Totale, proiettivo, in atto. Luca Maria Patella, 1934-2023

04/09/2023

“Io sono convinto che, al di là dei passatempi-perditempo, o dei riempitivi stilistici, economici, che mercanti e critica sostengono: da tempo, ad un artista, ad un intellettuale non si pongano problemi di obbligati soggiorni univoci negli specifici, né di interdisciplinarità delle arti, o di sbrigativi confronti arte vita. Quello che urge – ben oltre le avanguardie, storiche o recenti – è un Campo assai più sostanziale di rapporti totali fra (lo dirò senza guinzagli, né riferimenti a centri di potere): arti (naturalmente anche letterarie, etc.), scienza, vita; o semiologie, realtà, realtà storica del linguaggio: INConscio/ COSCienza!

Con queste parole Luca Maria Patella, scomparso a Roma il 25 agosto all’età di 88 anni, apriva uno dei suoi libri più visionari, «Jacques le fataliste» di Denis Diderot come autoencyclopédie, pubblicato nel 1985. Un’analisi, idiosincratica come sempre sono state le sue intuizioni, con la quale si proponeva di indagare, a partire dal romanzo filosofico del grande illuminista, “la struttura psicologica profonda dell’intellettuale e dell’artista”. Il testo di Patella muove da un’intuizione originale: il romanzo, uno dei testi più affascinanti e commentati del XVIII secolo, non è per lui altro che il tentativo dell’autore Diderot di esplorare la propria psiche, di assumere “‘in toto’ se stesso, la sua crisi e il suo profondo”, nel tentativo di raggiungere le regioni inconsce attraverso un racconto “proiettivo”, un “sogno” in cui entrano in scena due attori principali, Jacques e il suo padrone, ovvero: “DEN = (Denis) = i contenuti più profondi e inconsci della dinamica psicologica di Denis Diderot” e “DID = (Diderot) = i contenuti ed i comportamenti più coscienti culturali o socializzati (della psicologia) di Denis Diderot”.

Jacques le fataliste, Edizioni del Grifo, Montepulciano 1985

Ma il libro di Patella non è né un saggio erudito né una digressione letteraria intorno al testo del celebre philosophe. Piuttosto, è una peripezia allegorica al cui centro sta l’enigma dell’identità dell’artista che ausculta incessantemente il proprio mondo interiore alla ricerca di una comprensione più sottile, più penetrante, dei poteri e dei limiti della propria creazione. E questo in un momento del suo percorso individuale – i primi anni Ottanta dello scorso secolo – in cui il rapporto col presente, con uno scenario culturale che pure avrebbe potuto trovare in lui uno dei suoi maestri, si allentava per far emergere una domanda urgente: come ridefinire se stessi e la propria pratica creativa in una dimensione ormai definitivamente appartata, solitaria? Come rinascere insomma dalla propria crisi? La solitudine è di certo in Patella in quel momento una scelta obbligata e al tempo stesso accolta con lucidità consapevole, una condizione che in lui agisce come un fermento, una carica di energia adolescente che lo avrebbe sospinto fino all’ultimo, fino agli anni passati in vecchiaia sempre in casa, insieme a Rosa Foschi, sua “Musa letteraria e totale”, artista per suo conto e coscienza critica della coppia, immerso nei fogli su cui appuntava incessantemente e con mano veloce idee, parole, immagini, versi, che finivano per affollare anche le sue lettere manoscritte, densissime di segni, colori, rimandi, inserti di ogni genere.

