L’opera omnia di Giovanni Papini (1881-1956) scrittore, filosofo, poeta e polemista fiorentino è stata indagata principalmente dagli storici della letteratura e della cultura europea a cavallo tra la fine del secolo XIX e il secolo XX. Egli ebbe però anche una smisurata passione per le arti visive e per i libri figurati, corroborata da una notevole conoscenza dell’arte del passato e del suo presente, a cui associava una singolare forma di gusto per il collezionismo, che andava dall’antico al contemporaneo, passando per le arti non europee. I rapporti con i pittori, tra cui il sodalizio con Ardengo Soffici (tanto pittore che letterato) per citare il principale, si collocava nell’alveo naturale e di antica origine che egli viveva nello spirito dell’unità delle arti e del pensiero. Papini non fu pittore di pennello, incisore o scultore di materia, ma scrisse di pittura e scultura, si avvaleva di incisori, fotografi e pittori per le riviste da lui fondate, per le opere che pubblicò; teorizzò sulle arti visive scrivendo tra i primi sul cinema, linguaggio da poco affacciatosi sulla ribalta delle arti.
Due volumi su Giovanni Papini e le arti visive, editi dall’editore Scalpendi, hanno l’intento di far luce su questi aspetti meno noti. Il primo raccoglie per la prima volta, in un nuovo ordine e criterio, un’antologia di scritti pubblicati tra il 1903 e il 1957, dedicati alla riflessione sugli artisti del passato e contemporanei con cui lo scrittore fiorentino intrattenne rapporti di amicizia e con i quali si confrontò criticamente. Altri testi presenti nel volume vertono su questioni estetiche e storico-artistiche, altri ancora sul personale interesse di Papini per il collezionismo. Nell’edizione di Tutte le opere,pubblicata in dieci volumi da Mondadori tra il 1958 e il 1966, una parte di questi scritti compaiono nel volume dal titolo Scrittori e artisti. Ad essi ne sono stati aggiunti altri non più editi. Dalla Vita di Michelangiolo sono stati trascelti i paragrafi che meglio possono mettere in luce la scrittura visiva sull’opera scultorea, pittorica e architettonica dell’artista rinascimentale alla cui figura Papini era particolarmente legato e a cui dedicò il suo intenso omaggio letterario e biografico pubblicato da Garzanti nel 1949, summa della letteratura biografica e storico artistica sull’artista che ebbe un successo internazionale, tradotta in varie lingue.
L’ordine cronologico di pubblicazione, che si è dato a questa raccolta di scritti, vuole restituire l’evolversi degli interessi e degli interventi di Papini sulle arti visive – aspetto non ancora pienamente considerato nei suoi testi – nel quale si possono individuare la vastità del panorama delle sue conoscenze, l’inclinazione dei gusti, la trasformazione del suo linguaggio, la forma ibrida tra la critica militante – seppur non specialistica – e le sue considerazioni e interpretazioni tra le coordinate storiche e le poetiche artistiche in cui «riscoprire la realtà dell’umanesimo religioso». In questa galleria di artisti si avvicendano figure dall’antichità al Rinascimento, in particolare: Fidia, Botticelli, Beato Angelico, Leonardo da Vinci, Raffaello, Tiziano, Rembrandt. A questi seguono alcuni protagonisti dell’arte italiana della prima metà del Novecento che facevano parte della cerchia degli amici artisti più stretti, di cui Papini parlò in una conferenza manifesto tenuta a Palazzo Corsini nel gennaio del 1903: Costetti, De Carolis, Soffici, Ghiglia, Spadini, Rosso, Romanelli, Conti, Bernasconi, Carrà sono alcuni di loro. Tra gli artisti con cui Papini intrattenne rapporti epistolari vi è Giorgio de Chirico, riguardo al quale tuttavia non scrisse, a differenza di quanto si pensava fino a qualche tempo fa. Dagli incontri immaginari del Libro Nero, nuovo diario di Gog, si leggono poi gli incontri con Picasso, Salvador Dalì, Frank Lloyd Wright. Si sono voluti aggiungere anche alcuni testi in cui Papini scrive di architettura e città: Venezia, Roma, Firenze e Perugia, nel racconto dedicato ad alcuni luoghi e monumenti.
