Gli emblemi e il Sacro

26/07/2023

Se per Croce gli emblemi furono solo «trastulli», passatempi, i religiosi del Seicento videro in essi adombramenti di verità, arcani, e ne fecero ampio uso nel descrivere le proprie esperienze di fede. A Georgette de Montenay[1], nel 1571, si deve la prima applicazione religiosa degli emblemi in Emblèmes ou devises chrestiennes[2]. Dedicata alla regina Giovanna III di Navarra, l’opera è aperta dall’emblema Sapiens mulier aedificat domum, in cui compare la regina della dedica intenta a innalzare un muro; l’immagine era seguita dal seguente epigramma:

Cur, age, sic instas operi, sanctumque laborem
Ipsa tua celeras, Dux generosa, manu?
Sollicitat pietatis amor redivivus, & alma
Relligio, cultu conspicienda sacro.[3]

La domanda (Cur) in posizione incipitaria attira immediatamente l’attenzione sull’inusuale lavoro della regina: «perché persegui quest’opera?» Ecco la risposta: «l’amore, rinnovato nella fede e nella religione vissuta in sacra osservanza, la incita ad affrettare l’opera santa», simboleggiata dal muro in costruzione.

G. de Montenay, Emblèmes ou devises chrestiennes, «Sapiens mulier aedificat domum»

Nella dedica anteposta alla raccolta, Georgette de Montenay dichiarò che, sotto la spinta dei raffinati emblemi di Alciato, nacque in lei il desiderio di realizzare propri emblemi  ̶  i primi d’ispirazione cristiana. Il ricorso alle immagini, al linguaggio figurato, era, per G. de Montenay, la via maestra per un’espressione più chiara e intuitiva[4].

Cristoforo Giarda (1595-1649), vescovo cattolico e autore del trattato Icones Symbolicae, sosteneva che dietro la letteratura degli emblemi fosse sottesa l’idea neoplatonica di Dio che si manifesta non solo attraverso le Scritture, ma anche attraverso tutto il creato e tutte le narrazioni[5]. Per Giarda, Dio si rivela in tutte le cose se noi impariamo a leggerne i segni. Nella Genesi si dice che Adamo e poi Seth fissarono tutta la sapienza attinta dagli Egizi («Hyerogliphycorum doctrinam») e poi trasmessa ai Greci su due steli indistruttibili («duas memorabiles columnas»)[6]. Il linguaggio per simboli fu accostato ed equiparato alle Sacre Scritture come derivante da Dio[7]. L’associazione tra idee e immagini consentiva di esprimere i pensieri inintelligibili di Dio, che altrimenti sfuggirebbero o abbaglierebbero l’uomo. Due sono le strade che Dio adopera per comunicare con l’uomo: per simboli o nell’unire il simile con il simile e il simile con il dissimile[8]. Questa fu in breve la concezione neoplatonica del simbolismo, che sopravvisse legandosi all’elemento cardine della tradizione aristotelica, ossia la teoria delle metafore[9].

Ai neoplatonici spetta il merito di aver fatto sentire l’inadeguatezza del «linguaggio discorsivo», incapace di rendere l’esperienza di una comprensione diretta della verità e l’«ineffabile» intensità della visione mistica[10]. Furono i neoplatonici a incoraggiare la ricerca di forme alternative al linguaggio e a rintracciare nei simboli visivi o uditivi i mezzi idonei ad offrire «un analogo di quell’immediatezza di esperienza che il linguaggio non potrebbe mai offrire»[11].  E tale è anche l’idea esposta da Giambattista Vico nel commento a margine della cosiddetta «dipintura proposta al frontespizio»[12] della sua Scienza Nuova   ̶ summa visiva di quanto sarà detto nel testo. Per Vico, al pari dei neoplatonici, la verità nascosta si svela non nel «procedimento discorsivo», ma nell’intuitus di un’immagine particolare, di qui il «vantaggio dell’immagine sul testo»[13].

