Reversing the Eye

“Cara…io penso che le cose non esistano”

In realtà, all’inizio, di Reversing the Eye mi ha colpito un suono: regolare, meccanico, fisico, quindi vecchio. Lo schioccare disciplinato di qualche manopola invisibile all’interno di un proiettore di diapositive, che scandiva il tempo facendo apparire su uno schermo sei immagini di Giuseppe Penone e dei suoi occhi rovesciati, sempre più grandi e netti man mano che il volto si avvicinava e infoltiva lo schermo con la sua presenza (Rovesciare i propri occhi, 1970). Analogia con il titolo, ho pensato, ma qualcosa ancora sfugge: forse la parola ‘rovesciare’, oppure il fatto che non so se il Penone che sto guardando sia un corpo organico o una scultura – mi rincuora sapere che per lui comunque questa differenza discorsiva si fa da parte.

Ma soprattutto Penone non può guardare me, perché attraverso le sue lenti specchianti diventa cieco e lascia – mi lascia – guardare tutto il resto. Si potrebbe dire anche che al progressivo avvicinarsi del volto verso l’obiettivo fotografico, la realtà intorno scompaia e allo stesso tempo renda visibile la parte nascosta, quella celata che è in stato di quiescenza dietro all’obiettivo stesso.

Forse che ‘rovesciare’ i propri occhi significhi qui punzecchiare la quiescenza di una realtà ulteriore?

Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970

Reversing the Eye, mostra a cura di Giuliano Sergio, Lorenza Bravetta, Quentin Bajac e Diane Dufour, rilegge il movimento dell’Arte Povera alla luce del suo rapporto con la fotografia, il film e il video. Media meccanici radicalmente sperimentati nel quindicennio che va dal 1960 al 1975, quando si intrecciarono a quell’utopica tensione di unire la vita e l’arte, il movimento e la sua forma, ma anche l’istante e la sua durata. E infatti le immagini di quegli anni ritornano oggi negli spazi della Triennale di Milano, visibili fino al 3 settembre 2023, come testimonianze di un uso inquieto e tremolante del mezzo tecnologico. Immagini come residui: lontani dalla presunta nettezza del reportage ma anche dalla linearità illusoria del montaggio filmico (come precisa Giuliano Sergio in un’intervista con Antonio Grulli[1]) e che in Reversing the Eye mantengono questa loro traiettoria libera favorendo associazioni, facendo collassare codici e generi, e invitando a decodificare una certa loro capacità ventriloqua sottilmente sospesa tra il parlare e in rimanere in silenzio.

Gino De Dominicis, Senza Titolo (Tentativo di Volo), 1969

Partiamo da quest’ultimo, dal silenzio, prendendo spunto da un’associazione accaduta per caso durante la visita della mostra: mentre guardo Penone che non può guardare me, con la coda dell’occhio noto l’iconica fotografia del Tentativo di volo di Gino De Dominicis, appesa sulla parete di sinistra. De Dominicis è di spalle, neanche lui mi guarda, impegnato nel suo eroico fallimento di volare e poi cadere. In tal senso queste due immagini sono spietate, ma il loro silenzio non è indifferenza: loro non mi guardano, eppure mi riguardano, allo stesso modo in cui tutti gli artisti presenti in mostra – quarantanove di preciso, per un totale di duecentocinquanta opere – non guardano univocamente la realtà – se ne discostano appena – cercando tuttavia di dare forma ai presupposti della sua formazione. Sempre De Dominicis, nella sua Lettera sull’immortalità (1970) scriveva ad una sconosciuta interlocutrice: “Cara……..io penso che le cose non esistano. Un bicchiere, un uomo, una gallina, ad esempio, non sono veramente un bicchiere, un uomo, una gallina, ma solo la verifica delle possibilità di esistenza di un bicchiere, di un uomo, di una gallina. Per esistere veramente le cose dovrebbero essere eterne, immortali, solo così non sarebbero solo delle verifiche di certe possibilità, ma veramente cose”.

Che ‘rovesciare’ i propri occhi significhi muoversi tra le infinite verifiche di queste possibilità?

Intanto il suono del proiettore continua: ad un primo ascolto sembra risuonare un Clic … Clic … Clic … regolarmente ritmato per ogni diapositiva. Tuttavia, prestando un minimo in più di attenzione, si nota nell’intervallo tra i secondi come un gracchiare indefinito, che ogni volta sembra diverso dalla precedente (anche quando ricomincia il giro di immagini, il rovesciamento dell’occhio): Clic..grrrr – Clic..grrrr – Clic..grrrr. Forse è quel quasi-secondo che precede l’apparizione dell’immagine e il suo conseguente inquadramento nel perimetro dello schermo: come se la meccanica dello scatto fotografico, in quel grrr anch’esso ripetuto di volta in volta, si sospendesse per meno di un istante prima di bloccare il corpo dell’artista, di rendere il suo gesto una forma da vedere. Muovendomi tra i residui arrivati negli spazi della Triennale da Parigi – le due sedi precedenti della mostra sono state rispettivamente la Galleria Nazionale del Jeu de Paume e il centro espositivo LE BAL – mi domando se questi schermi distillino, offuscandola, la carnalità originale di questi gesti così intimamente inseriti nelle possibilità di esistenza di questi artisti.