Rivendicando la singolarità della propria posizione, la propria testarda indipendenza, la capacità, rara se non unica nel panorama italiano, di praticare il mestiere d’artista e simultaneamente quello di poeta e di saggista, Patella è una figura che ha insieme abitato la propria epoca e ne è fuoriuscito per testimoniare in ogni piega del proprio lavoro una appassionata, incontenibile vocazione sperimentale, fiduciosa nel potere dell’arte di ringiovanire il mondo. C’è sempre stato del resto in lui un desiderio irresistibile di inceppare le grandi macchine ideologiche, i troppo regolari orologismi del senso comune. Sempre in ogni caso attribuendo al gioco libero e inatteso dei significanti – il suono, il “colore” di immagini e parole – il ruolo di strumenti essenziali, debitore e interprete in questo della tradizione psicoanalitica, e di Jung e Lacan in particolare. Per questo anche il suo modello di inadattabilità alle regole e insieme di intelligenza dell’arte e della vita è sempre rimasto Marcel Duchamp con il suo alter ego femminile Rrose Sélavy; con lui condivideva la passione per i giochi verbali e visivi, per gli slittamenti e i rimontaggi di oggetti e parole, con cui ironicamente mettere in luce la precarietà del mondo e l’illusorietà delle sue istituzioni più sacrosante, l’arte per prima. La sua installazione Boschetto di Alberi Parlanti e profumati e di cespugli musicali sotto un cielo di nuvole in movimento, presentata a Liverpool nel 1971, condensa in forma esemplare la sua posizione. In un ambiente, sul cui soffitto è proiettato un cielo diurno, sono disposti dei piccoli alberi dai quali, se lo spettatore poggia l’orecchio ai tronchi, è possibile ascoltare dei “discorsi” di intonazione di volta in volta diversa, ironica, scientifica, ideologica, una trasposizione giocosamente dissacrante del celebre sonetto baudelairiano Correspondances (“La Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuses paroles, ecc.), in cui l’interesse poverista per la “natura” diviene teatro dell’ibridazione e dell’artificiale.

Gli Alberi Parlanti, 1971, installazione al MACRO, Roma 2015

Al troppo pieno del valore, alla risonanza maligna della ripetizione, Patella ha potuto opporre solo il paradosso della moltiplicazione iperbolica, del frammentarsi e ricomporsi infinito della lingua, della sua primitiva e sempre sorprendente capacità di aggregare altre regioni, altri contesti. Per lui il tramonto del senso è sempre preceduto, o forse rinviato, da un’interminabile, struggente crepuscolo pieno di echi, di pensieri, di sogni, di umorismo impalpabile, così che i suoi lavori sono costantemente animati da divagazioni sorridenti, da una specie di studiata sbadatezza, da un “divertirsi” che è poi, forse, o soprattutto, un “divergere” dalla gravità del mondo circostante. Il “gioco intraverbale dei significanti” di Patella, come l’ha chiamato Andrea Cortellessa, appare così, nella sua indisponente gratuità, il segno di un fondamentale scetticismo che rinvia a sua volta a una personalissima visione del mondo e dell’arte: una sorta di riluttanza, di avversione istintiva nei confronti delle soluzioni già pronte, in fondo dell’ipocrisia come strategia di sopravvivenza. Il coraggio e la follia dell’isolamento, forse anche il fascino del circolo vizioso, per quanto esso può offrire in termini di difesa dai mali sociali e dalle nevrosi individuali. Esiste in proposito un documento per molti versi rivelatore, una sorta di confessione in forma di diagramma psichico, contenuto in un libro del 1975, Io sono qui (Avventure & Cultura). Libro totale proiettivo in atto, uno dei più complessi e riusciti di Patella, in cui si leggono queste righe: “creatività, come protesta da disadattamento. creatività, come azione morale”; o ancora: “ossessione, come magia nevrotica, da insicurezza e impotenza. (colpa)”.

