Teschio e cuore sono forse le due immagini simboliche di più universale e vasto impiego: ma se il teschio (morte/vanitas) ha un’evidenza nota a ogni latitudine e assodata da millenni, il cuore (vita/passione) ha storia meno antica e più tortuose vicissitudini. Che un’inflazione di cuori domini l’immaginario popolare, sembra indicarlo pure il fatto che nel catalogo di simboli, oggetti e faccette di WhatsApp Cuore batte Teschio 23 a 2. A fronte di due soli teschi (con e senza tibie a corredo: niente variazioni su un’icona che appare quindi fissata) si contano 23 cuori di ogni colore e qualità: spezzati, volanti, palpitanti, accoppiati, bendati…
Il dotto e serio lettore, a cui il nome del medico e letterato secentesco Francesco Pona non sia ignoto, potrebbe spazientirsi di fronte a notazioni così svagate e domandarsi che nesso abbiano con quel ponderoso volume che è il Cardiomorphoseos sive ex corde desumpta Emblemata sacra (1645). Cominciamo allora col ricordare che l’immaginario e il simbolo del cuore hanno un radicamento storico proprio nella cultura popolare. È in tempi di Controriforma, con l’arte devozionale e il diffondersi del culto del Sacro Cuore, che si è andata precisando l’icona “cuore” nella forma festonata e simmetrica che tutti conosciamo. Detto ciò, volgiamo l’attenzione alla prima edizione e traduzione moderna del Cardiomorphoseos di Pona, curata da Ilaria Gallinaro: è merito del prezioso saggio che apre il volume se i meccanismi di un arzigogolato congegno barocco si rimettono in moto. Anzi, se quel sommo angelo del bizzarro che fu Mario Praz, che aveva liquidato il Cardiomorphoseos senza tanti complimenti («a book of a hundred very rough emblems»)[1], si trovasse per le mani questa edizione, avrebbe forse qualche elemento per rivedere la sua sentenza censoria.

Onusto e oneroso, tanto che il suo stesso artifex lo definiva «un libro male assortato. Chi vuol applausi, componga romanzi», il Cardiomorphoses si compone di un montaggio di 101 cuori impressi e altrettanti testi, per lo più in prosa. «Metafore che piegano al profilo del cuore qualsiasi forma del reale» (Introduzione, p. vii), i cuori di questa galleria – mai anatomici ma solo morali – scandiscono un personale cammino di conversione dalle passioni mondane al divino amore.
Per chi non sappia andar oltre il primo colpo d’occhio, bellezza poca e bizzarria abbastanza in questa raccolta che sta a mezza strada tra una wunderkammer e un accigliato esercizio spirituale. All’appeal del Cardiomorphoseos non hanno giovato la materia penitenziale, il latino impervio e irto di citazioni e il fatto che le illustrazioni non si distinguano per particolare venustà.
Formatosi nella Padova aristotelica di primo Seicento, Francesco Pona (Verona, 1595-1655) era medico per professione e tant’altre cose per passione: letterato, botanico, trattatista, traduttore… Una mente enciclopedica mossa dall’ardente «ambizione di epitomare il mondo in piccolo spazio»[2]. Nell’ambito della sua prima attività letteraria, Pona aveva ottenuto un certo credito con La lucerna (1625), romanzo pieno di spunti esotici, erotici e orrorosi e di riferimenti eterodossi, in particolare alla teoria pitagorica della metempsicosi. Apprezzato nei milieu libertini della Serenissima, il romanzo finì all’Indice nel 1627 e fu sconfessato dall’autore nell’Antilucerna (1648). Da metà anni trenta, Pona aveva infatti avviato un suo itinerarium in Deum culminato nella conversione del 1645, anno di uscita del Cardiomorphoseos. La raccolta di emblemi si presenta così come una sorta di speculare rovescio tanto della Lucerna, quanto della Maschera iatropolitica (1627), l’ironica parabola in cui, nella cornice della metafora corpo/stato, l’autore aveva inscenato una guerra tra cervello e cuore. Allora come ora, l’uomo morale risponde al cuore, mentre il politico – sempre machiavellico – al cervello ovvero alla convenienza. Il Cardiomorphoseos oppone il sublime dell’etica all’ironia della politica e la fissazione in metafora al principio di metamorfosi che presiedeva la frenesia animistica della Lucerna. Fissazione, appunto: in quel reiterare e variare a mo’ di mantra un unico simbolo c’è un che di allucinatorio. Lo stesso numero 100 + 1, come osserva la curatrice, è cifra che mira l’infinito.
A volerne scorrere a volo alcuni numeri, il catalogo è questo: cuori ‘prevedibili’, come il cuore-rocca fortificata (xi e lxxxix), il cuore-vaso (xliv), il cuore-clessidra (lxxviii) si alternano a trovate più peregrine: il cuore-meridiana (lv), il cuore-pianeta che subisce un’eclissi in cui il corpo opaco della Terra si frappone tra lui e il Sole (xii), il cuore coperto di pustole (lxxxi) o di occhi (xx), il cuore tarantolato (lxix, con la tarantola che sembra un acaro ingrandito al microscopio), il cuore veggente («Il cuore ha gli occhi? Certo», sentenzia il commento lxxx).