Nella riflessione neoplatonica, l’emblema si pone come «medium» tra l’uomo e il logos, una via d’accesso alla Verità; punto di partenza per l’esperienza gnoseologica del socratico Nosce te ipsum (conosci te stesso), attraverso la percezione unitaria del molteplice[14], come ben sintetizzato dall’emblema «Ex uno omnia» del Viridiarium Hieroglyphico-morale di Heinrich Oraeus (1644), in cui una sfera sormontata da una clessidra e dal tetragramma biblico racchiude nell’unità la moltitudine degli uomini[15].

H. Oraeus, Viridarium Hieroglyphico-morale, «Ex uno omnia»

Il medesimo concetto è ben espresso nella mitologia greca dai miti di Oceano e Helios:

Okeanos e Helios – colui che abbraccia tutto e colui che cammina sopra tutto, l’origine di ogni cosa e colui che vede ogni cosa, i due che non deviano mai dal loro cammino – sono, in quest’aspetto del mondo, i garanti dell’unità e della regolarità del mondo[16].

I miti di Oceano ed Helios rappresentano infatti

l’intuizione greca, secondo la quale luce e oscurità, giorno e notte, aurora e tramonto, tutti questi fenomeni fra loro polarmente opposti, e i loro correlati – vita e morte, nascere e morire, felicità e infelicità – sono soltanto singole manifestazioni costitutive di un unico fenomeno primordiale divino, la cui forma si esplica e si rivela in quelle manifestazioni polari: ἔστι γὰρ ἕν, «perché sono una cosa sola», dice Eraclito (fr. 57) del giorno e della notte.[17]

Ed è proprio della letteratura degli emblemi il rendere intellegibili gli oggetti e i pensieri più oscuri. L’emblema è una lingua metaforica, destinata a rendere sensibili le verità astratte, a soddisfare il bisogno dell’uomo di esprimere con una sola figura molte proprietà di uno stesso oggetto, affinché la mente le comprenda in un solo sguardo. La percezione risulta così immediata e sensuale, e diviene attività conoscitiva, al pari dell’esperienza mistica che consentirebbe di giungere al concetto di Dio grazie a una immediata visione intuitiva[18].

Come la frecciata nel tiro con l’arco o la sciabolata del samurai, l’emblema mira al bersaglio, che è l’animo, secondo la via brevis. Si tratta, dunque, di un’espressione fulminea che consente di esprimere all’istante un certo stato interiore o un concetto. Un modo di insegnare qualcosa per immagini che non può non far pensare alla poetica dantesca del «visibile parlare»[19]. Dante, accingendosi a descrivere con le sue parole l’opera di Dio, che non può essere narrata da lingua umana, supera se stesso attingendo le parole al Creatore per celebrarne la grandezza.

È il tema dell’ineffabile, vale a dire della parola che cerca di esprimere l’inesprimibile. Ma in soccorso della parola giunge l’immagine a chiarire concetti che la parola non può esprimere[20]:

Là sù non eran mossi i piè nostri anco,
quand’io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco,

esser di marmo candido e addorno
d’intagli sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno.

[…]

Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova[21] .

Gli emblemi e le imprese furono anche adoperati nel contesto della comunicazione religiosa. La Compagnia di Gesù si servì degli emblemi a scopo propagandistico, inserendoli nella produzione libraria e servendosene nella decorazione di chiese e apparati festivi: «Fu […] la virtù didascalica degli emblemi che ne fece uno dei mezzi favoriti della propaganda della Compagnia di Gesù»[22].

Gli emblemi, del resto, sembravano congeniali alla tecnica di Ignazio di Loyola dell’applicazione dei sensi, per consentire alla mente di rappresentarsi in modo chiaro «circostanze di portata religiosa, l’orrore del peccato e dei tormenti infernali, le delizie della vita devota. Materializzando il soprannaturale, lo rendevano comprensibile a tutti»[23].

Si trattava di un’operazione che riguardò anche l’arte scultorea, come nel caso delle opere di Gian Lorenzo Bernini, e che Walter Friedlànder ebbe a definire «secolarizzazione del trascendente»[24]:

La fissità del quadro emblematico era infinitamente suggestiva, il contemplante se ne lasciava a poco a poco intaccare l’immaginativa, come la lastra di un acido. […] L’emblema combinava la «pittura muta» della immagine, la “pittura parlante” della descrizione letteraria e la «pittura di significazione» o trasposizione a sensi morali e mistici. Le prime due s’aiutavano a vicenda integrandosi e potenziandosi[25].