L’interesse di Papini per l’arte ebbe una concreta materializzazione anche in una collezione di opere che nel corso della sua vita acquistò o ricevette in dono dagli amici artisti. In particolare, paesaggi e disegni, con una particolare predilezione per i ritratti sia pittorici che scultorei tra cui una cera del bambino malato di Medardo Rosso. A questi si aggiunge la testimonianza della presenza, nella sua casa fiorentina, di due feticci d’arte africana che Papini acquistò a Parigi in uno dei suoi viaggi all’inizio del secolo. L’ultima parte del volume raccoglie scritti editi negli ultimi anni della vita dello scrittore: uno tratto da Il Diavolo (1951), sulla rappresentazione del demonio nell’arte e alcuni brevi dal Giudizio Universale dove compaiono alcuni artisti da Fidia a Van Gogh. L’ultimo scritto, edito postumo, è un ricordo dedicato agli incontri avvenuti col coetaneo Pablo Picasso a Parigi, il primo nel 1907 grazie a Soffici e il secondo nel 1914. In quelle poche righe Papini si rammarica di non aver potuto acquistare per un centinaio di franchi un Picasso del periodo blu: lo avrebbe voluto fare nel 1914 ma ormai i quadri di Picasso ne valevano migliaia.
Il secondo volume, intitolato Papini e il non finito cinematografico parafrasa il suo titolo da quello del celebre L’uomo finito del 1913. Vi si propone lo studio di due trattamenti cinematografici inediti sulla vita di Santa Caterina e San Francesco, scritti da Giovanni Papini rispettivamente nel 1936 e nel 1946 e conservati presso l’Archivio della Fondazione Primo Conti di Fiesole. I due progetti cinematografici – integralmente pubblicati e commentati – non furono mai realizzati per lo schermo. Il film su Santa Caterina giunse a una elaborazione articolata di cui è testimonianza un ampio dibattito sulla stampa quotidiana coeva, oggetto anch’esso di studio nel volume da parte di Dario Boemia. L’ancora poco noto interesse critico e a tratti polemico di Papini per l’arte cinematografica viene ricostruito a partire da un pionieristico e acuto articolo intitolato La filosofia del cinematografo («La Stampa», 18 maggio 1907), completato da una lunga intervista a Don Giuseppe De Luca, sulle possibilità artistiche e comunicative del cinema («Osservatore romano della Domenica», 1936).
Altro progetto di un film mai realizzato – ma documentato nel 1924 – doveva essere tratto dalla Storia di Cristo per la regia e interpretazione di Charlie Chaplin, a seguito del successo della sua traduzione in America, pubblicata nel 1923. Il libro scava nelle ragioni dell’incompiutezza dei progetti cinematografici e si conclude con una disamina di alcuni materiali audiovisivi reperibili su Papini nell’Archivio Luce, nelle Teche RAI e alla Discoteca di Stato.
I due volumi – a cui seguiranno a breve gli atti di un convegno tenutosi all’Università IULM nell’ottobre 2022 dal titolo Papini e il Visibile parlare – fanno emergere nell’insieme un lato poco noto della complessa personalità di Papini. Alle figure del filosofo e del poeta, del narratore e del polemista si aggiunge quella di un attento osservatore dei fatti artistici e visivi del suo tempo, con una passione per classici come Leonardo e Michelangelo. Letteratura e pittura, testi e immagini, pensiero e produzione artistica sono per lui un unicum in cui esprimere il proprio essere.
Tommaso Casini

La filosofia del cinematografo
di Giovanni Papini
Da pochissimo tempo, in ogni grossa città d’Italia, assistiamo a una quasi miracolosa moltiplicazione di cinematografi. Nella sola città di cui sappia il numero preciso, in Firenze, ve ne sono già dodici, vale a dire uno per ogni diciottomila abitanti. I cinematografi, colla loro petulanza luminosa, coi loro grandiosi manifesti tricolori e quotidianamente rinnovati, colle rauche romanze dei loro fonografi, gli stanchi appelli dei loro boys rossovestiti, invadono le vie principali, scacciano i caffè, s’insediano dove già erano gli halls di un réstaurant o le sale di un bigliardo, si associano ai bars, illuminano ad un tratto colla sfacciataggine delle lampade ad arco le misteriose piazze vecchie, e minacciano, a poco a poco, di spodestare i teatri, come le tranvie hanno spodestato le vetture pubbliche, come i giornali hanno spodestato i libri, e i bars hanno spodestato i caffè. I filosofi, per quanto uomini ritirati e nemici del chiasso, farebbero molto male a lasciare codesti nuovi stabilimenti di passatempo alla semplice curiosità dei ragazzi, delle signore e degli uomini comuni. Una simile fortuna, in tempo così corto, deve avere le sue cause, e il filosofo, quando le avesse scoperte, potrebbe trovare negli spettacoli cinematografici nuovi motivi di pensiero, e chissà?, perfino nuove emozioni morali e suggerimenti di nuove metafisiche. Per il filosofo vero – non per quello che sta in mezzo ai libri e che si potrebbe chiamare il rivendugliolo della filosofia – non c’è nessuna cosa al mondo, per quanto umile, piccola, e ridicola sembri, che non possa divenir materia di pensiero, e quelli che sanno filosofare soltanto quando si tratta dell’esistenza del mondo esterno o dei giudizi sintetici, a priori rassomigliano ad un anatomico, che non sapesse parlare che degli esseri mostruosi e dei casi teratologici.
