Un conglomerato di immagini

14/07/2023

Sul finire dello scorso decennio, la rivista «8½» pubblicava un’inchiesta sul cosiddetto film-evento in cui forniva dati e informazioni dettagliate su un inaspettato revival del documentario d’arte. Da genere povero e marginale, relegato nell’area dei cortometraggi o dei fuori-programma (quando ancora esistevano), il documentario sull’arte aveva inaspettatamente conquistato la misura del lungometraggio e una posizione di prestigio nel calendario delle proiezioni. Alla base di questa imprevista vitalità di un genere che grandi fortune, almeno nel circuito commerciale, non le aveva mai avute, sta l’idea di far percepire come evento la proiezione di un documentario d’arte, qualcosa di eccezionale, accostabile all’inaugurazione di una grande mostra o una prima teatrale. Il collegamento è suggerito dal titolo Exibitions on screen, La grande arte al cinema che il sistema distributivo della piattaforma Nexo Digital ha dato a questa programmazione di documentari, cui si aggiunge una certa “solennità” conferita dalle proiezioni in date prefissate e non procrastinabili. La loro peculiarità è, infatti, la proiezione in sale selezionate con un numero limitato di repliche (non più di due, per un totale massimo di tre giornate). Solo successivamente il film viene riproposto sui canali satellitari di Sky. Oltre alla già citata Nexo Digital, protagoniste di questa ripresa del documentario d’arte sono state la Magnitudo film e Sky arte. Tra i titoli che hanno inaugurato questa nuova tendenza sono da citare Firenze e gli Uffizi (Luca Viotto, 2015), Raffaello – il Principe delle Arti (Luca Viotto, 2017) e Caravaggio – L’anima e il sangue (Jesus Garces Lambert, 2018).

Pittura e scultura, musica, architettura hanno beneficiato di una congiuntura favorevole, dovuta prima di tutto alle nuove strategie di produzione e distribuzione rese possibili dal cinema digitale. Inoltre un’importante spinta è venuta da una certa ibridazione dei generi: nel documentario sono introdotti inserti di fiction biografica (biopic) con attori e tecniche narrative mutuati dalle serie Tv o dal cinema tradizionale. Nello stesso tempo il film biografico d’artista ha cominciato ad integrare parti sempre più importanti, e tecnicamente evolute, di tipo documentaristico.

La poesia e i poeti hanno potuto fruire ben poco di questa favorevole congiuntura: in realtà nessun titolo dedicato alla poesia è finora comparso nei cicli promossi dalle piattaforme sopracitate. In altro contesto non sono mancate le eccezioni rappresentate, innanzi tutto, da Il giovane favoloso (2014) di Mario Martone, film biografico dedicato alla figura di Giacomo Leopardi che si avvale di importanti componenti documentaristiche (le riprese dal vero in casa Leopardi a Recanati e la lettura, in numero in realtà contenuto, di poesie, prose e lettere del poeta) e che, soprattutto, fa leva sulla conoscenza che ogni italiano scolarizzato ha acquisito della vicenda umana e intellettuale del poeta di Recanati, in una misura che non ha uguali forse in nessun altro letterato, eccetto Dante (al quale mi riservo di dedicare un successivo intervento).

Assai più complesso è il caso della fortuna di Pier Paolo Pasolini, sul quale c’è da registrare un’intensa attività produttiva sia di finzione, da Pasolini, un delitto italiano (1995) di M. T. Giordana a Pasolini (2014) di Abel Ferrara, sia di documentari, da Pasolini, prossimo nostro (2006) di Giuseppe Bertolucci a La voce di Pasolini (2006) di Matteo Cerami e Mario Sesti. Tuttavia, sebbene la relazione tra cinema e poesia sia stato un tema centrale della riflessione teorica di Pasolini (a partire dal celebre saggio Il cinema di poesia, presentato a Pesaro nel 1965), esso passa decisamente in subordine rispetto agli aspetti della vicenda pasoliniana più legati al thriller processuale.

La vera eccezione, quanto a rapporti tra cinema e poesia, è rappresentata da Andrea Zanzotto (1921-2011) al quale, nonostante l’esistenza appartata che ha condotto nel suo paese natale, Pieve di Soligo in provincia di Treviso, sono stati dedicati alcuni significativi film, dal “ritratto” di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini (2000) a Andrea Zanzotto: dal furente Nordest (2001) di Francesco Bortolini. A questi va aggiunto ora Logos Zanzotto (2022) di Denis Brotto: un film che, per quanto nato in un contesto celebrativo (centenario della nascita del poeta e ottavo centenario dell’Università di Padova), adatta i procedimenti del film footage a un autentico film di ricerca intorno alla figura e all’opera di un poeta tra i più originali del secondo novecento italiano.