Quanto recitava quest’avanguardia, consapevole della fine della totalità del modernismo e allo stesso tempo lontana dalla velocità dell’allora nascente linguaggio della pop art? Il pubblico del 2023 guarda comunque a quegli anni attraverso un’apparecchiatura – il pubblico è l’apparecchiatura: la cinepresa, la macchina fotografica, il clic e lo schermo; ognuno di questi elementi cruciale nell’assicurare la sopravvivenza di questa strana finzione così vicina alla vita. Il grrrr indefinito del proiettore potrebbe collocarsi qui, tra la finzione e la vita, rivoltando i due termini in una fusione difficile da decifrare, perchè le pratiche di questi artisti – Penone e De Dominicis, ma anche, tra i tanti altri in mostra, Boetti, Fabro, Parmiggiani, Prini, Mattiacci, Paolini, Vaccari, Jodice, Pistoletto, Manzoni ecc. – sono pratiche di esistenza, anche se quest’ultima è come sottoposta a un test (non si sa quando finisce l’una e inizia l’altro).

Che ‘rovesciare’ i propri occhi significhi vivere recitando?

In un passo tratto da “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1936) Walter Benjamin scrive, citando Luigi Pirandello, dell’esilio dell’attore cinematografico davanti l’apparecchiatura della macchina da presa: “In esilio non soltanto dal palcoscenico, bensì dalla propria persona. Perchè la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là, su la tela dei cinematografi, non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare.[2]

Pirandello, e Benjamin di conseguenza, colgono questo mutamento nel rapporto tra corpo dell’attore e sguardo dello spettatore: lo schermo diventa il supporto di una distanza incolmabile e definitiva, in cui il primo termine scompare e il secondo si lascia attraversare da questa ritirata, continuando comunque a guardare ciò che ha davanti.Guardiamo soltanto l’immagine: i residui di Reversing the Eye sono sì immagini, eppure sembrano mantenere la carica gestuale iniziale, quella nata nello spazio della vita prima ancora di guizzare nello spazio dell’arte, dello scatto e della messa in scena. Risuona l’eco di quel grrrr indefinito tra una diapositiva e un’altra, tra una forma e un’altra, e forse questa mostra è proprio il tentativo di riflettere sull’anatomia di quel suono che non è un’immagine ma si fa strada tra le immagini: la vita, tagliata dalla volontà di questi artisti di sperimentare su sé stessi lo spettro di possibilità dell’esistenza (perchè, come aveva intuito De Dominicis, nessuno è immortale)

In un intreccio così strano tra vita e arte si allenta la distanza assoluta creata dallo schermo di Benjamin e Pirandello:in Triennale ci sono soltanto immagini, certamente meccaniche, sicuramente riprodotte, ma mai risolte. Anzi, in un sottile paradosso sotteso ad ogni opera-gesto di questi artisti, si potrebbe dire che è proprio la tecnica riproduttiva a confondere i perimetri estetici dettati dallo schermo, rendendolo quindi non ‘definitivo’. Che immagine avrei visto se Penone, in quei momenti del 1970, avrebbe messo le lenti in un altro spazio, riflettendo così un altro paesaggio? Quante altre volte, prima dello scatto esposto, De Dominicis ha effettuato il suo Tentativo di Volo? Io non lo so, ma non importa.

Che ‘rovesciare’ i propri occhi significhi percorrere i bordi dello schermo?

In una poesia-volantino del 1967 Ketty La Rocca scriveva: “la vita è un’altra cosa”. L’esistenza fuori dalle immagini (grrr) in cui ogni gesto crea il suo spazio. La vita è parziale, il  corpo e l’arte pure, così come i residui di Reversing the Eye, ognuno impegnato metodicamente a registrare questa incompletezza – basti pensare, tra i tanti lavori esposti, alle misurazioni del tempo di Laura Grisi che conta i granelli di sabbia (The measuring of time, 1969), al corpo plastico di Luigi Ontani dove il gesto figurativo coincide con la sperimentazione sulla propria identità (Pinocchio, 1972), o all’autobiografia terribile e ironica di Alighiero Boetti, dove la tecnica di ripetizione delle immagini si piega in un auto-scrittura in continuo divenire, allo stesso tempo titanica e scherzosa (Nove Xerox Anne-Marie, 1969).

