A un giornalista che gli aveva chiesto di raccontargli la storia della sua vita, Arthur Bispo do Rosario risponderà: “Io sono apparso un giorno”. Si trattava di una data incerta di cui non esistono memoria né documentazione, un giorno di maggio del 1909.
Sappiamo tuttavia con certezza che la città che lo aveva visto nascere era Japaratuba, nello stato di Sergipe a nord-est del Brasile, e che da quei primi momenti, passando per i successivi venti anni in cui girerà il Paese facendo i lavori più disparati, si arriva a un’altra data precisa, il 22 dicembre 1938.
Arthur Bispo cammina per le strade di Botafogo, a Rio de Janeiro. Qui, improvvisamente, sette angeli appaiono al suo cospetto, comunicandogli quella che sarà la rivelazione più grande della sua vita. Dio gli aveva affidato una missione sulla Terra: giudicare i vivi e i morti nel Giorno del Giudizio.
Guidato da immagini e voci, compie un pellegrinaggio mistico per la città. La sua via crucis solitaria termina al Monastero di São Bento. Era necessario comunicare agli altri la missione di cui era stato incaricato, iniziando dai monaci. Ma questi, infastiditi dalla sua visita e non persuasi dalla sua visione, chiamano la polizia anziché ascoltarlo.
Arthur Bispo viene condotto all’ospedale psichiatrico di Praia Vermelha. Lì viene tenuto sotto osservazione e poi ricoverato. La diagnosi è schizofrenia paranoide. Pochi giorni più tardi viene trasferito a Jacarepaguát, sempre a Rio de Janeiro, nella Colônia Juliano Moreira. È il 25 gennaio 1939. Ha fatto ingresso nel luogo del non ritorno. Ci rimarrà per 50 anni fino all’anno della sua morte.

La nave
Nel 1925, all’età di 15 anni e accompagnato dal padre, Arthur Bispo si arruola alla Scuola di Apprendisti Marinai de Sergipe, ad Aracaju. Inizia come mozzo: il suo compito era mantenere la pulizia a bordo e apprendere i servizi generali. Il 21 gennaio 1926 viene trasferito al Comando Centrale della Marina a Villegagnon. Da lì non farà più ritorno nel Nord-Est del Brasile.[1]
Inizia la sua carriera in Marina. Fino ai primi anni ’30 presta servizio come segnalatore-capo sulla Belmonte, è la persona addetta alla comunicazione a distanza per mezzo di bandiere e lanterne. Potrebbe far bene il suo lavoro, ma le gerarchie gli vanno strette. L’intero periodo è costellato dai giudizi alterni dei suoi superiori, note che oscillano tra “comportamento esemplare” e “contravvenzione alle leggi”. Viene punito per insubordinazione e sottoposto a esami medici che lo segnalano come “inadatto a successive promozioni”.
Quella stagione lascerà una profondissima traccia dentro di lui. Ancora molti anni dopo continuerà a ricordare il mare, disegnando e costruendo imbarcazioni di diverso tipo. In una delle poche interviste rilasciate, dichiarerà che una delle sue opere più famose, la Cama de Romeu e Julieta, in effetti, altro non è che una nave.
Una nave con lo scafo formato da un letto d’ospedale, le vele fatte della stoffa semi-trasparente di un baldacchino. La rappresentazione miniaturizzata dell’esperienza di una vita. La barca che porta i pazzi in giro per il mondo, condotti dall’acqua, colma di parole sussurrate e spesso rotte, fragili, inconsistenti.
Una nave che anche se priva di uomini e di cartelli, conosce bene la galera, è sé stessa una galera, velata e chiusa come i muri degli ospedali psichiatrici, del manicomio esistenziale di Arthur Bispo.