Anche i cinematografi, dunque, sono oggetto degno di riflessione, ed io consiglio vivamente gli uomini gravi e sapienti ad andarci più spesso. Essi potranno cominciare col chiedersi per quale ragione questi luminosi spettacoli incontrino così presto il favore della gente. Chi ha pensato un po’ ai caratteri della civiltà moderna non durerà fatica a ricollegare i fatti del cinematografo con altri fatti, che rivelano le stesse tendenze. Rispetto al teatro – che in parte esso intende sostituire – il cinematografo ha il vantaggio di essere uno spettacolo più breve, meno faticoso e meno costoso, di esigere, cioè, meno tempo, meno sforzo, e meno denaro. Ora, uno dei caratteri che vanno sempre più accentuandosi nella vita nostra, è quello della tendenza all’ economia, non già per stanchezza o per avarizia – ché, anzi, gli uomini moderni fanno più cose e sono più ricchi –, ma appunto per ottenere, colla stessa quantità di tempo, di fatica o di denaro, un maggior numero di cose. Il cinematografo soddisfa, nello stesso tempo, tutte queste tendenze al risparmio. Esso è una breve fantasmagoria di venti minuti, alla quale tutti possono assistere per trenta o venti centesimi. Non esige troppa cultura, troppa attenzione, troppo sforzo per tenervi dietro. Esso ha il vantaggio di occupare un solo senso, la vista – giacché alle mediocri e monotone musiche che accompagnano lo svolgersi delle pellicole, nessuno sta attento –, e questo unico senso viene artificialmente sottratto alle distrazioni per mezzo della wagneriana oscurità della sala, la quale impedisce quei fuorviamenti di attenzione, quei cenni e quegli sguardi, che tanto frequentemente si osservano nei teatri troppo illuminati.

Ma il favore presente del cinematografo non si spiega soltanto con queste ragioni, un po’ grette, di economia. Esso è dovuto pure, in buona parte, ad altre superiorità che il cinematografo ha sul teatro, al quale è certo, per tanti lati, inferiore. La più importante di queste superiorità consiste nella riproduzione nel tempo di avvenimenti vasti e complicati, che non potrebbero esser riprodotti sopra un palcoscenico neppure dai più abili macchinisti. Una caccia con tutte le sue peripezie, un’avventura di selvaggi, il varo di una nave, un viaggio nelle regioni polari sono spettacoli che richiederebbero incessanti movimenti di scena e spazi grandissimi per dare l’apparenza della verosimiglianza. Invece dinanzi alla bianca tela di un cinematografo noi abbiamo la sensazione che quegli avvenimenti sono i veri avvenimenti veduti come si potrebbero vedere in uno specchio che potesse seguirli vertiginosamente nello spazio. Sono delle immagini – piccole immagini luminose a due dimensioni –, ma che danno l’impressione della realtà più delle quinte e degli scenari di un teatro di prim’ordine.
Il cinematografo ha poi il vantaggio sul teatro di offrirci lo spettacolo di grandi avvenimenti reali, pochissimi giorni dopo ch’essi sono accaduti, e non solo come descrizione di parole o come illustrazione immobile, ma come successione di movimenti presi dal vero e pieni di vita. In questo caso il cinematografo riunisce le proprietà dei giornali quotidiani e delle riviste illustrate: i giornali ci descrivono i fatti nel tempo, ma senza darcene le immagini; le riviste ci danno le immagini ma immote e fisse nello spazio, mentre il cinema ci dà le figure visibili svolgentisi nel tempo. Esso può offrire alla nostra curiosità ciò che nessun’altra cosa al mondo può darci: le scene di trasformazioni.
Grazie ai segreti ed ai trucchi della fotografia che già ci avevan dato le fotografie inverosimili (un uomo con la propria testa in mano, ecc.) e le false fotografie spiritiche (esseri umani nebbiosi e trasparenti), si possono ottenere delle pellicole dove accadono le cose più inverosimili e straordinarie: uomini che scompaiono ad un tratto nel pavimento; personaggi di quadri che scendono dalla cornice e vengono in una stanza a danzare un minuetto; divisioni miracolose di corpi; processioni di teste senza corpo o di corpi senza teste; statue che si animano e si mettono a suonare; animali che si tramutano in uomini; uomini che passano attraverso le pareti; e tutto quanto può immaginare l’uomo nei suoi sogni più pazzi o nelle sue favole più strane. Il cinematografo è, per questo, un aiuto allo sviluppo della immaginazione; una specie di oppio senza cattive conseguenze; una realizzazione visiva delle fantasie più inverosimili. Grazie ai suoi stratagemmi fotografici esso ci permette di pensare a un mondo a due dimensioni assai più meraviglioso del nostro.

