Giulio Paolini, da Atlantide a Citera

10/07/2023

Un’amicizia, un’affinità speciale legava Alighiero Boetti a Giulio Paolini. Mentre non riusciva a entrare in sintonia col temperamento sanguigno di Jannis Kounellis, col suo vulcanico trattamento della materia, assai gli andava a genio l’ironia metafisica di Boetti, la sua capacità di giocosamente desublimare l’«attitudine all’analisi» che li accomunava e che «a volte dava al proprio lavoro», confessa Paolini ad Antonella Soldaini, «un tratto di cerebralità o citazionismo enciclopedico un po’ stucchevole». Questo anche se ancora oggi non cessa di interrogarsi, Paolini, sul senso di certi lavori enigmatici di Boetti (per esempio il Manifesto del ’67 che lo annovera, primo fra cotanto senno, tra gli artisti a vario titolo coinvolti da Germano Celant nella fiammata dell’Arte Povera, tanto effimera quanto decisiva). Ignora pure il motivo per cui una certa domenica del ’68 (o era sempre il ’67?) Boetti abbia insistito a trascinarlo al circo, dove lui mai aveva messo piede, e lo abbia convinto a issarsi sul dorso di un elefante «su cui salivano i bambini per farsi fare le fotografie»: «Alighiero, una volta riuscito a farmi salire e al pari di un uomo del circo ha fatto uno schiocco con le mani indicandomi come una sorta di eroe!». In quell’immagine memorabile un Boetti dalla camicia sgargiante, con ampi gesti da imbonitore, appare perfettamente in parte; a braccia conserte Paolini, occhiali fumé polo a collo alto e clarks d’ordinanza, conserva invece la postura seria e intenta di sempre – ma un cenno di sorriso malcela lo spasso. 

Giulio Paolini e Alighiero Boetti al circo, 1967

Chissà, forse in questo modo Boetti alludeva alla proverbiale, elefantiaca memoria dell’amico: quella che una volta Paolini, con la sua formula più celebre, ha definito la trasparenza etimologica («invoco, nel mio lavoro, la trasparenza etimologica delle opere di Beato Angelico, Johannes Vermeer, Nicolas Poussin, Lorenzo Lotto, Jacques-Louis David») che nella sua opera ha sempre conservato la Tradizione. Non mera citazione, come nel postmodernismo allora ben al di qua dal definirsi tale; bensì ethos, regola interiore o (dice Francesco Guzzetti col vecchio Bellori) «ordinatissima norma di vivere». Paolini parla di «una sorta di osservanza spirituale», ma aggiunge di essere da un lato «consapevole di seguire queste norme» e dall’altro di «non conoscerne razionalmente il dettato». Non c’è insomma artista o scrittore, oggi, che meglio di lui – con più puntiglioso metodo, cioè, nella sua follia – incarni il paradosso di Giorgio Manganelli: «arbitraria è la scelta del rito cui mi dedico, rigorosa l’osservanza del rito scelto a quel modo».


Giulio Paolini, A come Accademia (I), 2010-23
Pedana bianca, cavalletti, riproduzioni fotostatiche e fogli da disegno, calchi di gesso, supporti e lastre di plexiglass. Particolare dell’Atlantide (1958, tempera su cartone applicato su masonite). Pedana 8 × 160 × 240 cm, due cavalletti, sei calchi h 59 cm ciascuno, due supporti di plexiglass 58,5 × 80 cm ciascuno, due supporti di plexiglass 43,5 × 58 cm ciascuno, una lastra di plexiglass 70 × 70 cm, due lastre di plexiglass 90 × 160 cm ciascuna, due lastre di plexiglass 40 × 60 cm ciascuna, quadro a tempera su cartone applicato su masonite 27,8 × 36 cm, misure complessive variabili

Non è affatto un caso, date tali premesse, che Paolini sia forse l’unico artista degli ultimi due secoli (magari insieme al mentore de Chirico, da lui infatti sempre più celebrato) a non guardare con sospetto, d’acchito, al concetto – e alla parola – «Accademia». Già nel 2010 aveva intitolato una sua mostra, tenuta in quella di Brera, A come Accademia: titolo che oggi ripete identico, et pour cause (per le cure di Antonella Soldaini, da un’idea avuta col suo Presidente Marco Tirelli), in quella romana di San Luca, nei magnifici locali di Palazzo Carpegna disegnati da Borromini. Ha un bel dire Tirelli – come pur deve – che nella realtà del suo operato (ben lo dimostra anche l’occasione presente) l’Accademia non è affatto il «luogo della stasi», «sempre identico a sé stesso», dell’immaginario collettivo; se uno come Paolini ne è tanto attratto, viceversa, è precisamente per la «splendida immobilità» che l’Accademia simboleggia ai suoi occhi: esplicitamente contrapponendola alla «‘cura’ del mondo» della quale s’incaricano quasi tutti gli artisti di oggi, «eredi della sciagurata fiducia nel cosiddetto Progresso». Ha ragione Claudio Strinati: più ancora che a Platone, mitico fondatore della prima Accademia, è all’immobilità rituale di Parmenide che fa pensare l’idea di tempo del Paolini devoto di Borges.


