattutto femminili rese nude a forza, se ne ritrovano tante nei romanzi, nei film, soprattutto nella vita vera. La più recente l’abbiamo vista poche settimane fa, appartiene a Elena Milashina, la giornalista russa della Novaja Gazeta, picchiata e rasata a zero a Groznij, in Cecenia, da un gruppo di ignoti aggressori che hanno voluto colpirla e umiliarla per le sue inchieste sulle violazioni dei diritti umani in Russia e nell’ex Unione Sovietica. Ancora un esempio – con ogni probabilità non l’ultimo, purtroppo – di una forma molto particolare di punizione che, come ha scritto l’antropologo francese Christian Bromberger in un saggio di qualche anno fa, Trichologiques (Bayard 2010, ripubblicato nel 2015 da Creaphis con il titolo Le sens du poil), ricorre attraverso i secoli in tutti i processi di dominazione e sottomissione.

Paul-François Quinsac, Portrait de Jean Rigaud, ca. 1910

Non è un’esagerazione. Lo aveva già detto Balzac: «Se uno storico non considerasse la storia dei capelli lunghi dei re franchi, la tonsura dei monaci, la rasatura del servo, la cipria aristocratica e il taglio à la Titus, mancherebbe il racconto delle principali rivoluzioni del nostro paese». E non si tratta solo della Francia: la storia umana, per come la conosciamo attraverso le immagini e i testi che ci sono arrivati dall’antichità più remota, è scandita da racconti e resoconti in cui si avvalora il potere quasi soprannaturale che più o meno consapevolmente attribuiamo ai capelli. Sansone e Dalila, Rapunzel, Berenice…: tra cronaca e leggenda gli esempi si susseguono, dalle chiome intonse dei reges criniti merovingi, alle lunghe trecce orgogliose delle antiche slave e per converso all’imposizione di un copricapo o del velo (ben precedente ai dettami islamici) o appunto alla rasatura inflitta ai ribelli e agli sconfitti, più spesso alle ribelli e alle sconfitte – che siano le streghe medievali o le donne accusate di avere avuto a che fare con il nemico (impressionante, a quasi ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, il documentario La tondue de Chartres realizzato nel 2018 da Patrick Cabouat su una collaborazionista rapata fotografata da Robert Capa in uno dei suoi più celebri scatti).

Robert Capa, 16 août 1944, rue Collin-d’Harleville, à Chartres © Magnum Photo – ICP

Lo studio di Bromberger è uno dei punti di riferimento della giornalista Elena Martelli, che ha da poco pubblicato un libro, All’aria sparsi, con l’intento ambizioso di ricostruire una “storia culturale dei capelli” (questo il sottotitolo) dopo avere provato, in seguito a una terapia oncologica, “il lutto della perdita” ed essersi ritrovata “tra i puniti e le punite”: “Prigionieri e prigioniere di guerra, schiavi e schiave, traditori e traditrici, meretrici, pazze, possedute (prevale il genere femminile), una categoria che attraversa le epoche e, in continua evoluzione con il medesimo significato privativo, la contemporaneità”. Proprio riflettendo su questo destino collettivo che “rendeva piccina la [sua] preoccupazione personale”, Martelli è arrivata alla conclusione che “dalla nascita dell’Homo sapiens fino alla costruzione dell’immaginario cyberpunk, le nostre chiome sono state il codice per leggere le più diverse identità, i mutamenti più complessi delle nostre società e della realtà tutta”.

Partiva proprio dal senso di questa umiliazione nel 2015 l’autrice e artista visiva Franca Rovigatti nella sua installazione foto e video A testa nuda che – come All’aria sparsi – traeva origine da un’esperienza personale di malattia e di perdita per ribaltarla di segno: “La rasatura dunque (e il lavoro che mi è sembrato necessario fare sulla rasatura) – notava Rovigatti nel testo di presentazione – è stata un’occasione di consapevolezza: mostrarsi nudi e crudi come si è, con le paure, i pensieri, le rughe, la malattia, l’invecchiamento”.

Franca Rovigatti, A testa nuda

Sì, in assenza e in presenza, “i capelli parlano”, come scrive Elena Martelli, ci dicono molto di quello che siamo e più ancora di quello che (non) vorremmo essere – e non, beninteso, solo quelli delle donne. Ancora oggi, in un’epoca all’apparenza del tutto secolarizzata, li consideriamo l’emblema più vistoso della nostra personalità, un emblema che può diventare lo strumento più immediato per esprimere dissenso e disprezzo verso un’idea stereotipata della bellezza e dei ruoli.

Oggi il dizionario Treccani definisce il “capellone” una “persona che segue la moda giovanile di portare i capelli molto lunghi, acconciatura che, specialmente negli anni ’60 e ’70 del Novecento, ha avuto valore di protesta anticonformista”. Definizione precisa, in cui tuttavia si trascura (per caso?) di precisare che quelle “persone” erano uomini, e la loro trasgressione consisteva nell’avere adottato un simbolo antico di femminilità. Inversamente, ancora oggi la scelta femminile di rasarsi – sebbene meno audace di un tempo – può evocare un’idea di malessere, come testimonia la triste tosatura a favore di video di Britney Spears, il cui “scalpo – nota Martelli – non è un suicidio, ma l’uccisione di un modello femminile creato dall’industria musicale”.