Ma se queste osservazioni spiegano, sia pure in parte, la fortuna improvvisa dell’ingegnosa invenzione di Lumière, non giustificano ancora il mio consiglio ai filosofi. Eppure anche i filosofi, anche i moralisti, anche i metafisici possono venire a ispirarsi in questi saloni oscuri invece di aggirarsi nei mercati e nelle piazze, come Socrate, o fra i sepolcri, come Amleto, o sulle montagne, come Nietzsche. Il mondo quale ce lo presenta il cinematografo è pieno di un grande insegnamento di umiltà. Esso è fatto soltanto di piccole immagini di luce, di piccole immagini a due dimensioni, e che dànno, nonostante ciò, l’impressione del moto e della vita. Esso è il mondo spiritualizzato-ridotto al minimo, fatto colla materia più eterea ed angelica, senza profondità, senza solidità, simile al sogno, rapido, fantastico, irreale. Ecco come può ridursi la vita degli uomini senza toglierle la verosimiglianza!
Contemplando quelle immagini effimere e luminose di noi stessi ci sentiamo quasi come dèi che contemplino le loro creazioni, fatte a loro immagine e somiglianza. Involontariamente vien fatto di pensare che c’è qualcuno che ci guarda come noi guardiamo le figurine dei cinematografi e dinanzi al quale noi – che ci stimiamo concreti, reali, eterni – non saremmo che immagini colorate che corrono velocemente alla morte per dar piacere ai suoi occhi. Non potrebbe esser l’universo un grandioso spettacolo cinematografico, con pochi mutamenti di programma, fatto per il passatempo di una folla di potenti sconosciuti? E come noi scopriamo, grazie alla fotografia, l’imperfezione di certi movimenti, il ridicolo di certi gesti meccanici, la grottesca vanità delle smorfie umane, così quei divini spettatori sorrideranno di noi, che ci agitiamo su questa piccola terra, percorrendola furiosamente in ogni senso, inquieti, stupidi, avidi, buffi, finché la nostra parte finisce e scendiamo ad uno ad uno nella silenziosa oscurità della morte.
La filosofia del cinematografo, «La Stampa», 18 maggio 1907, pp. 1-2

Medardo Rosso
di Giovanni Papini
Il nostro Medardo Rosso era uomo di formato extra, fuori serie, tanto nel fisico che nello spirituale; uomo d’insolite dimensioni, di quelli che non entrano nelle cornici che si trovano bell’e fatte nei magazzini dell’arte scrittoria. Uomo, prima di tutto; e uomo italiano, ma con qualcosa della naturalità primordiale di un fauno e qualcosa dell’innocenza e stupefacenza di un bambino. Capace di ribellioni e di crudeltà ma soprattutto di tenerezze e di carità, di visioni e di abbandoni. Singolarissima unione, in lui, di un gigante dionisiaco delle antiche mitologie, di un cristiano inconsapevole e di un sensibilissimo scopritore e rivelatore del mondo umano. Artista fu sempre, e vivo, spontaneo, di prima mano, anche nella vita; artista completo e assoluto, insorgente e prepotente, unico.

Era nato a Torino (1858) da un bravo commendatore capo stazione ma discendeva da contadini astigiani e gli era rimasta nel sangue qualcosa di quella festività villereccia, di quella rustica bontà che s’accorda coll’arte assai meglio che la rinseccolita seriosità borghese. E forse da quegli oscuri ascendenti gli venne quell’amore per gli umili, per gli abbandonati, per i poveri, per gl’infelici, quella sua nativa e profonda umanità che si potrebbe chiamare, senza rispetti umani, cristiana amorosità e misericordia. Nei tempi della sua gioventù, fra il 1880 e la fine del secolo, dominava in Europa la moda intellettuale dell’agnosticismo ma Rosso è la riprova che ogni vero e grande italiano è stato sempre vicino a Cristo col cuore anche se la mente ripudiava ogni dogma e ogni rito.
Senza amore, senza amore per la natura, ch’è opera d’Iddio; senza amore per gli uomini che son figlioli d’Iddio, non è possibile sentire, vedere, creare, non è possibile essere artisti veri. E Rosso, fin dall’adolescenza, fu essenzialmente un artista che non si contentò mai di quel che insegnavano i professori, di quel che si esibiva nei musei e nelle esposizioni, di quel che piaceva a critici e a collezionisti.