Certo non è con le armi della poesia che si può rivaleggiare con il glamour delle grandi mostre d’arte o delle prime teatrali e con le nuove tecniche di ripresa e di montaggio. In questi documentari, che spesso hanno un’impostazione piuttosto convenzionale, la visione di opere d’arte riprodotte, grazie ai prodigi delle nuove tecnologie, si trasforma in una avventura dello sguardo che alla fine ha ben poco a che fare con l’esperienza ordinaria dello spettatore che visita una mostra. La poesia consente approcci più dimessi e tuttavia capaci di configurare in forme originali e suggestive le proprie tracce «documentali». E a questo proposito si possono segnalare degli esempi significativi. Innanzi tutto quello che a mio giudizio è l’esempio più intenso di ripresa cinematografica della lettura integrale di un’opera poetica: si tratta del film La camera da letto (Stefano Consiglio e Francesco Dal Bosco, 1991), lettura integrale da parte di Attilio Bertolucci del suo romanzo-poema. Accanto a questo, per restare in casa Bertolucci, va segnalato Rubando bellezza (Fulvio Wetzl, Laura Bagnoli, Danny Biancardi, 2017) un film dedicato a Attilio Bertolucci e ai suoi figli, Bernardo e Giuseppe, che hanno ambedue esordito come poeti, prima di intraprendere la loro ben nota carriera cinematografica. Lo spirito di questo film è perfettamente riassunto da una dichiarazione di Bernardo che vale la pena di riportare: «Io vedo che la poesia viene da quello che abbiamo intorno a casa, dal mattone tiepido-rosso della stalla. La poesia è qualcosa che basta guardare e c’è, lì».

Più volte ho pensato a questa dichiarazione di Bernardo Bertolucci vedendo Logos Zanzotto di Denis Brotto. Ritengo infatti che sia proprio la poesia a offrire spunti per documentari originali e incisivi, a fornire materia per un lavoro sperimentale. Già Pasolini con i suoi «sopralluoghi» e i suoi «appunti» aveva fatto ricorso al documentario come a una sorta di laboratorio sperimentale: Appunti per un’Orestiade Africana è al tempo stesso un sopralluogo alla ricerca degli spazi in cui ambientare una nuova versione dell’Orestiade e una riflessione sui rapporti tra la lingua della poesia e il mezzo filmico: e infatti Pasolini ripropone ampi stralci, inseriti nel suo commento parlato, della sua traduzione di Eschilo approntata per il Teatro Popolare Italiano di Vittorio Gassman (1960).

In questo variegato panorama di sperimentazioni sul documentario una posizione di assoluto rilievo è occupata da Logos Zanzotto: io credo che proprio in documentari di questo tipo si stia mettendo a punto un ordine del discorso destinato ad avere sviluppi nel documentario d’arte, nel cosiddetto film-saggio e nel film d’archivio. La definizione di found footage, abitualmente usata per documentari totalmente o parzialmente basati su materiali d’archivio, necessita quanto meno di alcune precisazioni. Il termine footage, che può essere reso in italiano con «metraggio», rinvia alla fisicità del supporto rinvenuto e a una valutazione più quantitativa che qualitativa dei suoi contenuti; personalmente mi evoca compravendite a «un tanto al metro» o addirittura cessione gratuita di pellicole altrimenti destinate al macero, come nel caso di Verifica incerta (Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi, 1965) che può essere considerato un incunabulo del found footage. Mentre il participio found (trovato) evoca dimenticanza e abbandono; e sembra alludere a rinvenimenti casuali.

Nell’uso che comunemente ne fanno la critica e la teoria, sempre più spesso il found footage coincide con le pratiche del riuso o riciclaggio. Ma non sempre è così. In contro-tendenza con le attuali pratiche del recycled cinema, Denis Brotto ci offre un saggio di uso del found footage coerente e funzionale rispetto a un progetto di ricerca. In Logos Zanzotto non di riuso o riciclaggio si tratta, ma di uso appropriato, cioè adeguato alle qualità (proprietà) del materiale d’archivio cui si ricorre.

Penso a questo proposito a un celebre passo di Siegfried Kracauer in cui viene ribadito con forza il legame genetico tra fotografia istantanea e cinema: «la fotografia, e specialmente l’istantanea, è il fattore decisivo nel determinare la sostanza del cinema nella cui natura sopravvive». Ne troviamo conferma in questi spezzoni d’archivio nei quali ci è consentito cercare, nonostante la (o forse proprio in virtù della) riproduzione meccanica, qualcosa di molto vicino a quello che secondo Zanzotto cerca la poesia: «il senso di qualche cosa che c’è ma che ci sfugge in continuazione […] questo continuo scintillio di un senso possibile».