Giulio Paolini, A come Accademia (II), 2023
Pedana bianca, calchi in gesso, basi bianche, frammenti di gesso. Pedana 8 × 160 × 240 cm, due metà di un calco h 90 cm ciascuna, due basi 80 × 40 × 20 cm ciascuna, una base 80 × 40 × 40 cm, misure complessive ambientali

Ma si diceva: l’arbitrarietà, per Paolini, conta almeno altrettanto del rigore. E allora fa bene Guzzetti a distinguere «la definizione di Accademia come forma di disciplina intellettuale da quella di Accademia come gusto alla moda». Nulla di più remoto, dall’idiosincratica mens paoliniana, di una qualche socialità dell’arte – di una qualsivoglia koinè. Paolini incarna un altro paradosso squisito, che arrovellava il Landolfi del Dialogo dei massimi sistemi: quello di una poesia scritta in una lingua parlata da un solo individuo. La vera Tradizione, con la quale non cessa mai di confrontarsi, è la Propria; un po’ alla maniera di Groucho Marx, l’unica Accademia alla quale può pensare d’iscriversi è quella composta da lui solo. È nel teatro della sua mente che campeggiano, Emblemi perenni e immoti, i Trasparenti di Lotto, Poussin o del Sisifo di Tiziano che ora campeggia, frammentato e capovolto, nella prima delle tre grandi installazioni che, con lo stesso titolo della mostra, accolgono il visitatore nelle sale d’ingresso a San Luca. Un’inversione eloquente è quella che associa il mito ascensionale, seppur frustrato, del figlio di Eolo condannato a spingere in eterno un ciclopico masso su per un’erta senza mai riuscire a raggiungerne la cima, a quello catastrofico – e ricorrente, nell’immaginario di Paolini – di Icaro: a sua volta, secondo lui, sempre «pronto a rinnovare la prova (l’opera) senza poter rinunciare all’impresa».

Non è neppure un caso, mi pare, che da una quindicina d’anni a questa parte visiti l’artista, con sempre maggiore insistenza, lo spettro dell’Autobiografia. Cioè quanto più repelleva al Paolini d’antan che programmaticamente scotomizzava il proprio autoritratto, nel ’65, nell’enigmatico impianto di Delfo. Oppure che nel ’70 realizzava un meno vulgato, ma a ben vedere ancora più elusivo, Autoritratto. Un autoritratto doppio, in apparenza, come quelli più inquietanti di de Chirico: due fotografie del suo volto a specchio rovesciato. Ma, ci tiene a precisare ora, c’è un altro doppio nel foglio che quella figura guarda e di cui a noi, invece, è concesso solo il verso: è «qualcuno che gioca più parti» colui che tiene in mano contemplando il “vero” autoritratto, quello «che si cela al nostro sguardo» (un rovesciamento che ricorda quello del celebre Giovane che guarda Lorenzo Lotto).


Giulio Paolini, A come Accademia (III), 2023
Pedana bianca, leggio, lastre di plexiglass, due passe-partout, riproduzione fotostatica, tela, basi bianche, calchi in gesso, stampa digitale su tessuto acrilico. Pedana 8 × 160 × 240 cm, leggio 131 × 91 cm, due lastre di plexiglass 50 × 70 cm ciascuna, passe-partout 50 × 70 cm, passe-partout 50 × 50 cm, inchiostro rosso su riproduzione fotostatica 50 × 50 cm, tela 40 × 40 cm, tre basi: 200 × 50 × 50 cm, 70 × 50 × 50 cm, 50 × 50 × 50 cm, un calco 115 × 40 × 58 cm, un calco 37 × 20 cm, tessuto acrilico 283 × 395 cm, misure complessive variabili

Ora invece, ammette con Soldaini, «inoltrandosi nell’ultima stagione» sempre più spesso il suo personale passato remoto «spodesta l’esperienza dell’oggi». Data al 2006, se non sbaglio, la prima emersione di un eloquente racconto dell’origine: nell’infanzia mitologica a Bergamo, a otto anni, un concorso premia tre suoi acquerelli – così per la prima volta appalesandosi la «sua vocazione». Ora, incastonato al centro della prima A come Accademia, a sorpresa possiamo vedere (o meglio sbirciare) uno degli juvenilia, finora minuziosamente secretati, che precedono l’ancor più mitologizzato «primo», ma da lui sempre definito altresì l’«ultimo», dei suoi lavori in catalogo: il Disegno geometrico del ’60. È datato 1958 Particolare dell’Atlantide, un acquerello d’azzurro cangiante alla cui base, rosee, baluginano «rovine sommerse»: Atlantide, dice oggi Paolini, a sua volta icaria e sisìfea «rappresentava l’irraggiungibile». Ma, contemplata dalla prospettiva presente, evoca pure il continente sommerso della sua Vita Anteriore.