Aveva in sé, al par di tutti i grandi, il senso e il desiderio dell’unità: unità dell’io e della natura, unità dell’uomo con tutti i suoi fratelli, unità dell’arte e del vero. E come scultore mosse da quel verismo un po’ alla brava che pareva l’ultima parola della plastica in quella Milano postmanzoniana della “scapigliatura”. Qualcosa rimase dei modi e delle mode di quel tempo milanese attaccato alla persona di Medardo Rosso, purché s’intenda “persona” nel suo significato esteriore e non sostanziale. Rosso era un rivoluzionario sul serio, e cioè non soltanto nelle formule e nelle apparenze e non poteva contentarsi di quel verismo che pur volendosi liberare dall’enfatica monumentalità della tradizione canoviana, rimaneva superficiale e trito, cioè rinnegava l’eroico per affogar nel borghese, e si riduceva a un bozzettismo approssimativo e fiacco, dove il manierismo del presso a poco si sostituiva al manierismo della finitezza.
Anche in quella prima fase dell’opera sua Medardo Rosso seppe creare opere personali che s’inalzavano sulla pretenziosa banalità di certi suoi contemporanei ma il suo genio non poteva fermarsi lì e, anzi, non avrebbe vigoreggiato, come poi fece, se non avesse risolutamente cambiato strada, cioè se non avesse aperto a suo rischio una strada tutta nuova.
Egli stesso raccontò un giorno a Soffici come avvenne in lui quella rivelazione che doveva diventare poi effettiva rivoluzione. “Ora avvenne che un giorno passeggiando per una galleria, poco persuaso della magnificenza di quel che vedeva, tolse lo sguardo dalle tante figure appese ai muri e lo posò sui gruppi degli altri visitatori. Rimase colpito dalla nessuna somiglianza esistente tra ciò che ora vedeva e ciò che aveva guardato fin allora. Nei quadri, tutte quelle immagini di santi, di eroi, di ninfe e di personaggi d’altri tempi avevano l’aria accomodata, studiata di gente di teatro, o d’un altro mondo, dove luci, colori, forme fossero senza mutamento o senza effetti imprevisti; dove in qualunque caso i corpi conservassero la medesima evidenza tondeggiante, la stessa plastica regolarità; i visi avessero invariabilmente due occhi, un naso, una bocca ben collocati al loro piano, le mani cinque dita, e i panneggi le loro pieghe naturali e riconoscibili. Tutt’altra cosa invece quello che osservava nella realtà. Il colore delle facce non aveva nulla di quello convenzionale delle pitture; la loro struttura stessa, così come quella dei loro corpi, appariva sconquassata, deformata, violentata od obliterata, secondo il giuoco delle luci e delle ombre.
Un viso di donna era una macchia scura senza connotati, sopra un fondo chiaro, era una maschera dai tratti accuratissimi, spostati, stravolti, se illuminata di fronte, di traverso o dall’alto: le gambe degli uomini parevano a momenti incavi neri sul pavimento lucido i cui riflessi balzavano agli occhi; mentre l’ombra dei gruppi proiettata in terra prendeva l’aspetto di un abisso buio scavato davanti o dietro di loro. Tutto poi si ammassava a larghi piani, corpi, membra, abiti, in un geroglifico di volumi e di toni variante di continuo col moversi, l’allontanarsi e l’avvicinarsi delle persone.
Ma dunque – s’era detto allora il giovane Rosso – se questa è la realtà, perché quelli lì hanno sempre fatto qualcosa di talmente dissimile, e che non tien punto conto di tanti suoi aspetti così interessanti? Oppure quella loro arte è la vera arte? Ma allora la natura è inutile ai fini dell’arte; e in questo caso, perché costoro vogliono parere di raffigurarla?”
Con Medardo Rosso, difatti, s’inizia un nuovo capitolo nella storia della scultura. Può darsi che questo capitolo, che si apre con lui, si chiuda pure con lui, ma nessuno, oggi, osa negare che l’arte di Rosso significa un cominciamento e non già una continuazione. Rosso è il primo che rompe e interrompe quella tradizione millenaria che va dagli statuari egiziani ai veristi dell’Ottocento; il primo che fa della scultura un’arte che a qualcuno non sembra più scultura perché travarca quelli che sembravano i temimi naturali e immutabili della scultura. Questa sua personale rivoluzione lo portò a una negazione totale, e in parte ingiusta, di tutto il passato ma quella negazione stessa era necessaria per rafforzare la sua certezza, per legittimare quella sua rivelazione, per salvarla dai compromessi.
