«Questi possibilisti vivono, si potrebbe dire, in una tessitura più sottile, una tessitura di fumo, immaginazioni, fantasticherie e congiuntivi»
Da qualche anno mi occupo di Possibile. Bizzarra affermazione per una categoria altrettanto bizzarra: sì, perché dopo aver attraversato la storia della filosofia – a partire da quella antica – come “concetto modale” (insieme al necessario, all’impossibile e al contingente e/o reale), con Immanuel Kant, il Possibile – insieme agli altri concetti modali – viene elevato al rango di categoria. Categoria modale (ovviamente) che si distingue nettamente dagli altri tre gruppi individuati dal filosofo tedesco (ossia di qualità, quantità, relazione) perché esprimente il come (appunto, il modus) e non il cosa: ovvero perché non riguardante il dictum o la res né altre forme di determinazione dell’oggetto. Sta proprio qui la bizzarria del Possibile: nell’essere una categoria che, tuttavia, sembra agire contro la determinazione. Anzi, a dire il vero, ad essa sembra appartenere sempre una quota di indeterminazione, apertura e incompletezza (ed è proprio intorno alle possibili modalità interpretative di quest’apertura che si agglutinano le diverse e più interessanti posizioni teoriche).
Quel che mi interessa, insieme e al di là delle interpretazioni teoriche, è il modo in cui l’arte ha elaborato questa categoria-concetto perché (scrivevo nell’introduzione alla tesi di dottorato), «in ambito prettamente artistico non vi è ad oggi – almeno in Italia –, nessun tentativo di teorizzazione, sistematizzazione e “applicazione” del Possibile». Proprio mentre scrivevo queste righe, si materializza sulla mia scrivania L’arte in preda al possibile. Pratiche di costruzione di comunità di Serena Carbone. Testo pubblicato da Gli Ori nella collana I limoni diretta da Pietro Gaglianò, che ne ha curato la postfazione dal deleuziano titolo Un po’ di possibile.
Costretta a modificare l’introduzione, scopro che tuttavia (e per mia fortuna!), il lavoro di Serena Carbone ha un orientamento ben diverso dal mio: se riguardo quest’ultimo “è meglio tacere”, per quanto riguarda il bel lavoro di Carbone lo scopo è quello di indagare la traiettoria dell’arte relazionale e/o partecipata elaborata in Italia negli ultimi trent’anni in una prospettiva, scrive l’autrice, «non assimilabile né all’estetica relazionale di Nicolas Bourriaud ma neanche alla Critica Istituzionale statunitense». Se, infatti, le pratiche analizzate da Bourriaud vengono alla fine assimilate sempre dai “circuiti ufficiali” e le operazioni della Critica Istituzionale sembrano andare alla ricerca di luoghi “altri” costruiti ex-novo o di un rinnovamento dei codici all’interno del sistema, l’arte relazionale italiana pare invece presentare delle caratteristiche peculiari. Una diversità data soprattutto dalla specificità dei luoghi nostrani che inducono alla ricerca di una dimensione più intima, familiare e comunitaria che si traduce in un incessante pellegrinaggio, ci dice Carbone, «dai margini al centro, dal centro ai margini, senza sosta».
«Si ribatterà che questa è un’utopia. Sì, certo lo è. Utopia ha press’a poco lo stesso significato di possibilità; il fatto che una possibilità non è una realtà vuol dire semplicemente che le circostanze alle quali essa è attualmente legata non glielo permettono»
Queste pratiche tentano di sfuggire alla fagocitosi delle logiche di mercato attraverso una continua dislocazione spaziale che, tuttavia, non ha per scopo la demonizzazione o rottura con l’istituzione come era avvenuto per le neoavanguardie, ma vuole abbracciare una dialettica “dentro-fuori” in cui l’arte si sposta «continuamente tra idea e realtà per creare dei mondi possibili». L’obiettivo è quello di agire per modificare la realtà e rinsaldare il legame tra arte e vita: obiettivo che può essere raggiunto solo attraverso l’inserimento – per via dialettica – del possibile nel reale affinché quest’ultimo «diventi l’attuale con il quale il virtuale (possibile) entra costantemente in relazione» e l’utopia divenga, finalmente, possibile.
Riferimento teorico di queste ultime affermazioni – nonché dell’intero testo –, sono le ossimoriche «utopie possibili» di Henri Lefebvre che, proprio negli stessi anni in cui Michel Foucault lavorava alle sue Eterotopie (dove il corpo, con il suo «non essere da nessuna parte», è «il punto zero del mondo» a partire dal quale si «irradiano tutti i luoghi possibili»), indaga le modalità di produzione dello spazio e la necessità di abitare il quotidiano, abitare quel «momento» che, come scrive Carbone, «è lo spazio delle possibilità in cui il momento potenziale può assurgere ad atto di trasformazione».