La tecnologia digitale consente a Brotto di passare in rassegna una grande varietà di materiali visivi e sonori e stabilire serrati collegamenti tra parola e immagine in modo che dalla tessitura discorsiva possa realizzarsi la traduzione in parole e immagini del mistero che la natura (il paesaggio) custodisce. Quando, in uno stralcio d’intervista riprodotto da Brotto, Zanzotto avalla una definizione di Contini che lo descrive rintanato «nel suo nido natale come in una catacomba», si preoccupa subito di precisare che le catacombe non sono solo il luogo dove ci si ripara da un pericolo, ma anche dove si dà inizio ad una nuova religione, al ripristino di un culto non per la natura convenzionale, ma per quelle forze che stanno dietro, all’interno della natura.

Quest’idea di natura ci permette di stabilire una qualche connessione con l’idea di cinema che emerge da una parte cospicua dell’attività saggistica di Zanzotto e dalle varie forme della sua collaborazione con Federico Fellini, alle quali è dedicato un prezioso volume a cura di Luciano De Giusti. Per fare questo si potrebbe prendere le mosse dai titoli che Zanzotto ha dato alle due ultime raccolte di poesie pubblicate in vita: Sovrimpressioni (2001) e Conglomerati (2009). Ho scelto queste due parole sia per il loro specifico significato, sia per le risonanze che suscita il loro puro e semplice accostamento e che il film di Brotto riesce ad attivare, indagando parallelamente l’universo cinematografico e il mondo della natura. La prima, «sovrimpressione», è un termine cinematografico. Come spiega il vocabolario, la sovrimpressione è «in cinematografia e nella televisione, la sovrapposizione di un’immagine a un’altra, per ottenere effetti speciali (per es., in scene di sogno, di evocazione, di ricordo), oppure di scritte sopra immagini, nella realizzazione dei titoli di testa o di coda di un film o di un programma televisivo». Più che la sua importanza nella produzione di trucchi e effetti speciali, mi interessa qui evidenziare la stretta parentela della sovrimpressione con la dissolvenza incrociata, della quale Christian Metz ha scritto che, «anche quando è diventata un puro e semplice segno di interpunzione», ha conservato «qualcosa della fusione sostanziale, della trasmutazione magica, dell’efficacia mistica».

L’altra parola, «conglomerato», è un termine geologico che designa una roccia sedimentaria costituita da frammenti trattenuti da una matrice di diversa natura detta cemento, anche se non va dimenticato il suo uso in linguistica dove indica un’unità lessicale composta, risultante dalla fusione di più parole.

In Logos Zanzotto ci viene proposto un amalgama tra le immagini filmate nel bianco e nero e negli incerti colori del formato tipico del film di famiglia, il super8, e le riprese odierne sui luoghi della poesia di Zanzotto, luoghi concreti, ben riconoscibili, con una attenzione ossessiva alla rude superficie delle cose. L’amalgama di questi dati materiali, di questi elementi fisici richiama la struttura composita del «conglomerato». Mentre il termine «sovrimpressione» suggerisce un legame segreto con il titolo del primo libro di Zanzotto, Dietro il paesaggio (1951), mettendo in connessione il nucleo originario della sua poetica e l’interesse per il cinema manifestato a partire da Filò (1976).

Il film di Brotto ci guida, sequenza dopo sequenza, nella percezione di questo percorso. Ci troviamo identificati con il punto di vista della poesia: è come se lo sguardo del poeta fosse costantemente alla ricerca di un al di là del visibile, di quanto la natura, la configurazione del terreno, la massa della vegetazione, i banchi di nebbia e le nuvole galleggianti a ridosso di rocce e pendii offrono e nello stesso tempo celano alla nostra vista. Tutto questo entra a far parte della tessitura di Logos Zanzotto. Ora è la partitura visiva delle sequenze a mostrarcelo, grazie a un montaggio controllato e impeccabile (Denis Brotto e Paolo Cottignola). Ora è un gioco di sovrapposizioni tra luoghi ripresi e voce over del poeta stesso, come avviene nell’incipit in cui dopo una serie di immagini fisse di ruderi, muri selvaggiamente istoriati, detriti abbandonati, putrelle arrugginite, capannoni dismessi, la cinepresa sembra addentarsi nelle viscere della terra, mentre la voce del poeta scandisce: «la poesia in generale opera in ambienti piuttosto oscuri e carsici, cavernicoli […]»; e ancora: «l’incontro con il fatto poetico resta per me sempre una specie di opzione fatta sul vuoto, sul nulla».