Del resto, Patella era ben consapevole di essere stato per molti versi un precursore, specialmente nell’uso in campo artistico della fotografia e del film, penso ad esempio al suo Ambiente proiettivo animato, presentato alla galleria l’Attico a Roma nel 1968, in cui una serie di proiezioni a grande dimensione di diapositive trasformava radicalmente lo spazio di esposizione, o a film d’artista come Terra animata, 1967, e SKMP2 del 1968. Attivo già nei primi anni Sessanta, non ancora trentenne, aveva a lungo lavorato nel laboratorio della Calcografia Nazionale a Roma, sperimentando nuovi approcci a tecniche tradizionali come l’incisione e la litografia, per approdare poi alle straordinarie tele emulsionate realizzate a partire dal 1966, e poi al 16mm, alle Polaroid, alle fotografie realizzate con il fish eye o il foro stenopeico, e ancora a tutta una serie di esperimenti tecnici e formali proseguiti si può dire fino agli ultimissimi anni. “Non sono diventato concettuale o comportamentista o citazionista – si legge in un testo di Patella del 2007 –, ma per ‘necessità’ personale ho anticipato queste dimensioni, intendendole, per giunta, in maniera molto più globale, concreta e necessaria di quanto si sarebbe fatto (e non fatto!) in campo artistico. Si tratta della mia Arte & Non arte: l’artista che non è certo meno creativo (anzi!), quando è anche un intellettuale, consapevole, non solo di altre arti, ma anche di altre discipline: filosofiche, psicoanalitiche, storiche e linguistiche.”

Immagine oggettiva complessa-riflessa, tela emulsionata, 1967

Inclassificabile e altamente personale, l’opera di Patella può forse essere ricondotta alla dimensione aperta e polimorfa delle mitologie individuali, esplorata da Harald Szeemann a documenta 5 nel 1972. Mitologie da intendersi come autonarrazioni, come percorsi appunto altamente individualizzati, imprevedibili, e imprevisti, fuori dalle griglie di interpretazione prevalenti, di cui anzi costituiscono altrettante pietre d’inciampo. Per Szeemann queste personalità artistiche, benché prive di denominatore comune, erano in sostanza indifferenti alle problematiche formali e concettuali che dominavano il dibattito del loro tempo, e al contrario apparivano concentrate nella realizzazione di una particolare sintesi di “intenzione ed espressione” il cui carattere ermetico era allo stesso tempo garanzia di autenticità e motivo di (auto)isolamento. Nella prospettiva delle “mitologie individuali” Patella è forse un caso ancor più singolare, data anche la vocazione al commento, al racconto, alla postilla erudita, che ha sempre caratterizzato la sua produzione, specie quella, ancora sostanzialmente poco esplorata, dei libri, delle “Gazzette”, delle numerosissime pubblicazioni – a un libro ancora lavorava febbrile quando lo ha colto la morte – che hanno scandito la sua traiettoria.

Per il Roland Barthes lettore di Bouvard et Pécuchetla grandezza tutta moderna di Flaubert sta nell’aver individuato la fondamentale ambiguità dell’enunciazione, per cui “il linguaggio non partecipa né della verità né dell’errore, ma di entrambi: ragion per cui non si può sapere se è serio o meno”. Il linguaggio non offre più alcuna garanzia, e la proliferazione dei significanti, l’impossibilità di stabilire una gerarchia, di accertare la loro veridicità è il segno inequivocabile di una condizione di crisi, di una “difficoltà di senso”. Di qui – certamente per Flaubert, ma anche per il suo appassionato allievo Patella –, la sensibilità per il carattere insieme ossessionante e infinitamente plastico della lingua, la possibilità, cioè, di una scrittura e riscrittura infinita, di un’ars combinatoria che nell’artista visivo diviene, com’è del resto prevedibile, proliferazione, scomposizione e ricomposizione di segni, luoghi, immagini, presenze, oggetti esotici o familiari. Di qui forse anche la permanente e inesplicata attrazione di Patella per i giochi ottici, le deformazioni, le anamorfosi, le scomposizioni prismatiche e le corone iridescenti che appaiono ad esempio nelle sue fotografie stenopeiche, manifestazioni, ancor più e prima di un codice esoterico, di un dubbio che rode la stessa sensazione visiva, della necessità nevrotica di un continuo supplemento, e messa a punto, e precisazione, e ancora scomposizione, e deriva, di ogni immagine.