Tra le opere afferenti alla letteratura emblematica dei gesuiti ricordiamo, a titolo di esempio, il trattato Typus mundi, stampato ad Anversa nel 1627 a cura del Collegium Societatis Jesu, del quale si prende in esame l’emblema IX, il cui motto recita: «Frustra: quis stabilem figat in orbe gradum?».

Ispirato alla prima epistola di Giovanni da Patmos (1 S. Giovanni II, 17)[26], contiene una meditazione sulla precarietà del mondo (rappresentato dal globo crucigero) e sull’inconsistenza di passioni quali l’amore, l’avidità di ricchezze e l’orgoglio[27], che sono rese rispettivamente con un amorino (Cupido), un uomo danaroso (Pluto) e un pavone; mentre sullo sfondo si stagliano forme d’architettura ad immagine della nuova Gerusalemme[28].

C.S.J., Typus mundi, «Frustra: quis stabilem figat in orbe gradum?»

A margine compaiono tre composizioni poetiche, in latino, francese e fiammingo, contenenti la risposta all’interrogativo racchiuso nel motto latino («Vis stabili firmare loco vestigia? Christvs / Est petra quadra, quadro fige pedem lapide») e il chiaro invito a fuggire l’incostanza del mondo («fuyez, fuyez du Monde l’inconstance»)[29].

Gli emblemi del Typus mundi furono fonte di ispirazione per Francis Quarles, autore del trattato Emblems, divine and moral, nel quale confluirono numerosi motivi figurativi e letterari del volume di Anversa[30].


[1] F. Perugini, L’emblematista ugonotta Georgette de Montenay, in Donne, filosofia e cultura nel Seicento, a cura di P. Totaro, CNR, Roma 1999, p. 333.

[2] Praz, Studi sul concettismo, trad. it. di M. Maggi, Abscondita, Milano 2014, p. 42.

[3] G. de Montenay, Emblèmes ou devises chrestiennes, Lyon 1571, p. 1.

[4] Praz, Studi sul concettismo cit., p. 43.

[5] E. H. Gombrich, Immagini simboliche: studi sull’arte nel Rinascimento, trad. it. di R. Federici, Einaudi, Milano 1978, p. 208.

[6] C. Giarda, Bibliothecæ Alexandrinæ icones symbolicæ p.d. Christofori Giardæ cler. reg. S. Pauli elogiis illustratæ, apud Io. Bapt Bidellinm, Mediolani 1628, pp. 7-8.

[7] A. Serrai, Storia della bibliografia. Trattatistica biblioteconomica, a cura di M. Palumbo, Bulzoni, Roma 1994, p. 270.

[8] Praz, Immagini simboliche, in Id., Geometrie anamorfiche. Saggi di arte, letteratura e bizzarrie varie, a cura di G. Pulce, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, p. 88.

[9] A. Battistini, E. Raimondi, Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura Italiana. III. Le forme del testo, I (Teoria e poesia, I), Einaudi, Torino 1984, p. 101.

[10] E. Zolla, L’idea di un dizionario di simboli, in Id., Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, introduzione e cura di G. Marchianò, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2006, p. 395.

[11] Praz, Geometrie anamorfiche cit., p. 89. Cfr. R. Calasso, I geroglifici di Sir Thomas Browne, Adelphi, Milano 2018, p. 79: «[…] come gli dèi sdegnano le proposizioni e contemplano immagini, così i geroglifici si offrono immediatamente alla contemplazione, saltando la mediazione del linguaggio articolato».

[12] G. Vico, Scienza Nuova, introduzione e note di P. Rossi, BUR, Milano 1977, p. 73.

[13] R. Brandt, Filosofia nella pittura. Da Giorgione a Magritte, trad. it. di M. G. Franch e D. Gorreta, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2003, p. 318.