Sulla scorta delle dichiarazioni del poeta disseminate nei materiali d’archivio assemblati e delle interviste a critici, scrittori e studiosi Brotto fissa con la sua videocamera dettagli di ogni tipo, pur sapendo che ogni ingrandimento, ogni prossimità a uno degli aspetti del fatto poetico (iconico, sonoro, semantico) comporta la perdita degli altri, secondo una sorta di principio di indeterminazione sul quale si infrange la «furia totalizzante» del testo poetico. Ecco cosa dice al proposito Zanzotto: «Quelli che puntano sulla poesia visiva sanno che perdono tutto il côté della poesia fonica. Chi invece punta sull’oralità sa che perde le miniature e le bellezze dell’ideogramma. Chi punta sulle gioie del significante e dei suoi giochi sa che perde le mirabili musiche del significato».

Nel suo film Brotto mobilita e coordina tutti i mezzi che gli mette a disposizione la tecnica digitale: egli può passare così, apparentemente senza soluzione di continuità, da un frammento d’intervista a una ripresa degli affreschi dell’Antica Pieve di S. Pietro a Feletto e alle decorazioni murali della casa d’infanzia del poeta, dove il padre pittore lo aveva ritratto in abiti da principino; da una intensa lettura di Patrizia Valduga (Collassare e pomerio da Fosfeni, 1983) alla voce per un attimo incrinata dalla commozione di Stefano Dal Bianco, da una testimonianza di Giosetta Fioroni a una brillante argomentazione di Massimo Cacciari che riprende la ben nota tesi di Heidegger secondo la quale non siamo noi ad usare la lingua, ma è la lingua stessa che ci parla, plasmando la nostra percezione della realtà.

Se nel caso dei documentari sull’arte, cui mi sono sopra riferito, la tecnica digitale consente di riprendere dettagli e prospettive della pittura di Perugino, Raffaello o Leonardo con raffinati procedimenti non dissimili da quelli che Hollywood usa per Spider man, nel caso di Logos Zanzotto la stessa tecnica consente di riprendere le forme della scrittura diaristica, del sopralluogo, degli appunti e del saggio in forma audiovisiva per riproporre, nella varietà delle sue manifestazioni, l’esperienza della poesia.

Riferimenti bibliografici

A. Bertolucci, La camera da letto: un film in versi (1991), Cineteca di Bologna, Bologna, 2012

M. Bertozzi, Recycled cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio, Venezia 2012

Arte e cinema: i film-evento, a cura di N. Bianchi, in «8½. Numeri, visioni e prospettive del cinema italiano», 46, settembre 2019

D. Brotto, Trame digitali. Cinema e nuove tecnologie, Marsilio, Venezia 2012

Found Footage Experience. Pratiche del riuso cinematografico e forme del contemporaneo, a cura di G. Catanese G. Ravesi, in «Imago. Studi di cinema e media», 24, 2021

A. Costa, Il cinema e le arti visive. Nuova edizione riveduta e ampliata, Einaudi, Torino 2022.

Eschilo, Orestiade, traduzione Pier Paolo Pasolini, Einaudi, Torino 1960 (ristampa 1983)

S. Kracauer, Theory of Film, New York 1960; trad. it. di P. Gobetti, Film: ritorno alla realtà fisica, Milano 1962

Ch. Metz, Essais sur la signification au cinéma, Klinksiek, Paris 1972; trad. it La significazione nel cinema, Bompiani, Milano 1975

A. Zanzotto, Filò. Per il Casanova di Fellini, Edizioni del Ruzante, Venezia 1976; poi in Filò, Mondadori, Milano 1983

A. Zanzotto, Sovrimpressioni (2001) e Conglomerati (2009), in Id., Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, Mondadori, Milano 2011.

A. Zanzotto, Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari, a cura di L. De Giusti, Marsilio, Venezia 2011

Antonio Costa

si è a lungo occupato dei rapporti tra cinema e altre arti. Ha insegnato in varie università in Italia (Bologna, Trieste, Venezia IUAV) e all’estero (Paris 8, Montreal). Tra i suoi libri più recenti “La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock” (2014); “Il richiamo dell’ombra. Il cinema e l’altro volto del visibile” (2020); “Il cinema e le arti visive”, nuova edizione riveduta e ampliata (2022), tutti apparsi nella collana PBE di Einaudi.

English
Go toTop