Giulio Paolini, Voyager (V), 1989-2023
Tecnigrafo portatile, elementi cartacei e riproduzioni fotostatiche a colori. Elementi cartacei 30 × 42 cm ciascuno, misure complessive variabili

L’ultima opera convocata a San Luca, collocata nel Salone d’Onore al piano nobile, ha per titolo Voyager. Anche questo è un titolo che si ripete (dal 1989); ma ogni volta con variazioni tanto sottili quanto decisive. In questa quinta edizione l’opera-sonda sempre revênante, appesa al soffitto più alto, consiste in una valigetta che si spalanca mostrando al suo interno un tecnigrafo e delle fotografie fissate nell’istante in cui precipitano verso terra. Le foto ritraggono l’ambiente circostante riprodotto però prima dell’installazione (con quel paradosso meta-temporale per cui in linea teorica il catalogo di una mostra, ove pubblicato al momento della sua inaugurazione, dovrebbe riprodurre solo locali perfettamente vuoti: così aveva fatto nel ’69 il Paolini più concettuale, quello di 2121969), mentre la pioggia immobile di immagini ricorda una volta di più la topica icaria del Sisifo d’après Tiziano o il magnifico, e in qualche modo minaccioso, Ultimo sigillo che appunto suggellava la mostra fiorentina dell’anno scorso, Quando è il presente?

Da spiegare resta il tecnigrafo, per Guzzetti «solo uno strumento meccanico utile a tracciare una linea retta»: emblema della Regola e dunque, nel senso precisato, dell’Accademia. Certo; ma non è un caso che nelle conversazioni e nei testi in catalogo Paolini rammenti pure, con affabilità inimmaginabile sino a pochi anni fa, il fratello architetto e il padre rappresentante di generi cartari. È lui a farlo iscrivere all’Istituto Tecnico di Arti Grafiche e Fotografiche, dove si diploma nel ’59 (giusto alla vigilia, dunque, del battesimale Disegno geometrico): radice questa singolarmente negletta dagli studi ma che avrà pesato non meno, nello sviluppo futuro del giovane artista, della professione di grafico pubblicitario svolta da Andy Warhol prima di dedicarsi all’arte. Due anni fa, in questo percorso di progressivo disoccultamento, è uscito nella rivista «Colophon» un interessante dossier su Giulio Paolini grafico (con testi di Marco Belpoliti e Valentina Russo). Si viene così a conoscenza dei tanti lavori eseguiti, dagli anni Sessanta ai primi Ottanta, per le edizioni della RAI, per l’Einaudi dell’amico Paolo Fossati (ben prima del mitico Idem del ’75), ma anche per gli LP di Giorgio Gaslini, il Teatro Stabile di Torino eccetera. In molti casi quei libri che manipola come materiali di lavoro il suo avatar «Irnerio», per lo sdegno del Lettore di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, si scopre così che li aveva fatti lui stesso. Acrobata davvero elegante, chi ha saputo «giocare due parti» in commedia. E che ora finalmente esce al proscenio: a raccogliere i più meritati degli applausi.

Giulio Paolini, Particolare dell’Atlantide, 1958
Tempera su cartone, applicato su masonite, 27.8 x 36 cm, ph. © Luca Vianello, Torino. Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino © Giulio Paolini; firmato e datato al verso, in basso al centro: “Giulio Paolini / 21.8.1958”

“‘21.8.1958’ è la data di un piccolo olio [sic] su cartone, azzurro quasi monocromo, intitolato Particolare dell’Atlantide. Dello stesso anno, irriproducibile perché dispersa, è una tela grezza che fu posta all’esterno, fissata a chiudere il vano di una finestra, per la durata di un giorno” (Giulio Paolini in Le Nouveau Musée, Villeurbanne 1984, vol. Figures/Intentions, p. 24 nota alle immagini n. 1).

Giulio Paolini
A come Accademia
A cura di Antonella Soldaini, da un’idea di Marco Tirelli e Antonella Soldaini
Roma, Accademia di San Luca
Fino al 15 luglio 2023
Catalogo Gangemi, 320 pp. ill. col., € 40

In copertina: Giulio Paolini, In cornice, 2023, calco in gesso, base bianca, cornice su pannello fotografico, cornici dorate. Calco in gesso h 87 cm, base 100 × 50 × 50 cm, pannello fotografico 120 × 180 cm, cornici dorate di varie dimensioni, misure complessive variabili

Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» il 9 luglio 2023

Andrea Cortellessa

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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