È nel 1964 che l’artista Kazuko Miyamoto (Tokyo, 1942) si trasferisce a New York. Completa la sua formazione artistica presso l’Art Students League, prestigiosa e innovativa istituzione statunitense in cui sono cresciute e hanno insegnato personalità artistiche fondamentali per la storia dell’arte americana tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, tra cui Louise Nevelson, Georgia O’Keeffe, Helen Frankenthaler, Eva Hesse e, poco prima di lei, l’artista giapponese Yayoi Kusama.

Il primo impatto con le opere e il materiale documentario, fotografico e video, ampiamente raccolti e impeccabilmente allestiti al Madre di Napoli (fino al 9 ottobre) nella mostra curata dalla neodirettrice Eva Fabbris, rimanda al concetto di contaminazione. Risulta difficile poter dividere e separare, nel modus operandi e nella produzione dell’artista, ciò che può essere definito intrinsecamente occidentale, americano, minimalista – la cultura di arrivo – dalle pratiche meditative, filosofiche, religiose della cultura orientale, giapponese – la sua cultura di partenza. Questa considerazione apre alla profondità di argomenti e riflessioni che scaturiscono dalla visita della mostra, accompagnata da un Public Program che ha debuttato il giorno dell’inaugurazione, il 6 luglio scorso, con la straordinaria performance vocale dell’artista giapponese Hatis Noit).
L’attenzione con cui è costruito il percorso espositivo è caratterizzata da sobrietà ed eleganza e prende forza da una approfondita ricerca scientifica sulla produzione di Miyamoto e da un intenso scambio con l’artista e il suo archivio, gestito dal figlio Eizan, a New York.

vista dell’installazione presso 55 Mercer Gallery, New York, 1973.
Collection of the Solomon R. Guggenheim Museum, New York ©Kazuko Miyamoto
Sono due string constructions dei primi anni Settanta e in prestito da importanti istituzioni museali d’oltreoceano a presentare Miyamoto al pubblico. Le opere sono composte da spago e chiodi e occupano le pareti principali della prima e seconda sala. Scopriamo in questi primi lavori l’inevitabile influenza di Sol LeWitt, suo vicino di casa sin dall’arrivo a New York e di cui Miyamoto fu assistente dal 1968. Proprio nello studio dell’affermato artista americano, la giovane artista realizza i suoi primi esperimenti creativi ed elabora la tecnica che diventa la sua cifra stilistica nel tempo. Contemporaneamente, avvengono gli incontri con artiste, come Adrian Piper e Ana Mendieta, che stabilivano in quegli anni le loro pratiche espressive e con le quali, in quegli stessi anni, partecipa all’apertura di A.I.R., primo spazio espositivo newyorkese dedicato esclusivamente ad artiste.
Minimalismo e femminismo si fondono con rigore e controllo nella messa a punto del codice visivo di Miyamoto che, attraverso i chiodi e lo spago, ripropone una modalità di tirare le linee che ricorda l’edilizia – mondo prettamente maschile – ma piegando la geometria e la rigidità dei materiali in tessiture spezzate e intricate che creano una trama inutile e poetica sulla parete.

vista dell’installazione presso A.I.R. Gallery, New York, 1977
Courtesy l’artista; EXILE; Take Ninagawa, Tokyo
©Kazuko Miyamoto
Scopriremo, proseguendo la visita, che questo metodo passerà dalla bidimensionalità della parete alla tridimensionalità della stanza: i chiodi in Male I (1974) e in Sail (1978), invadono lo spazio e quello che ne risulta sono sculture leggere che crescono attraverso la percezione dello spettatore. Così come richiede il canone minimalista, ma unito, nel caso di Miyamoto, all’organicità del risultato che ricorda cespugli, piante se non animali raggomitolati su se stessi. Giunti da chissà dove e cresciuti lì sotto i nostri occhi, questi animali incrociano il nostro cammino, costringendoci a modificarlo seguendo linee curvilinee inaspettate.

vista dell’installazione presso A.I.R. Gallery, New York, 1979
Courtesy San Francisco Museum of Modern Art; photo Tom Flynn
Il colore bianco dello spago tende a far sparire all’occhio l’intervento artistico, mentre quando lo spago è nero ci immerge in spazi avvolgenti in cui poter entrare e perdersi e/o proteggersi, come in Black Poppy (1978).
Negli anni Ottanta Miyamoto inizia a utilizzare materiali naturali come rami d’albero recuperati nei parchi cittadini e carta arrotolata, costruendo spesso ponti appesi nel luogo stesso dove sono stati trovati gli elementi che li costituiscono. La contaminazione da cui eravamo partiti diventa, nella metafora del ponte come in Bell Bridge (1980), condivisione, collegamento, confronto. Strutture leggere, costruite assemblando elementi che uniscono, anche in questo caso, quei due mondi che le appartengono: l’occidente e l’oriente.

Vista dell’installazione presso Bryant Park, New York
Courtesy l’artista e EXILE
Le fotografie che troviamo allestite lungo il percorso diventano pellicole vintage che ricoprono le finestre del Madre, quei buchi aperti sulla casualità dell’architettura napoletana che circonda l’edificio restaurato da Álvaro Siza Vieira nel 2005. Un carousel di diapositive ci mostra l’artista in performance urbane, circondata da gatti e piante, al lavoro con poche persone, raccolta sull’opera in divenire o sorridente tra le braccia di un complice ballerino. È la New York degli anni Settanta e Ottanta, che riconosciamo per averla vista immortalata in tante pagine e immagini dedicate alle maggiori personalità dell’arte statunitense dell’epoca, quasi tutti uomini, bianchi, giovani e belli. La mostra partenopea, la prima personale in una istituzione europea, allarga questo panorama includendovi una figura minuta con i capelli neri, la cui vita artistica cresce e si afferma accanto a quella di artisti che, a differenza di Miyamoto, hanno goduto di un riconoscimento ampio e internazionale.
Dare voce a storie non ancora note e raccontate nell’arte contemporanea: questo fa la mostra su Miyamoto, con una fermezza e una pacatezza lontane da ogni retorica. Qualità che permeano l’impostazione concettuale del percorso espositivo e rispecchiano la professionalità della curatrice, capace di farci entrare in un territorio storicizzato ma poco battuto, che guarda a un periodo storico fertile della contemporaneità. E lo fa attraverso le opere di una personalità meno nota, ma non per questo meno incisiva.

Napoli, tappezzata nei punti strategici dall’immagine di Kazuko Miyamoto e delle sue opere, dalla metropolitana alla stazione centrale, dall’esterno del Madre alle bacheche stradali, avrà il potere di trasformare, al termine della mostra, l’esile figura dell’artista giapponese in un’icona femminile della cultura artistica internazionale.

Courtesy l’artista
Kazuko Miyamoto
a cura di Eva Fabbris
Madre, Napoli
fino al 9 ottobre 2023
In copertina: Kakuko Miyamoto, Wheels, 1990, matita, pennarello, foglio; courtesy l’artista e Galleria Alessandra Bonomo, Roma