Il lavorìo
“Le teste bianche non capiscono niente”, dice l’uomo nero di quei dottori che per poco, negli anni ’50, lo condannano alla lobotomizzazione, operazione che nella Colonia uccideva un paziente su dieci e che, se Arthur Bispo non ne fosse scampato, avrebbe ucciso sul nascere la sua arte.
È invece proprio in questi anni che il suo messaggio, anche se spesso oscuro e riservato, inizia a formularsi. Esplode, per mezzo di un lavoro instancabile che forma ricami, intreccia corde e forme geometriche, si produce in diluvi di parole graffiate, intessute e dipinte.
Da subito Arthur Bispo si rende conto di avere iniziato un’opera che non può portare a termine in una sola vita, ma che non può neppure smettere, obbligato com’è a obbedire alla voce segreta che comanda ogni suo gesto. Questa voce gli elenca nomi, date, gli indica passaggi e connessioni. Solo compilandoli può rimanere fedele alla sua missione, sulla via che gli consente di riaffermare il cosmo della vita sulla morte, la sola oscenità che lo terrorizza.
È necessario un lavoro continuo, e in cella Arthur Bispo tiene continuamente i conti del mondo: chiede che gli vengano portati giornali e riviste, guarda più che può all’esterno, alla vita degli altri che scorre. Serve tanta materia per dire, per documentare, vanno bene tutti gli oggetti che può reperire, tazze, stoffe, crocifissi, monete, artefatti di ogni tipo, frutto di richieste ai direttori sanitari e di baratti con gli altri pazienti.
Per tutta la vita continuerà a vedere il mondo per come può farlo dalle pareti forate del manicomio. Immagini, ricordi. Ci sono quelle forme asfissianti, le lettere, le orditure, le mappe. Scarseggiano i volti e i corpi umani, ma in compenso fioriscono i nomi che questi hanno portato, le vie in cui hanno vissuto, date di nascita e di celebrazione.

L’azzurro
Nelle sue opere assistiamo a una ossessione molto precisa per alcuni colori. I colori delle bandiere segnaletiche, rosse e bianche, e l’azzurro del mare e delle divise che Arthur Bispo aveva visto negli anni della Marina. Soprattutto l’azzurro, Bispo lo insegue tutta la vita. Lo mette in mostra nei fili e nelle corde, nel paziente inchiostro in cui intinge la punta e punge la stoffa.
L’aurea azzurra – come la chiamava lui, era il primo argomento sul quale interrogava chi lo visitava a Juliano Moreira. Bisognava indovinare quel colore senza vederlo, e solo a quel punto si veniva introdotti alla cella. Il muro era azzurro, esattamente come gli elementi predominanti in molte sue opere.
Nel luglio del 1985, quando era ormai vecchio, Arthur Bispo riceveva la visita di una coppia di sconosciuti, il giornalista José Castello e il fotografo Walter Firmo.[2] Nel cortile del manicomio, i due passano per un vero e proprio interrogatorio. Solo rispondendo, e con un notevole sforzo, riescono ad essere ammessi e fare ingresso nella stanza delle opere. Lì rimangono folgorati. È una visione che Firmo descrive come l’ingresso in un tempio, “della finzione, carnevalesco e apparentemente pericoloso”. Una visione umana e allo stesso tempo mostruosa. Trascorrono la mattina insieme, inseguendo Bispo che cammina maniacalmente per i corridoi, indossa abiti diversi, mostra le proprie creazioni.
Firmo scatta alcune fotografie memorabili. Una di queste, tutta azzurra, ritrae Arthur Bispo sorridente, mentre indossa una casacca davanti a uno sfondo di teli di plastica. In un’altra, è in piedi davanti alla luce che attraversa i fori di una parete: è il corpo claustrale che riassume in sé il cosmo esterno e i propri demoni interiori. È il punto di contatto tra la prigione e lo spazio aperto. Sono immagini simboliche, spirituali, ancestrali. Come quella che immortala l’artista in giardino, con le braccia sollevate davanti a un’agave. È Cristo, le foglie spinose sono la croce e la corona, il palmo della mano destra è aperto al cielo. Navigare è attraversare le acque come fece Mosè, o camminarci sopra, il miracolo del Messia. Questo è ritratto sulla pellicola: il profeta incarnato in un pazzo.
Castello racconta che riuscendo dal manicomio non era più sicuro di cosa fosse la realtà. Se erano le strade di Rio de Janeiro, e cioè il mondo abituale e ordinato, o le visioni a cui aveva assistito.