Leonardo aveva sostenuto che la pittura è superiore alla scultura; il suo grande e più giovane emulo, Michelangiolo, aveva affermato che la scultura è al disopra della pittura. E questa polemica di giganti, divenuta pretesto di accademiche disputazioni di letterati, seguitò per tutto il Cinquecento e oltre. Ci furon pittori come fra Bartolomeo, che vollero portare nell’arte loro l’impostatura monumentale della scultura ma non furon seguiti: anzi il Caravaggio e il Rembrandt optarono risolutamente per la luce e per l’ombra contro la linea e il rilievo e dominarono l’Europa fino all’apparizione dei neoclassici.
Ma nessuno aveva mai pensato a ottenere colla scultura gli effetti della pittura e precisamente quegli effetti di luce e d’ombra, cioè di viva realtà, che son propri della grande pittura moderna. Rosso fu il primo che si propose di unire, di fondere, e quasi d’identificare le due arti. Rosso vuol riprodurre la vita vera, l’aspetto autentico degli esseri umani, che si riducono, secondo lui, a ombre e a luci, e, invece di ricorrere a colori e a pennelli, si serve della cera e della creta, della stecca e della mano, quasi volesse sfidare le difficoltà, mostrare la facilità dell’impossibile, estendere il regno e il potere della scultura. In un certo senso Medardo Rosso può esser detto un pittore senza pennelli, uno scultore che vuol gareggiare col pittore senza rinunciare alla materia ed ai mezzi della scultura. Con semplici ma sapientissimi giochi di scuri e di chiari, di velature e di sporgenze egli sa dare le medesime sensazioni che può dare un quadro, vuol rivelare la vera forma e la vera anima della figura umana meglio che non facessero gli statuari della tradizione, quelli che Rosso chiamava fabbricanti di “presse papiers”.
Egli riesce, in verità, a oltrepassare i limiti della scultura, a creare intorno alle sue immagini una atmosfera pittorica, che par fatta di luce palpabile e magica, a rendere le delicatezze e i misteri del volto umano assai più che se l’avesse modellato con quella integrale precisione e politezza che usarono gli antichi e i moderni.
La statua, secondo lui, non è fatta perché lo spettatore vi giri attorno; non è, come un giorno mi disse, l’albero di un carosello, ma un momento d’interpretazione e di commozione fermato per sempre, e dunque oggetto non delimitato, frammento a due dimensioni, quadro che va guardato da una parte sola. Per Michelangiolo la scultura era liberazione di tutto quanto un corpo imprigionato nel masso; per Rosso un attimo fuggente da fissare con pochi tocchi di pollice in una materia morbida e duttile, quasi aereo riflesso di vita intercettato dalla creta o dalla cera.
Non gli piacevano i monumentoni solenni, i maestosi pioli decorativi messi come perni in mezzo alle piazze e ai saloni d’onore, e neppure le figurette eleganti a tutto tondo che stanno fra il semicalco e il balocco e ch’egli accomunava, come s’è visto, sotto la rubrica “presse papiers”.
La definizione è irriverente, e peggio, quando si pensi a Prassitele o a Donatello ma in bocca di Rosso non aveva quel significato spregioso che si potrebbe credere. Era, per lui, il segno di separazione tra la scultura antica, tradizionale, e quella nuovissima, rossiana, che fu detta e potrebbe dirsi impressionista. L’ammirazione per questa sua scultura pittorica non ci impedisce di ammirare, al par di prima, Fidia e il Verrocchio, ma Rosso era condannato, come ogni novatore, a una robusta ingiustizia verso il passato, salvaguardia contro debolezze e ritorni.
E nella sua stessa smania di porre l’opere sue accanto a quelle dei grandissimi antichi come fece a Firenze, in una memorabile mattina, alla Galleria dell’Accademia, quando collocò una sua cera presso un Prigione del Buonarroti, – io vedo un implicito riconoscimento e rispetto verso quegli antichi che a parole negava. “C’est pour la comparaison” diceva a noialtri amici ma è chiaro che il desiderio di compararsi, in un vero e probo artista qual era, implicava un’affermazione del valore delle opere comparate. E aveva ragione di credere fermamente alla sua originalità. Egli è stato il primo, prima dei francesi, a tentare quel nuovo modo di scultura. Il famoso Rodin, che studiò e imitò anche gli antichi italiani, fu, per un certo tempo, il discepolo di questo modernissimo italiano e lo riconobbe. Se l’impressionismo pittorico è d’origine francese – e anche su questo punto qualcosa ci sarebbe da ridire – l’impressionismo nella scultura è d’origine italiana ed ha un padre solo: Medardo Rosso.