«quanto più uno è capace di dimenticare se stesso, di cancellarsi, di guardarsi con distacco, tanto più cresce in lui la forza disponibile per la comunità, come se fosse liberata da un legame sbagliato; e nello stesso tempo, più egli s’avvicina alla comunità, più deve diventare se stesso; perché a sentire Hans la vera originalità non stava nell’essere un originale ma nell’aprirsi, nel salire verso gradi sempre più alti di partecipazione e di dedizione, forse fino al grande sommo di una comunità di perfetti Senza-Io tutti assorbiti dal mondo, che in quella maniera si poteva tradurre in realtà»
Dopo la prima parte dedicata alle teorie sulla produzione e invenzione dello spazio, Carbone analizza alcuni casi di studio, tra cui: il «multifocale» e policentrico gruppo Oreste: gruppo dall’accesso libero e dallo statuto non gerarchico attivo tra il 1997 e il 2001 (e proprio l’eccesso di libertà e orizzontalità organizzativa ne sancirà la dissoluzione); i progetti del duo Bianco-Valente e il loro indagare le possibilità degli spazi indipendenti; la School of Narrative Dance e le operazioni di Annalisa Cattanei, sempre volte alla costruzione di reti di scambi e di relazioni fondanti la communitas. È proprio quest’ultimo termine ad essere la chiave (e senso ultimo) delle pratiche partecipative: riprendendo gli studi di Roberto Esposito – Communitas. Origine e destino della comunità – Carbone ci ricorda infatti che nella communitas è insito il senso del munus, ossia di un dono che si deve ricambiare attraverso la presa in carico dell’altro e la responsabilizzazione di ciascuno nei confronti del mondo. Questa reciprocità – alimentata dalla capacità d’ascolto – è sia la base della relazione con l’altro che quella di cui si nutrono gli studia humanitatis. È solo recuperando il senso profondo di questi ultimi che si può impedire «quel rimando a categorie trascendenti e teoriche appartenenti al marketing», scrive con polso fermo la giovane studiosa. Nell’affilato finale ribadisce che solo così la produzione artistica «contemporanea e la ricerca andrebbero a occupare un posto nevralgico perché rappresenterebbero la spinta propulsiva nonché l’unica possibilità di abbracciare la complessità del reale».
«È la realtà che suscita possibilità, e nulla di errato come negarlo. Tuttavia nella media o nella somma rimarrebbero sempre le stesse possibilità, che si ripetono finché viene qualcuno per il quale una cosa reale non vale più che una immaginaria. È lui che dà finalmente senso e determinazione alle nuove possibilità e le suscita»
Nonostante la diversità degli intenti (quelli di Carbone e quelli “taciuti”), impressionano i numerosi punti di contatto, in primis, la stessa “necessità” di Possibile e di condurre un’indagine intorno a questo concetto tanto onnipresente quanto fuggevole. C’è poi la costatazione dell’essenza intimamente relazionale del Possibile che, nel caso di Carbone, assume il senso assoluto della relazione con l’Altro e la sottolineatura del «come avviene l’incontro con l’altro, il come ci si mette in ascolto dell’altro». In effetti, quel “come” è proprio il “modus” che pertiene al Possibile in quanto concetto modale, il “modo” in cui si tengono insieme i termini di un enunciato linguistico o quella “e” che, come scrive Foucault – ripreso da Carbone – «fa “tenere insieme” (a fianco e di fronte l’une alle altre) le parole e le cose» trasformando il minuto sincategorema nello spazio – possibile – di una relazione.
Infine, l’urgenza di ancorare il Possibile al reale o, almeno, di liberarlo dall’intangibilità del virtuale. Tentativo che in Lefebvre sembra restare impigliato in una concezione “potenziale” del possibile e nel rapporto dialettico che quest’ultimo intrattiene col reale, poiché la dialettica finisce inevitabilmente per “confermare” il legame tra i due termini e ci costringe all’impresa (questa sì da annoverare tra gli “impossibili”) della definizione di un “reale” altrettanto fuggevole. Non a caso la stessa studiosa ci ricorda che quando Lefebvre parla del reale in Vers un romantisme révolutionnaire (1957) – quel libriccino che si apre proprio con la frase-titolo del testo, «L’uomo in preda al possibile» – «il linguaggio si fa incerto» proprio perché incapace di cogliere il reale; da qui la necessità dell’inserimento del possibile (incerto) nel reale (altrettanto incerto), in un loop dialettico infinito che rinvia e sposta il problema senza mai risolverlo. Ma allora, che fare? Per ora, l’unica soluzione possibile, è di adottare l’ironia come fuga.
«S’è messa per una strada molto pericolosa, illustre cugina. La gente è felicissima di esser lasciata lì in pace senza poter attuare le proprie idee!
– E lei che cosa farebbe, – chiese Diotima stizzita, – se avesse per un giorno il reggimento del mondo?
– Non mi resterebbe altro, credo, che abolire la realtà!»
Serena Carbone
L’arte in preda al possibile. Pratiche di costruzione di comunità
postfazione di Pietro Gaglianò
Gli Ori, 2023
pp. 112, € 16
Tutte le citazioni sono tratte da Robert Musil, L’uomo senza qualità, 1930-33
In copertina: Franz Erhard Walther, Four Body Weights, 1968