Mysterium Coniunctionis, 1973-1984, installazione, MACRO, Roma 2015

Con la sua inesauribile vocazione di autoarcheologo, autocollezionista e autoaruspice, Patella sembra aver costantemente ricercato nel corso di una vita creativa estesa su più di sei decenni la possibilità di conquistare una sagesse in grado di trascendere la limitatezza, la rigidità dei linguaggi, di sottrarsi alla asfissiante dittatura degli stereotipi, di spingersi a passo lieve oltre la curvatura del tempo. Ma l’esorcismo non poteva mai riuscire perfettamente, la trascendenza rimaneva sbarrata, l’incantesimo alla fine sempre imperfetto. A sua volta, quella che appariva a volte la determinazione di uno scienziato armato di ragione e scetticismo si rivelava ben presto anch’essa una “magia nevrotica”, incapace di illudere anche chi la pratica. La sua stessa passione per le simbologie alchemiche e astrali, per l’esoterismo, per l’iconografia sapienziale, mi è così sembrata sempre seria a metà, sempre un po’ tongue-in-cheek, come del resto era stato per il suo modello Duchamp. In questa distanza ironica – che si infiltra anche nei suoi progetti più ampi ed esoterici, come le effemeridi e le mappe cosmiche raccolte nell’installazione Mysterium Coniuctionis –, leggo il senso più autentico di una scommessa che ha avuto come posta non la forma, né il senso, ma l’esistenza tutta, dentro e attraverso il linguaggio e l’immagine. Una ricerca di salvezza che è stata insieme regressus ad infinitum e tentativo mimetico: riverberare, nel costante disfarsi e ricombinarsi di parole, colori, forme, immagini, il fluire di un’energia autorigenerante, transindividuale e transumana, in cui alla fine confluire e disciogliersi interamente.

Gli Arnolfini-Mazzola a Montefolle, 1980

In copertina: Luca Maria Patella, Vedo, Vado!, 1967, film, colore, sonoro, 15′

Stefano Chiodi

Ha pubblicato numerosi saggi sull’arte e la cultura visiva tra primo Novecento ed età contemporanea; tra i suoi libri, “Genius loci. Anatomia di un mito italiano” (2021); “La bellezza difficile” (2008), “Una sensibile differenza” (2006); è uno degli autori di “Espresso” (2000). Ha curato edizioni di testi e cataloghi, tra cui Alexander Nagel e Christopher Wood, “Rinascimento anacronico” (in corso di pubblicazione); “senzamargine”, (con B. Pietromarchi, 2021); Marina Ballo Charmet, “Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia” (2017; ed. ingl. 2019); Alberto Boatto, “Ghenos Eros Thanatos e altri scritti sull’arte” 1968-2015 (2016); “Marcel Duchamp. Critica, biografia, mito” (2009); Achille Bonito Oliva, “Il territorio magico” (2009); Franco Cordelli, “Il poeta postumo” (2008); “annisettanta” (con M. Belpoliti e G. Canova, 2007); Odilon Redon, “A se stesso” (2000). Tra le mostre curate di recente: “Alberto Boatto, Lo sguardo dal di fuori”, MAXXI, Roma 2020-21; “Marina Ballo Charmet. Fuori campo”, Istituto italiano di cultura, Madrid, 2019. Ha organizzato convegni e condotto programmi culturali per Radio3 RAI. Scrive su “il manifesto”, “il verri” e altre testate; ha co-fondato nel 2011 e co-diretto fino al 2019 www.doppiozero.com. Ha tradotto, tra gli altri, testi di Jean-Christophe Bailly, Pierre Bourdieu, Jean Clair, Georges Didi-Huberman. Insegna Storia dell’arte contemporanea all’Università Roma Tre.

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