In quella fine dell’Ottocento, quando l’Italia non contava quasi più nulla nelle arti plastiche, e stava a bocca aperta ad aspettare le novità forestiere, un italiano seppe rinnovare la nostra tradizione di popolo creatore e iniziatore e insegnò agli orgogliosi francesi una via non battuta prima da nessuno. Parigi stimolò e ammirò il genio di Rosso ma egli seppe diventare maestro di coloro che, a quel tempo, consideravano tutti gli stranieri come scolari. Nell’opera di Medardo Rosso non si scopre soltanto una sensibilità fuor del comune e una sapienza istintiva eppure sottilmente sicura ma, di più, quel naturale affetto per le creature che si diceva in principio e che formava la sua intima e popolaresca umanità. Non fu notato, credo, che Rosso scelse a modelli per le sue creazioni soprattutto donne e bambini. Non già che Rosso non fosse natura fisicamente e moralmente virile ma, forse appunto per questo, era più attirato da quelle creature che meglio ispirano l’affetto e l’amore, da quegli esemplari d’innocenza o di peccato dove la vita s’imprime con minor durezza, che hanno lineamenti meno risentiti e perciò meno “scultorei” nel senso classico della parola ma una più viva tenerezza di carni, una più grande mutabilità di espressioni.
Anche il Rinascimento modellò teste di bambini e di donne e con riuscita soavità di forme ma si tratta di immagini definitive e composte, di esseri perfetti ma conclusi e ben definiti. Rosso fu il primo miracoloso disvelatore della donna e del bambino in quello che hanno di fluente e quasi di nascente, in quelle mollezze e variazioni di aspetti e di luci che son proprie della vita iniziale e in fiore, sì da imporre la sensazione della carne tepida e viva per mezzo di un’arte ch’ebbe sempre qualcosa di minerale e di funerario. Anche in questa scelta Rosso mostrò la sua volontà di valicare i confini e le possibilità della scultura; fu, insomma, inventore.

E si noti che la maggior parte delle sue donne e dei suoi bambini sono ridenti e sorridenti, come doveva essere Eva al primo suo balzare alla luce, come sono tutti gli umani che si svegliano alla vita o, dopo un oscuro intervallo, la ritrovano. Risi e sorrisi appena accennati ma che bastano a illuminare tutta una figura, anche se appena emerge dall’indistinto della materia. Sorrisi a volte malinconici, a volte amari e dolorosi ma pur sempre sorrisi, e cioè accettazione della vita, rinascita della vita, concordia con la vita.
Sembrano, alcune sue teste, apparizioni medianiche ma sono fantasmi di vivi e non di morti. Rosso è il cordiale poeta della luce e della gioventù, della fanciullezza e della gioia; ha riscattato la scultura dalle sue ombre gelate e cimiteriali.
Era lui stesso, nella sua cara semplicità di signore popolano, un ottimo esemplare di vita abbondante e forte. Rivedo ancora il mio grande amico; alto, massiccio, turbolento, generoso, anima di ragazzo in corporatura di gigante, con quei suoi vivissimi occhi dove la malizia faceva comunella con la bontà, col suo tubino posato un po’ di traverso sulla vasta lucida fronte; lo rivedo quando si accalorava nella festevole conversazione, alla tavola d’un caffè o di un’osteria, e tra una bottata ingenua e un aforisma geniale, sapeva gustare la bellezza di un profilo, la saporosità di una vivanda, il profumo di un vecchio vino, la grazia di un atteggiamento, di un oggetto, di un colore. Nel suo animo accogliente c’era posto per tutti, per gli amici e per gli ignoti, per la letizia e per la pietà, per la beffa e per la poesia. Era uomo vivo nell’arte come era artista nella vita, perché vita ed arte erano in lui una cosa sola, una sintesi affermativa e trionfante. La tendenza all’unità era, come s’è visto, il principio del suo essere, tanto che culminò in quel tentativo di unificare pittura e scultura che fu la sua gloria. Tutti amava, ma, al disopra di tutti, gli amici e gl’infelici. E nessuno, tra quanti lo conobbero, poteva fare a meno di amarlo. Necessario è, finalmente, che tutti riconoscano e accettino la verità da noi creduta e sostenuta intorno a Medardo Rosso. Egli non fu soltanto uno “scultore” venuto ad aggiungersi alla millenaria dinastia dei poeti italiani in sasso e marmo, soltanto un “artista”, un grande artista, bensì un “avvenimento”. Medardo Rosso appartiene alla razza di quelli che cominciano, non di quelli che continuano, perfezionando o decadendo, a seconda dei talenti del tempo. Egli ha il diritto di figurare tra coloro che hanno cercato – se vittoriosamente o no poco importa – di varcare i limiti consueti di un’arte, di ottenere dalla propria arte qualcosa di più dell’abituale e dell’ammesso, di sforzare i mezzi riconosciuti e praticati per il conseguimento di nuovi effetti. È il problema che Mallarmé ha tentato di risolvere nella poesia, Schönberg nella musica, Picasso nella pittura, Joyce nel romanzo. Il problema del superamento volontario dei confini tradizionali dei procedimenti espressivi. Il problema di sfruttare le riserve e le risorse di un’arte fino alle sue estreme possibilità, sì da trascenderla, quasi, pur rimanendo, nell’essenza, sé stessa. Un problema di tal sorta fu risolto da Medardo Rosso nella scultura. Egli fu uno dei più tenaci e felici eroi di questa volontà di sorpassamento e fu, nell’arte sua, il primo e forse l’unico. Molti impararono da lui, anche qualche celeberrimo straniero che tentò di far dimenticare l’iniziazione ricevuta dall’italiano, ma nessuno poté eguagliarlo nell’attuazione istintiva e raffinata della scoperta.