Luciano Fabro, Davanti, dietro, destra sinistra. (Cielo). Tautologia, 1968

La vita, inoltre, non si muove in uno spazio assoluto, e i residui di Reversing the Eye sono tentativi di documentare questa mancanza. Sul confronto con tale perdita viene in aiuto Luciano Fabro, nitido nel dichiarare, in relazione alla sua opera Davanti, dietro, destra sinistra. (Cielo). Tautologia (1968) che esiste “solo uno spazio in relazione con qualcos’altro, uno spazio personale, nella misura in cui è correlato alla persona. Il movimento di questa persona nello spazio, anche in questo spazio, lo spazio del cielo, è più importante dell’intero movimento celeste. Dopo aver realizzato il cielo, preferisco utilizzare la fotografia con la persona di fronte all’immagine, che sta per il cielo”.

Fabro aveva dipinto una mappa celeste e successivamente si era fatto fotografare in movimento davanti ad essa, fissando poi sulla stampa la sua fisionomia incerta e dissolta in più direzioni simultanee, davanti al cielo minuzioso. È un movimento indefinito, diverso dalla posa plastica del Tentativo di Volo di De Dominicis, ma che con esso condivide un certo nascondimento della figura davanti ai miei occhi. Ecco un’altra immagine ventriloqua, penso, che diventa il documento durevole di un istante parziale: nascondersi dall’obiettivo – dall’inquadratura, dal genere, dal codice – rendendolo allo stesso tempo il cruciale strumento di verifica del gesto di esistere.

E il cielo? Si strappa, come si strappava il firmamento di carta durante il teatro di marionette ne Il fu Mattia Pascal di Pirandello – ancora Pirandello, che aveva già intuito la fratture quotidiane di una vita mediale – deflagrando in una matassa di incertezze e ambiguità. Anche quello del cielo di Fabro è uno strappo metaforico: forse riconducibile allo stesso utilizzo del medium fotografico, anch’esso radicalmente elusivo, che non restituisce niente se non il movimento stesso. Come recita lo stesso titolo dell’opera: “Tautologia”.

Che ‘rovesciare’ i propri occhi significhi strappare il proprio cielo?

Dal cielo, o quanto meno partendo da un punto di vista aereo, guardo poi la schiena di un altro  sperimentatore ‘indifferente’, un altro che non mi guarda: Giovanni Anselmo, che in questo suo apparente disinteresse entra nella sua stessa opera (Entrare nell’opera, 1971) correndo per arrivare in tempo – per farmi arrivare in tempo – al momento dell’autoscatto che ora lo mantiene sospeso in un campo dal perimetro sconosciuto. Clic. Di nuovo un cortocircuito tra immagine meccanica e vita: perché se Anselmo non fosse mai arrivato l’opera non si sarebbe costruita, mentre se l’autoscatto non fosse entrato in funzione Anselmo avrebbe ‘semplicemente’ trascorso un pezzo della sua esistenza.

Giovanni Anselmo, Entrare nell’opera, 1971

Forse l’uso libero e radicale di questi media sta proprio in questo incontro ‘somatico’: l’appuntamento sempre diverso con un corpo che diventa esso stesso schermo da guardare e medium di un’esistenza in cui i gesti e le immagini si incontrano senza sforzo. Vivere vuol dire entrare nell’opera (Clic…), mentre quest’ultima diventa il sintomo di una vita che rimane misteriosamente sempre fuori campo, tra un’immagine e un’altra ( – grrr).

Reversing the Eye
Fotografia, film e video negli anni dell’arte povera

Triennale Milano
fino al 3 settembre 2023


[1] “In mostra il pubblico non trova il tipico reportage anni Sessanta o il film anni Settanta, qualcosa di anche molto interessante ma chiaramente datato di cui si riconosce subito il genere e lo stile… Le immagini prodotte da questi artisti hanno una qualità diversa, un uso assolutamente libero del mezzo, tutti i generi sono trasgrediti e decontestualizzati, con risultati sorprendenti e spiazzanti che funzionano ancora oggi.” In Antonio Grulli, Reversing the Eye, il patrimonio dimenticato du fotografie, film e video dell’Arte Povera in mostra a Milano”, Elle Decor (consultato in data 9/07/2023).

[2] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Einaudi, Torino 2011, p. 19.

In copertina: Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970 (particolare) © Archivio Penone

Piermario De Angelis

(Pescara, 1997) Dopo aver conseguito una laurea triennale in Arti, Design e Spettacolo presso l’università IULM, consegue il diploma accademico di secondo livello in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 2021 co-fonda, con altri studenti e studentesse, l’associazione culturale no profit “Genealogie Del Futuro”. Scrive per ‘Kabul Magazine’, ‘Juliet Art Magazine’, ’Forme Uniche’, ‘roots§routes’ e ‘Antinomie’. La sua ricerca vuole essere un’esplorazione del potenziale critico dell’arte e delle immagini in relazione alle urgenze della contemporaneità.

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