Non mancano invenzioni ancor più concettose: la clessidra-innaffiatoio a forma di cuore (xxviii), il cuore-fontana sormontato da un par d’occhi che sembra uscito dalla penna di un surrealista (xliii e nel settembre 1922 un cuore di perfetto gusto poniano figurava in copertina a «Littérature», prima rivista diretta da André Breton), il cuore-turibolo, il cuore-calamaio che pare bell’e pronto per una bancarella di cianfrusaglie a buon mercato (c-ci).
Tra i serrati ranghi di questa parata s’intromette ogni tanto un putto che rappresenta l’Amor divino: lo troviamo ora sottoposto a varie torture espiatorie, ora intento – bisturi alla mano – a iniziare un’anatomia del cuore (vii) o ad asportargli via delle escrescenze superflue (lxxxiiii).

In barba alle apparenze, è però nella capacità di sconfinamento e non nella mania elencatoria o nell’ingegnosità variantistica che va cercata la chiave per entrare in quest’opera. Pona è «perfetto autore di metafore, di sconfinamenti tra le cose e le scienze, di sovrapposizioni tra immagini e significati proprio perché lui stesso non poneva barriere tra le letture» (p. xl).
Prudente e suadente, in oltre 90 pagine corredate da un inserto di tavole a colori, Ilaria Gallinaro spiega e dispiega metodo e risultati di un’indagine ventennale. In una progressione dall’osservazione ravvicinata alla veduta panoramica, la studiosa porge a chi legge lenti che vedono via via più lontano, passando dalla lente d’ingrandimento al grandangolo e al binocolo. Alla puntuale esposizione iniziale di genesi e struttura occulta della raccolta fan seguito capitoli che aprono la visione su territori sempre più vasti. Pagina dopo pagina, si mette a fuoco il senso del Cardiomorphoseos e si fa luce sul suo valore di «ricapitolazione estesa di un patrimonio simbolico e metaforico che di lì a poco verrà trasformato» (p. lxv). Una manciata di anni dopo l’uscita della raccolta poniana ci pensa Cartesio, con Les passions de l’âme (1649), a riconoscere al cervello il dominio sui moti dell’animo umano, instaurando un’egemonia le cui vestigia affiorano due secoli dopo nella poesia di un pioniere della modernità come Baudelaire, non certo un adepto della Dea Ragione. L’ultimo dei quattro componimenti di Spleen (in Les fleurs du mal, 1857) si chiude con l’immagine dell’Angoscia che, dopo aver sconfitto la Speranza, pianta il suo nero vessillo sul cranio – non nel cuore – del poeta.
Il capitolo conclusivo dell’ampia introduzione, «Cuori contemporanei», ha in serbo le ultime sorprese. Balzate fuori dalle pagine di una seicentina negletta perfino dai più occhiuti scout dell’insolito, ecco alcune figure del Cardiomorphoseos rivivere – trasformate – nei disegni di Alfred Basha (Kruje, Albania 1990) e negli oggetti realizzati dai designer di Studio ELICA. Il caso di un cuore derivato chissà come dal repertorio del Pona e pubblicato sul web nel 2017 come augurio di San Valentino testimonia invece un tipo di appropriazione smemorata che tuttavia non stupisce. Il postmoderno, si sa, tutto consuma (questo il suo verbo e comandamento primo e ultimo) in modo edace e indiscriminato e una sorte simile è toccata alla marca tipografica dei celeberrimi Giolito de’ Ferrari, la cui fenice è stata adottata come logo da un’impresa di pompe funebri. Qui, con boutade parafrastica, verrebbe quasi da chiedersi se le vie della migrazione dei simboli abbiano ragioni che solo il cuore conosce…
Nessuna tentazione di un’inopportuna e impossibile attualizzazione nell’excursus svolto dalla studiosa, ma solo un’arguta e motivata dimostrazione della sempre risorgente vita delle forme. Gallinaro è troppo rigorosa per simpatizzare con la nozione di Baroque Généralisé delineata nel secondo dopoguerra – non senza suggestivi e validi argomenti – dalle intrepide menti di Luigi Moretti e Michel Tapié, teorico e critico dell’arte di fama mondiale (e di formazione gesuita). Eppure, la sua introduzione al Cardiomorphoseos diventa anche una lectio – nient’affatto scontata – sul possibile «uso» che si può fare del Barocco nel XXI secolo.
Eseguendo la partitura del Pona, Ilaria Gallinaro ha dato voce a concetti ed espressioni rimasti muti per quasi quattro secoli. Dopo questa interpretazione, il Cardiomorphoseos torna a essere una machine à penser e a ricordare – pur nella sua farragine spesso indigesta – che la meraviglia non è il fine ma l’inizio. E magari – chissà – a insinuare perfino il sottile dubbio che, in Barocco, le macchine avessero ancora un cuore.
Francesco Pona
Cardiomorphoseos sive ex corde desumpta Emblemata sacra
a cura di Ilaria Gallinaro
Aragno, 2022
CIX + 494 pp., ill. b/n e col., € 40
In copertina: Francesco Pona, Cardiomorphoseos sive ex corde desumpta Emblemata sacra, 1645
[1] Mario Praz, Studies in seventeenth-century imagery, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1964, p. 152.
[2] Cfr. Fabrizio Bondi, PONA, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 84 (2015). Per una sua bibliografia vedi Stefania Buccini, Francesco Pona. L’ozio lecito della scrittura, in «Studi secenteschi», XLIV, 2003, pp. 271-277.