Ma se tutto questo è vero, se i capelli sono un manifesto che ci portiamo (o no) in testa, è perché oltre e dietro le mode uno statuto singolarissimo li regola. Peli e capelli, infatti, ci appartengono, fanno parte di noi come le orecchie, il naso o le gambe, eppure – a differenza delle altre componenti del nostro corpo – li possiamo manipolare e trasformare (tagliare, tingere, lisciare, arricciare, arricchire, acconciare) in modo indolore, quasi fossero un accessorio esterno. Al tempo stesso capelli e peli sono, del nostro corpo, una delle parti più durature, in grado di sopravviverci quando di noi si sarà perso il ricordo. E soprattutto mettono in luce un tratto che forse più di ogni altro caratterizza la nostra specie: il desiderio degli umani di essere, per l’appunto, speciali. Da un lato le nostre pelosità ci ricordano che non è così, che anche noi siamo pur sempre bestie, mammiferi villosi come le scimmie o le pecore o i castori. E tuttavia, proprio in virtù dei cambiamenti a cui possiamo sottoporli, sono anche la dimostrazione che abbiamo il diritto di considerarci diversi (superiori?).

Kerry Howley, Attraction Aversione necklace

Da questa constatazione ha preso le mosse lo storico francese Denis Bruna, curatore di un’esposizione sempre molto affollata, che si può visitare fino al 17 settembre presso il Musée des Arts Décoratifs di Parigi e che, come il libro di Elena Martelli, mette al centro capelli e peli, Des cheveux et des poils: “La pelosità – scrive Bruna nel testo di presentazione della mostra, intitolato non casualmente Domare l’animale che è in noi – è una caratteristica che gli umani condividono con quasi tutti i mammiferi, un accostamento che non manca di suscitare un certo imbarazzo. Il solo modo di sfuggire a questo stato ferino è addomesticare, imbrigliare, domare i capelli e i peli: dall’antichità all’epoca contemporanea la capigliatura diventa ornamento, e dunque diventa umana, solo quando è curata, spazzolata, pettinata, intrecciata, agghindata e ricoperta degli oggetti più vari”.

È un processo lungo e costante, che – lo testimonia la ricchezza di esempi portati da Martelli e da Bruna – assume, a seconda dei periodi storici, dimensioni e aspetti diversi, alternando fasi di grande stravaganza e di studiata naturalezza. Così, alle elaboratissime acconciature in uso alla corte di Luigi XVI e di Maria Antonietta (la cui creazione richiedeva grande perizia e ancor più grande pazienza: guardare per credere il breve documentario realizzato in occasione della mostra e visibile anche in rete) non può che seguire, nella Francia post-rivoluzionaria, un richiamo alla semplicità e ai valori, veri o presunti, dei tempi antichi, che trovano forma nell’acconciatura unisex alla Titus o alla Brutus, quella di solito associata ai ritratti di Napoleone. Ma seguiranno altre mode, il pendolo punterà di nuovo verso l’artificio e la complessità, e più avanti, con la fine della prima guerra mondiale, verso una ipotetica liberazione da regole e modelli troppo rigidi.

Sarà vero? La galleria di pettinature famose degli ultimi quaranta o cinquant’anni che chiude All’aria sparsi, le sale della mostra parigina dedicate alle nuove mode della depilazione maschile e femminile insinuano qualche dubbio, ci chiedono se sia davvero possibile, a proposito di capelli e di peli (ma non solo), sbarazzarsi dei canoni e dagli stereotipi, anche quelli che assumono forme ibride, liquide, fluide. E intanto, a proposito di capelli e di peli, succede che ci siano donne rapate per sfregio, uccise perché chiedono di non coprire la testa.

Elena Martelli
All’aria sparsi. Storia culturale dei capelli
il Saggiatore 2023
264 pp., € 18
 
Des cheveux et de poils
a cura di Denis Bruna
Paris, Musée des Arts Décoratifs
fino al 17 settembre 2023

In copertina: manifesto pubblicitario per l’esibizione di Annie Jones, la “donna barbuta” (1865-1922)

Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «manifesto»

Maria Teresa Carbone

Giornalista, autrice e traduttrice, ha coordinato la redazione della rivista online «alfabeta2» dal 2014 fino alla sua chiusura, nel settembre 2019. In precedenza ha diretto la sezione Arti del settimanale «pagina99», ha lavorato alle pagine culturali del quotidiano «il manifesto» e ha curato alcune edizioni del festival romapoesia. Da diversi anni si occupa di promozione della lettura in Italia e all’estero. Il suo libro più recente, “111 cani e le loro strane storie”, è uscito nel 2017 per Emons e l'anno successivo è stato tradotto in tedesco.

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