[14] Pietro Sisto, «Dietro una cerva lieve e fuggitiva». Memorie letterarie e immagini simboliche dell’animale dalle lunghe corna, in Id., «Dietro una cerva lieve e fuggitiva». Storie e immagini di animali nella letteratura italiana, Progedit, Bari 2018, pp. 44-45.

[15] H. Oraeus, Viridarium hieroglyphico-morale. In quo virtutes et vitia, atque mores huius aevi secundum tres ordines, apud Iacobum de Zetter, Francofurti 1644, p. 2. Cfr. B. Valentino, Aurelia Occulta Philosophorum, in Theatrum chemicum, IV, sumptibus Lazari Zetzneri, Argentorati 1613, p. 575: «Ex uno multi, & ex multis unum […]. Unum ego sum, & multi in me».

[16] P. Philippson, Origini e forme del mito greco, a cura di Federica M., Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 249.

[17] Ivi, p. 250.

[18] M. Brelich, Il sacro amplesso, Adelphi, Milano 1972, p. 21.

[19] G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, Adelphi, Milano 1993, p. 11.

[20] M. Casella, Purgatorio, in Id., Introduzione alle opere di Dante, Bompiani, Milano 1965, p. 101.

[21] D. Alighieri, Purgatorio, X, vv. 28-33, 94-96. Nei versi citati, Dante afferma che lo scultore dei riquadri istoriati coincide con l’artefice della natura: Dio stesso. L’artista di cui si fa il nome è il greco Policleto, il quale nel Medioevo fu annoverato tra i massimi scultori dell’antichità. Secondo Dante, il sommo artista «avrebbe scorno», proverebbe un senso di impotenza dinanzi alle figure istoriate nel marmo. Inoltre, trattandosi di opera della potenza divina, la natura stessa non sarebbe in grado di realizzare un lavoro di simile fattura.

[22] L. Salviucci Insolera, I gesuiti autori di libri con emblemi e imprese, in Id., L’Imago primi saeculi (1640) e il significato dell’immagine allegorica nella Compagnia di Gesù, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2004, p. 53.

[23] Praz, Studi sul concettismo cit., p. 160.

[24] Id., L’estro del Bernini, in Id., Bellezza e bizzarria. Saggi scelti, a cura di A. Cane, con un saggio introduttivo di G. Ficara, Mondadori, Milano 2002, p. 838.

[25] Praz, Studi sul concettismo cit., pp. 160-161.

[26] Bibbia di Diodati, III, trad. it. di G. Diodati, a cura di M. Ranchetti e M. Ventura Avanzinelli, Mondadori, Milano 1999, p. 869: «E’l mondo, e la sua concupiscenza, passa via: ma chi fa la volontà di Dio dimora in eterno».

[27] Collegium Societatis Jesu, Typus mundi, in quo eius calamitates et pericula nec non diuini, humanique amoris antipathia emblematice proponuntur, apud Ioan. Cnobbaert, Antwerp 1627, p. 44; cfr. F. Quarles, Emblems, divine and moral, J. Robins and Co., London 1824, p. 49.

[28] C. W. Moseley, A century of emblems. An introductory anthology, Scolar Press, Menston 1989, p. 183.

[29] Collegium Societatis Jesu, Typus mundi cit., p. 46.

[30] Praz, Studi sul concettismo cit., p. 149.

In copertina: Cornelis van Haarlem, La caduta dei Titani, 1588 (particolare)

Giuseppe Balducci

(1992) ha studiato presso l’Università degli Studi di Bari, dove si è laureato in lettere con una tesi sulla sezione di emblematica del Fondo speciale «Mario Praz» (Fondazione Primoli, Roma) presso la cattedra di Bibliografia e Biblioteconomia. Si è occupato di narrativa e saggistica, con contributi, tra gli altri, su Pierre Loti, Mario Praz e Marcel Proust. Ha curato, tra l’altro, le seguenti edizioni: Mario Praz, “Misteri d’Italia” (Torino, Aragno, 2022); Marcel Proust, “Soggiorno a Venezia" (Milano, Luni, 2022); Pierre Loti, “Uomo di mare” (Robin, Torino, 2023).

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