Sulla rosa: una logica della rappresentazione

17/07/2023

La rosa, fatalmente, sfiorisce. Da questa constatazione banale parte la ricerca che nel 1974 Giovanni Pozzi presentò agli studiosi e che oggi Davide Colussi ripropone pubblicando per Quodlibet una nuova edizione della Rosa in mano al professore. Una constatazione banale, e forse per questo poco sviluppata da chi in questi quasi cinquant’anni ha letto il bel libro di Pozzi, ma felice nel mettere in evidenza che il sostantivo “rosa”, per funzionare come immagine, non può essere concepito in modo statico, ma va colto come movimento e come destino.

La «singola fase non significa nulla in sé e per sé» scrive infatti l’autore nelle prime pagine del suo lavoro, quando ricava dalla «vicenda» del fiore-rosa uno schema tripartito del tema-rosa: a) una cosa che «in forza del corso naturale» va incontro al declino; b) una cosa che declina «in forza d’un intervento artificiale»; c) una cosa infine che, nonostante la presenza di «un ostacolo artificiale» riprende infine «lo stato anteriore». In questo insieme di virtualità resta chiuso tutto il «seminario della rosa», come lo chiama Pozzi attingendo al lessico della scolastica studiata al tempo della sua formazione come frate cappuccino (lo ricorda molto bene Colussi nella Prefazione): un seminario semantico, che cioè sistematizza i diversi «valori seminali» che sono «impliciti» nella situazione concettuale della “rosa”.

Se lo sviluppo effettivo di questi valori in una singola opera è questione del rapporto tra patrimonio artistico, soluzioni individuali e convenzioni storiche, resta che con la sua ricerca Pozzi intendeva proporre una possibile estetica dell’immagine in letteratura che facesse risaltare non tanto gli elementi fonici del linguaggio poetico quanto soprattutto quelli visivi. Avendo questo obiettivo, gli risultava naturale adottare gli strumenti della linguistica strutturale di de Saussure, per inserirsi nella scia della grande topica di Curtius, rafforzata però al punto di vista del metodo.

Il risultato era in fondo il recupero dell’antica relazione stabilita dall’ ars retorica tra invenzione e disposizione: poiché infatti rosa è “colore + forma + vicenda”, allora la selezione dei “semi” e la loro distribuzione nel testo assicurano all’artista la possibilità di sviluppare la rappresentazione artistica un sistema saldo nelle relazioni interne e vivido nell’esito conclusivo. L’efficacia icastica della rosa risultava così il risultato espressivo di una struttura concettuale: l’analogia si rivelava lo strumento operativo dei processi figurativi della mente.

Rileggendo il libro si capisce bene perché Pozzi negli anni successivi all’uscita del libro non solo si sarebbe concentrato sul rapporto tra topiche e stereotipia, ma avrebbe battuto con coerenza il sentiero del connubio tra testi verbali e testi figurativi a partire dalla cooperazione tra sistemi della rappresentazione e modelli conoscitivi (si veda già nella Rosa il discorso sull’impresistica).

Sullo sfondo della pubblicazione di libri ammiratissimi, come Sull’orlo del visibile parlare (1993) e Alternatim (1996) – sulle cui copertine, nota Colussi, risalta peraltro una rosa –, vediamo allora collocarsi la questione fondamentale del rapporto tra ciò che la mente possiede in rapporto alla conoscenza (più o meno precisa, ampia, circostanziata) di un certo referente (la rosa in quanto fiore), e ciò che invece la mente giunge a concepire per mezzo dell’attività rappresentativa, giacché, come scriveva già all’inizio di quel percorso di ricerca, «il parlar figurato» sorge dal «bisogno di oltrepassare usando del mezzo del linguaggio ciò che il linguaggio dice nella normale informazione; ecco perché fiorisce soprattutto là dove s’alza la barriera dell’indicibile».

Mossa da ciò che è oltre la comunicazione ordinaria, la poesia, facendo leva sui dispositivi della “figura”, giunge a realizzare un’immagine che non c’è nella realtà istantanea della percezione fisica ma c’è nella realtà altrettanto istantanea della concezione mentale: l’absent de tous bouquets, come scriveva Mallarmé, il fiore che non trovi in nessun mazzo e che pure la poesia restituisce.

Nonostante la sua appartenenza a un ordine religioso, Giovanni Pozzi non propone un’estetica teologizzante e men che meno una mistica; rispetto alla rigidità dell’allegoria o all’abisso ermeneutico dello scavo lessicale, il suo libro segue infatti il principio strutturalista del rapporto tra elementi in un sistema, mostrando come quegli elementi superino la semplice dimensione comunicativa, ma appunto perché seguono le logiche del sistema. Lo mostra, tra i tanti possibili esempi, la spiegazione che Giovanni Pozzi fornisce del primato della rosa nella poesia italiana rispetto ad altri fiori, dovuta a suo avviso alla maggiore flessibilità metrica dei bisillabi rispetto ai polisillabi e alla peculiare produttività morfologica degli aggettivi in –osa (odorosa, ascosa, preziosa, etc.):  elementi di cui non si è potuto avvalere il forse ancor più apprezzato (dal punto di vista culturale) “garofano”, alle cui forme francese e spagnola, oeillet e clavel, arrise invece ben altro successo per la forma fonica assai meno sgraziata e per le più numerose soluzioni in rima (cfr. pp. 80-81).

