Gianni Colombo, un’odissea nello spazio

12/07/2023

Nel 1995, in occasione della mostra dedicata ai fratelli Joe e Gianni Colombo e svoltasi presso la GAMeC di Bergamo, all’interno del voluminoso catalogo Jole De Sanna pubblicava un’intervista a Gianni Colombo (registrata all’Accademia di Belle Arti di Brera nel gennaio del ’90) dal titolo Storia come filtro della qualità. Nel corso dell’intervista, in cui Colombo si sofferma sulla sua lunga carriera, De Sanna gli domanda se sia possibile parlare di coscienza visiva come esito delle esperienze cinetico-visuali condotte in quegli anni da lui e da molti artisti europei e americani. La risposta di Colombo riassume in poche righe l’essenza della sua ricerca, anzi della sua arte come forma di ricerca, volta a indagare la percezione umana e a contribuire a dar vita a un’esperienza formativa e ludica per l’osservatore che sia curioso di comprendere il suo proprio ruolo e le sue funzionalità percettive all’interno dello spazio con cui si relaziona. L’artista afferma:

Io ho sempre sostenuto che i miei lavori avevano una caratteristica di autotest: non erano fatti per ricavare dei dati, ma per emancipare lo spettatore dal suo stato di percezione, rendendolo cosciente di quello che lo riguardava, che è una condizione della sua esistenza. Quindi le mie opere corrispondevano a una rappresentazione che mette in scena la percezione stessa.

Le opere di Colombo, quindi, sono atte a stimolare una riflessione nella mente dell’osservatore, il quale deve compiere uno sforzo in piena autonomia per ritrovare un equilibrio fisico e percettivo nuovo dopo l’esperienza artistica vissuta, un equilibrio consapevole, una crescita totale. Questa finalità accomuna tutte le sue opere, a partire dalle esperienze cinetiche e programmate con il Gruppo T alla fine degli anni Cinquanta, quando ancora esponeva quadri meccanici, oscillanti e provocazioni sensoriali.

Veduta d’insieme di una delle sale del percorso espositivo con diversi esempi di Strutturazione pulsante, realizzati nel 1959.

La mostra Gianni Colombo. A Space Odyssey, curata da Marco Scotini alla Fondazione Marconi di Milano, sembra prefissarsi questo scopo precipuo: disorientare il fruitore, destabilizzarlo, mettere in dubbio la sua capacità percettiva, alterare il suo convenzionale modo di vivere lo spazio con provocazioni cinetiche, paradossali e spiazzanti, per fornire così gli strumenti per una successiva ricerca personale. L’evento è stato organizzato in occasione del trentesimo anniversario della morte del grande artista e, pur presentando una vasta selezione di opere che spaziano dal 1959 al 1992, quasi l’intero arco della sua sperimentazione artistica quindi, il fine di questa mostra è quello di focalizzarsi sulle sue ricerche sulle funzionalità del piano inclinato, sul conseguente ruolo della gravità e della propriocezione. Fin dalle prime sale, l’equilibrio dell’osservatore viene messo in discussione: sottili strutture in alluminio e acciaio, vibranti grazie all’animazione elettromeccanica, riflettono la loro ombra su pareti e pavimenti interamente bianchi. Il fruitore di questo spazio è totalmente immerso in un ambiente dove non distingue più quanto è reale da ciò che non lo è: attorniato dal disturbante rumore dei meccanismi elettrici, sembra galleggiare, instabile, in un groviglio di acciaio e di ombre effimere.

Tre diverse varianti di Spazio elastico, realizzati fra il 1967 e il 1971

Ma da spazi più asettici, neutri ed astratti, si passa poi a veri e propri ambienti dove è maggiormente apprezzabile il legame con l’architettura dello spazio espositivo e dove gli elementi costitutivi dell’opera dialogano direttamente con il corpo e i movimenti del fruitore. L’apparente instabilità strutturale di opere come Bariestesia del 1975, infatti, concepita proprio per l’allora Galleria Marconi, ha l’obiettivo di offrire un itinerario praticabile dove i gradoni e le alterazioni del piano calpestabile sono atte a sensibilizzare lo stato di equilibrio – la percezione barestetica appunto – la relazione con lo spazio e la postura del fruitore. Percorrendo questo ambiente, salendo e discendendo, si ha la possibilità di riflettere sulle proprie competenze legate al movimento, e di prendere consapevolezza della propria sensibilità propriocettiva, divenendo il soggetto di un esperimento cinestesico.