L’annunciazione
Arthur Bispo si definiva “re dei re”[3], e forse lo aveva detto anche ai poliziotti che lo avevano arrestato. Sentirsi Cristo e volersi far carico del genere umano con tutti i suoi drammi doveva essere risultato inaccettabile anche alle orecchie dei monaci. La convinzione di voler far coincidere la sua vita con quella del figlio di Dio andava rimossa.
Eppure, quella religione non coincideva esattamente con il cattolicesimo, religione della crescita e dell’educazione, e non si trattava neppure di trovarvi appoggio. Era stata proprio l’assenza di un sistema simbolico a costringere Bispo a crearne uno proprio, unico e personale. In altre parole, a fondare la propria religione.[4] In questo credo, il rei dos reis doveva obbedire alla voce onnipotente e maschile del padre, ma altre volte interveniva una voce originale, di donna, che poteva trasformarsi di nuovo nelle voci che arrivavano da questo mondo.
Era una religione tutta al di là dall’universo delle cose terrene, che predicava la redenzione e le fine dei tempi, refrattaria a forme di animismo e panteismo. Un movimento che, sebbene le apparenze, trovava le sue radici molto più nella tradizione cattolica-nera che nello sciamanismo africano.[5]
L’opera più famosa di Arthur Bispo è senza dubbio il suo Manto da Apresentação. Qui converge e si ricapitola tutta la volontà – selvaggia, enciclopedica – di non tralasciare niente della Storia umana, in modo da poterla rappresentare al cospetto dell’Onnipotente. In questa, si è detto, avviene la fusione di tutti gli elementi insostituibili – la stoffa, l’azzurro, il filo, il segnale, il simbolo, la parola e l’arca. Il mantello protegge e benedice chi lo indossa. Porta la vita oltre il suo limite, la spinge fuori dalle leggi fisiche, la rende immortale.[6]

La cura
Arthur Bispo non ha mai voluto che le sue opere fossero esposte. Ne ha avuto pieno controllo fino al giorno della sua morte, avvenuta il 5 luglio del 1989.
Dopo questa data si è posta la questione dei diritti di proprietà delle opere, che in assenza di eredi rimangono custodite tutt’oggi nella Colônia Juliano Moreira. Qui, in un padiglione, è stato creato il Museo Bispo do Rosario.
Lo stesso direttore del Museo si è mostrato riluttante all’idea di prestiti e di cessioni. In un’intervista ha dichiarato che le opere di Arthur Bispo non possono essere separate dal luogo della loro creazione. La sua cella privata è stata sottoposta a un lavoro di restauro e sono stati creati alcuni percorsi in cui sono esposte opere di altri artisti.
Nell’”inventario dell’universo” realizzato nel 1992 da Denise de Almeida Corrêa, sono catalogati migliaia di esemplari. Un “sentimento oceanico”[7] agita questo porto di mare, una risacca laboriosa di tutti gli oggetti terrestri. Oggetti che sono capaci soprattutto di riaffermare la vita e di liquidare la morte, come si spazza via la figura di un padre troppo presente. Lo ricorda Arthur Bispo al critico d’arte Federico Morais: “ogni pazzo è guidato da un cadavere. Il pazzo è guarito solo quando si libera dal morto.”
[1] Dantas, Marta, Arthur Bispo do Rosário – A poética do delírio, Editora da UNESP, San Paolo, Brasile, 2012
[2] Firmo, Walter, Um Olhar Sobre Bispo do Rosário, Nau Editora, 2021.
[3] Hidalgo, Luciana, Arthur Bispo do Rosario – O senhor do labirinto, Rocco Digital, 2012
[4] Dantas, Marta, op. cit.
[5] Dantas, Marta, op. cit.
[6] Cfr. i disegni e gli schemi presenti nel Golden Record delle sonde Voyager I e II. Anche in quel caso si tratta di un arca che cerca di rappresentare l’umanità oltre i confini del sistema in cui ci troviamo.
[7] Dantas, Marta, op. cit.
In copertina: Arthur Bispo do Rosário, Carrousel, legno, stoffa, corda, fibre, metallo, pelle sintetica, inchiostro e materiali trovati