Analogo il ragionamento al livello dello svolgimento sintattico e della distribuzione dei predicati, al cui proposito Pozzi mostra il legame privilegiato del suo lemma-tema con l’ottava e il conseguente «rosario delle sequenze» che le appartiene; e analogo anche il modo in cui lo studioso analizza le esemplari sequenze narrative di Poliziano, Ariosto, Tasso e Marino mostrando per esempio, a proposito dell’Adone, come lo sviluppo diegetico possa diventare meno rilevante nel concreto testo poetico rispetto al dialogo degli elementi tematici, che a loro volta «assumono la funzione di significanti o di figuranti».

La rilevanza della ricerca di Giovanni Pozzi dal punto di vista dell’estetica della letteratura non deve certo far dimenticare che essa si misurava anche con problemi di tipo storiografico e che anzi addirittura muoveva dall’identificazione tra storia dell’ottava e tema della rosa, che Francesco De Sanctis aveva sottolineato nella sua Storia e Giacomo Debenedetti aveva elegantemente ripreso nella sua Commemorazione del maestro ottocentesco. Il debito con la storiografia letteraria è del resto esplicitato nel libro sin dal titolo, ricavato dal ritratto desanctisiano di Debenedetti («il professor De Sanctis cammina attraverso i secoli centrali della letteratura italiana, attraverso quei secoli che più drammaticamente impegnano le sorti del suo ideale – cammina, dico, con una rosa in mano»), e chiaramente espresso almeno nei capitoli tre e quattro e nella Crestomazia conclusiva. Ma proprio esplicitando il legame con De Sanctis, Pozzi mostrava che la questione da lui proposta non si esauriva dentro gli ambiti della storiografia letteraria.

Certo, l’individuazione di un “set” di elementi semantici e di conseguenti pattern figurali è il frutto di un’analisi di alcune opere distribuite nel tempo, ma quest’esito finale riguarda il «legame intimo fra temi e istituti formali» che si presenta come invarianza soggiacente alle variazioni. Si tratta di un’intuizione che stabilisce, «piaccia o non piaccia» scrive Pozzi, il comune far corpo della «produzione artistica» con quell’altra produzione «che diciamo artigianale o meccanica», mostrando quanto le «istanze imitative» abbiano «un potere direzionale nella produzione della poesia pari a quello delle istanze creative».

Il libro di Pozzi, abbiamo detto, è del 1974 e la sua iniziale concezione sembra databile a pochi anni prima (tra il 1971 e il 1972), cioè a breve distanza dalla pubblicazione italiana del libro di Ernst Gombrich su Freud e l’arte (1967) in cui il ruolo delle convenzioni, intese come “artificiosità”, nella invenzione artistica veniva illustrato con l’immagine della «culla di spago». Come accade al bambino – spiegava Gombrich –, che intreccia una cordicella o una gomma elastica alle proprie dita e poi la passa alle dita del bambino che gli sta di fronte, così fanno gli artisti, che partecipano a un loro «gioco di società» trasferendo nel tempo un certo schema compositivo o un certo sistema rappresentativo fanno emergere «ad ogni mossa» uno «schema» specifico, che, per quanto nuovo, «deve almeno altrettanto alle mosse compiute in passato [dagli artisti precedenti] quanto alle ingegnose variazioni introdotte dall’attuale giocatore».

Passandosi la rosa «di mano in mano», concluderemo dunque con De Sanctis, Debenedetti e Pozzi, gli artisti ne attualizzano nel tempo il seminario virtuale. Volta a volta, essi portano a espressione l’apparire del bocciolo, l’aprirsi dei petali, il trionfare della corolla, il mesto suo ripiegare, e infine il cadere, oppure anche il riprendersi in attesa del futuro vanire. Un’immagine attiva, che poggia sulla potenza immaginativa innescata dalle relazioni analogiche e innervante l’esperienza poetica. In poesia, infatti una rosa non è mai soltanto una rosa.

Sam Mendes, American Beauty, 1999

Giovanni Pozzi
La rosa in mano al professore
a cura di Davide Colussi
Quodlibet, 2023
pp. 264, € 22

In copertina: Domenichino, Rinaldo e Armida, ca. 1620 (Parigi, Musée du Louvre)

Giancarlo Alfano

(1968) insegna Letteratura italiana all’Università di Napoli Federico II. Si occupa di cultura del Rinascimento, di tradizione narrativa europea, di storia della cultura. Tra i suoi libri: “Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento" (Franco Cesati 2014); “L’umorismo letterario. Una lunga storia europea” (Carocci 2016); "Freud e il testo del desiderio. Psicanalisi e letteratura”, con Carmelo Colangelo (Carocci 2018). Ha collaborato alle edizioni commentate del “Decameron” e dei “Promessi Sposi” per i classici Adi-Bur (2013 e 2014). Ha curato con Francesco de Cristofaro l’opera in quattro volumi “Il romanzo in Italia” (Carocci 2018).

English
Go toTop