Bariestesia, legno dipinto, 1975

A enfatizzare il legame con la galleria si staglia, maestoso, al primo piano dello spazio espositivo, l’ambiente Topoestesia del 1977, esposto da Marconi nell’aprile-maggio dello stesso anno ma sul quale Colombo lavorava già a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. Come per Bariestesia si tratta di uno spazioche offre al visitatore un percorso che capovolge le leggi fondamentali della percezione, alterandone i meccanismi abituali. Entrando ci si trova in un ambiente chiuso e rialzato, al cui interno si succedono stati di discesa, di salita e di pendenza a destra o a sinistra. Questa progettazione interna entra in relazione con le sensazioni che tali passaggi programmati della struttura determinano nel fruitore. Attraverso questa esperienza vengono influenzati i suoi recettori vestibolari, i suoi riflessi di postura, così come la sensazione di equilibrio e gravità.

L’ambiente interno rialzato Topoestesia, realizzato in legno e ferro, del 1977

Le sfide nell’utilizzo del piano inclinato sperimentate da Colombo hanno evidentemente influenzato il titolo e il concept di questa retrospettiva: A Space Odyssey. L’influenza della cinematografia, con il capolavoro di Stanley Kubrick del 1968, e della ricerca scientifica, con l’impresa dell’Apollo 11 nel 1969, hanno sicuramente avuto un ruolo nell’orientare l’evoluzione estetica di Colombo dove, come astronauti, i fruitori attivi dei suoi esperimenti sembrano fluttuare in uno spazio privo dei canonici riferimenti gravitazionali pronti ad accogliere una nuova consapevolezza cinestesica. Proseguendo nella lettura del dialogo tra De Sanna e Colombo, comprendiamo che è doveroso considerare questi ambienti come campi di studio interdisciplinare il cui fine ultimo è quello di una fusione tra la dimensione artistica e quella architettonica.

Questi progetti, quindi, non devono essere concepiti separatamente dallo spazio che li accoglie, ma come un tutt’uno con esso, come parte di un’architettura abitativa che potremmo definire sensoriale, priva di valore decorativo e in continuo dialogo costruttivo con chi ne fruisce. Questa riflessione rende ancora più comprensibile e apprezzabile il riferimento al saggio Bodies in Space: Film as «Carnal Knowledge» che la scrittrice Annette Michelson scrive su Artforum nel 1969 e che il curatore di questa retrospettiva scegli come anello di congiunzione fra la fruizione dello spazio in Colombo e in Kubrick. Scrive infatti Michelson (traduzione mia):

Odissea nello spazio, quel film di “effetti speciali” in cui “non succede niente”, è semplicemente un film che, nella sua estremizzazione della coerenza e della ricchezza stilistica formale, nel suo ambiente totalmente reinventato, dissolve la nozione stessa di “effetti speciali”. Semplicemente scompaiono. Soprattutto però sollecita, nella sua travolgente immediatezza, la ricollocazione del contesto in cui le cose accadono. E le cose accadono, in ultima analisi, non solo sullo schermo, ma da qualche parte tra lo schermo e lo spettatore. È l’area definita e costantemente attraversata dalla nostra attiva ristrutturazione e ricostituzione, attraverso un’esperienza di spazio “esterno”, dello spazio “interno” del corpo. Il film di Kubrick, la cui azione genera una sorta di corrente incrociata di percezione e ristrutturazione cognitiva, raggiunge visivamente, per così dire, un’altra arena, ridefinendo il contenuto del cinema, la sua “forma del contenuto”. Il soggetto e il tema di Odissea nello spazio non emergono quindi né come sociali né come metafisici; si sviluppano altrove, nel mezzo, in un’epistemologia genetica.