Medardo Rosso non è dunque un epigono, sia pure di superior qualità ma un protagonista. Comincia con lui un capitolo nuovo nella storia della scultura anche se in questo capitolo non dovesse figurare che il suo nome. Egli non appartiene soltanto alla storia dell’arte italiana ma, vogliano o no i gelosi oltramontani, alla storia dell’arte europea. Ma quelli che non hanno conosciuto di persona il nostro Rosso non possono rendersi conto, nonostante l’affettuosa memoria degli amici, fino a che punto l’originalità dell’opera fosse legata alla singolarità dell’uomo. Quei critici abracadabranti e sopracciò che vogliono sbandite le biografie dalla storia dell’arte dovranno figurare un giorno o l’altro tra i sintomi della progressiva imbecillità contemporanea. L’opera, quand’è creazione, e non rifacimento, è figlia di tutto l’uomo, della sua natura e della sua carne, e cioè anche di tutte le sue esperienze e vicende nel mondo degli uomini. E perciò non può essere pienamente compresa – cioè rivissuta dal di dentro – ricorrendo soltanto a mutevoli moduli critici e agli schemi astratti di una estetica apodittica. Chi ha conosciuto Rosso in carne, voce e figura riesce più agevolmente a intendere come proprio in lui sia nato e maturato quel desiderio di mutazione e rinnovazione della scultura. La qualità della sostanza umana di Rosso doveva necessariamente accompagnarlo verso la sua più affermativa vocazione di artista. Lo stile è l’uomo non soltanto in letteratura. Quell’omaccione atticciato e risentito come un condottiero del medioevo, a volte un po’ rustico e bislacco, altero e risoluto, aveva in sé, congiunta al naturale orgoglio, un’umiltà quasi cristiana dinanzi alla verità delle cose, aveva in sé insieme alla violenza di un anticonformismo fiero e radicale, una profonda e virile pietà per tutti i dimenticati, gli umiliati e gli sventurati. Fu, insomma, un ribelle per sovrabbondanza di misericordia. I fermenti romantici e liberali ch’egli aveva ereditati dalla concezione intellettuale dei tempi della sua giovinezza, non si tradussero, come in tanti altri in declamazioni più velleitarie che rivoluzionarie, seguite da ricadute nelle carraie della comunità borghese, come avvenne in tanti suoi contemporanei. Rosso rimase, per tutta la vita, un insofferente insorto, ma questi suoi spiriti di scontentezza generosa e di opposizione temeraria trovarono spassionamento e soddisfacimento nell’arte che fu sua e soltanto sua. Seppe trasformare la ribellione in creazione; il rivolgimento operato dal suo genio nella scultura fu oltre tutto la placante sublimazione del complesso tumulto del suo spirito portato alla guerra e all’amore. Chi segua con attenta intelligenza le fasi della sua crescenza artistica, guidato da questa intuizione, si accorgerà della naturale successione di queste sue vittorie sul fisso e sul convenzionale. Al di sopra delle rimpasticciature eclettiche composite ed eteroclite, della scultura degli ultimi decenni dell’Ottocento, l’opera di Medardo Rosso dimostra quel che oggi più perentoriamente è riconosciuto: una specie di redenzione venuta dall’intimo, dovuta a moti potenti di un’anima e non soltanto alle scaltrezze del gusto e alla bravura delle mani. In questo suo carattere umano e spirituale sta la grandezza dell’arte di Medardo Rosso, che rimane e rimarrà come una delle più rivelatrici esperienze dell’arte universale di ogni tempo.
da Arte moderna italiana, Hoepli 1940

Giovanni Papini
Sull’arte e gli artisti
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Giovanni Papini e il «non finito» cinematografico. Trattamenti inediti per i film su Santa Caterina e San Francesco
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In copertina: Medardo Rosso nel suo studio