Se c’è qualcosa che Pierre Alferi ha cercato di pensare e, ancor più, di abitare è un tornante della storia. Ha saputo, nei suoi sessant’anni di vita, ritornare, sempre di nuovo, a chiedersi come rispondere, non tanto alla fine di un mondo, ma all’inizio di un altro. Non ha mai avuto paura di sperimentare nuove forme di narrazione dello sconosciuto che gli veniva incontro, di questo mondo senza figure direttrici, nel quale le vecchie forme espressive sembravano sgretolarsi, prima fra tutte quella visione della storia basata sui punti fermi di un’ideologia o di una struttura portante.
Alferi era, in tutto e per tutto, un post-decostruzionista. Aveva metabolizzato l’inquietudine derivante dalla dissoluzione di un mondo e si avventurava, senza paura, alla ricerca di nuovi nomi per quel che era rimasto sul tappeto (Le Cinéma des familles, 1999). Ricostituiva una lingua, un linguaggio per ciò che sembrava averlo perso, senza mai allentare la presa sulla barra che lo guidava nella direzione del solo indecostruibile, la giustizia – o, almeno, ci provava.
Non ha mai mostrato nostalgia del passato ma non ha nemmeno mai rinunciato a nulla. Il romanzo nella sua forma teleologica era morto e allora occorreva pensare una nuova narrazione romanzesca, nella quale l’assenza di un fine e di una fine non impedisse di continuare a tessere trame di senso, fosse pure attraverso lacerti di realtà, piccoli mondi, singolarità disseminate, dolori senza risposta, gioie improvvise (Hors sol, 2018).
La poesia, come struttura lirica di un cosmo in cui la parola aderisce alla cosa, è morta e allora occorre scrivere poesia a partire dalle nostre esistenze che navigano sulle superfici scivolose di una nuova ontologia, in cui lo scollamento tra le cose e la rappresentazione è compiuto, ma che, al di là di tutte le apparenze, silenziosamente, ci sospinge verso un nuovo inconnu (Sentimentale journée, 1997; L’inconnu, 2004).
Pierre Alferi ha saputo rendere la letteratura al suo imprevisto, ha saputo rendere la letteratura un imprevisto, qualcosa di cui non si conosce già il senso, il perché, l’avvenire (divers chaos, 2020). Ha esposto la scrittura, in tutte le sue forme, all’evento puro – anzi, spurio – del fatto linguistico. E non pago, l’ha allargata a quel che la scrittura non poteva più dire o a quelle dimensioni in cui la scrittura sembra oggi svanire: il disegno, l’immagine, il video (Cinépoèmes et films parlants, 2004; Des enfants et des monstres, 2004).
Decine di opere che, accumulatesi dai suoi vent’anni sino alla sua prematura scomparsa qualche giorno fa, costituiscono un hortus conclusus di grande ricchezza (la filosofia medievale è il fulcro originario del suo operare, fulcro mai dimenticato – Guillaume d’Ockham le singulier, 1989). Ma cosa sia questa summa così eterogenea di scritti, immagini e pensieri che Alferi ci ha lasciato, è davvero difficile dire. Forme incerte, ibride, disseminate su tutti i supporti. Parole lanciate verso sistemi orbitali imprevedibili, alla ricerca di un destinatario, di qualcuno che le inanellasse, quelle parole, inserendole, ogni volta di nuovo, in una partitura di senso (Parler, 2017). Un corpus non sistematico, il suo, che sollecita l’immaginazione del lettore; che invita a pensare; a immaginare; ad aprirsi a quel che viene (Brefs, 2016).
In fondo, tutto era già contenuto in quel suo testo, così scarno e potente, dei primissimi anni novanta, dal titolo inequivocabile, Cercare una frase (1991). La letteratura come azione, come ricerca senza fine, spogliata da inutili fingimenti retorici, ma anche senza la pretesa di attingere un grado zero o un’immediatezza assoluta. Il semplice cercare la cosa più semplice, una frase. Ogni volta ancora, una frase, una frase per ogni nuova occorrenza, una frase per ogni singolarità. Niente di più ma neanche niente di meno. Enfin bref… Pierre, quella frase, non ha mai smesso di cercarla.
In copertina: Pierre Alferi, Paris, 2007 ph. © Anne-Lise Broyer