Tanto Colombo che Kubrick propongono uno spazio che si offre all’osservatore/fruitore come base di partenza per una ristrutturazione cognitiva e percettiva; sono campi d’accadimenti per lo sviluppo di un processo aperto, mirato a una maggiore consapevolezza del proprio equilibrio e della propria impronta gravitazionale.

Diversi esempi di Cromostruttura, realizzati fra il 1961 e il 1975

Per concludere questa riflessione è necessario dedicare qualche riga alle altre opere esposte in mostra e che simboleggiano la ricerca che ha preceduto e ha seguito gli ambienti degli anni Settanta. In particolare, è cruciale menzionare le prime opere realizzate con il Gruppo T nel 1959, che occupano un’intera sala del percorso espositivo. Si tratta di opere cinetiche, cioè programmate da Colombo per essere direttamente manipolate dall’osservatore in modo che alla fine si presentino combinate differentemente sulla superficie. Tra le sue opere più famose del periodo spiccano sicuramente le varie Strutturazioni pulsanti, sorprendentemente funzionanti, che potremmo definire come delle vere e proprie attività spaziali. Si tratta di pareti monocromatiche di blocchi di polistirolo identici disposti in una griglia regolare. Un dispositivo elettromeccanico è posizionato sul retro, provocando la sporgenza di diversi punti della superficie secondo una sequenza casuale: il movimento continuo e simultaneo della struttura sorprende quindi l’osservatore attraverso un’incessante variazione visiva. Attraverso la programmazione dei movimenti delle piastrelle di polistirolo, il relativo impegno dell’osservatore costretto a seguire incessantemente i cambiamenti della superficie del pezzo e il gioco di chiaroscuri che trasforma sempre la percezione dell’opera, Colombo è riuscito a sbloccare l’infinita immobilità degli Achromes di Piero Manzoni, ai quali certo si era ispirato.

Strutturazione pulsante, 1959

La mostra si conclude con l’opera Spazio curvo del 1992: un ambiente buio, praticamente vuoto, nel quale spicca una sottile forma circolare in PVC, illuminata da una lampada ultravioletta e mossa da un meccanismo elettromeccanico. L’opera rappresenta davvero l’inizio e la fine del percorso artistico di una vita (Colombo morirà infatti l’anno dopo). È inevitabile un riferimento a chi era stato per lui una grande fonte d’ispirazione fin dai primordi della carriera, cioè Lucio Fontana e il movimento spazialista; ma allo stesso tempo questo ambiente rappresenta la sintesi estrema di quanto ricercato da Colombo per decenni sul rapporto fra spazio e fruitore. Il visitatore sembra assorbito nel nulla più cupo, nello spazio più profondo, e lì deve ritrovare sé stesso. Questa volta sono pochi gli aiuti percettivi che l’artista offre, solo un sottile, eterno cerchio: il visitatore deve riemergere solitario contando solo sulla propria consapevolezza.

Spazio curvo, 1992

Gianni Colombo. A Space Odyssey
a cura di Marco Scotini
Giò Marconi, Milano
fino al 17 luglio 2023

Martina Borghi

è Dottore di ricerca con una tesi sull’Arte Cinetica e Programmata presso la Royal Holloway University of London. La sua ossessione per Bruno Munari la porta spesso a lavorare sulla didattica e sul modo in cui l’osservatore percepisce le opere d’arte contemporanee. Nella sua vita precedente all’esodo londinese si è laureata in Storia dell’Arte presso l’Università di Pavia, ha fatto un master presso la Business School del “Sole 24 Ore” e ha lavorato per uno dei festival di cinema documentario più antico d’Europa a Firenze. Tra le esperienze lavorative che le hanno dato più soddisfazione sicuramente rientra la catalogazione svolta in collaborazione con il Ministero dei Beni Culturali di un importante nucleo di opere d’arte confiscate alla criminalità organizzata. Collabora attivamente con il blog “Interdisciplinary Italy”.

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