Ormai da tempo, tranne pochi casi, la presenza di un film in sala si calcola in giorni, tutt’al più in settimane. E sempre meno si parla di cinema. Ci sono le eccezioni: di recente Rapito di Marco Bellocchio, un paio di mesi fa Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. Ma in generale, come ha detto la critica Ilaria Feole, è evidente “la perdita per la settima arte di un ruolo centrale nel discorso culturale, per cui è sempre più raro che un film, un autore o un festival sfondino i confini della nicchia (o della ‘bolla’ come si usa dire oggi riferendosi alla propria cerchia social) per diventare rilevanti in un contesto più ampio e coinvolgere le voci di intellettuali tout court”. I motivi principali li ha detti di nuovo Feole: “Il disamore per la sala, purtroppo drasticamente accentuato dalla pandemia ma in corso già prima del Covid, e una progressiva infantilizzazione del cinema mainstream, che si rivolge sempre più alla fascia degli adolescenti in quanto sono i giovanissimi, oggi, a tenere in piedi il box office”.
Forse il discorso si potrebbe estendere, e non sarebbe inutile chiedersi se e perché ogni “bolla” si rivolge a sé stessa in una camera stagna e sono sempre meno gli argomenti che fanno da trama comune. Quello che importa qui, però, approfittando della lunga e variegata vita postuma dei film sulle sempre più numerose piattaforme digitali, è provare a parlare di due pellicole viste a maggio, al cinema Intrastevere di Roma, durante la prima edizione di un piccolo festival, UnArchive – Found Footage Fest, la cui riuscita – alcune migliaia di biglietti venduti – dimostra che (ancora Feole) “esiste e resiste una fascia di pubblico più maturo”.
In realtà, di film passati a UnArchive che meriterebbero attenzione, ce ne sono tanti: per dirne un paio, i diciotto minuti di Potemkinistii del regista rumeno Radu Jude, attualmente visibile in abbonamento su Mubi, sono una lezione di storia e di cinema in forma di concentratissima commedia dell’assurdo, e Radiograph of a Family dell’iraniana Firouzeh Khosrovani dimostra come sia possibile fare autofiction, sullo schermo come sulla pagina, mettendo in dialogo il proprio vissuto con un grande evento collettivo (in questo caso, non tanto la rivoluzione khomeinista, quanto lo scontro culturale che ne è derivato, dentro e fuori il paese) e usando in maniera originale le tracce pubbliche e private della memoria.
E poi, naturalmente (ma gli esempi potrebbero continuare a lungo), il film vincitore del premio UnArchive, i Tre minuti dell’olandese Bianca Stigter, già passato come evento speciale alle Giornate degli autori di Venezia nel 2021. Storica, critica e infine – dato non secondario nella sua biografia – figlia del poeta sperimentale K. Schippers e moglie del regista Steve McQueen (di cui ha firmato come produttrice Dodici anni schiavo e come sceneggiatrice il recente documentario Occupied City), Stigter ha lavorato sul filmato amatoriale di un ebreo polacco emigrato in America, David Kurtz, tornato brevemente nell’estate del 1938 nella sua cittadina natale, Nasielsk. “Solo un’ottantina dei circa tremila ebrei che vivevano a Nasielsk nel 1939 sopravvissero alla guerra”, ci informa concisamente il sito dell’Holocaust Memorial Museum statunitense dove il filmato è visibile sotto il titolo Jewish quarter in Poland. Poco più di tre minuti, appunto, di fronte ai quali – anche se di immagini in movimento si tratta, e non di fotografie – è impossibile non pensare al “ça a été” della Camera chiara di Roland Barthes, non “prevedere” il destino dei ragazzini incuriositi dalla 16mm Kodak di Kurtz, delle bambine sorridenti, delle signore impacciate, dei vecchi perplessi. Da qui è partita la regista in una ricerca che, quasi fotogramma per fotogramma, l’ha portata a dissezionare e insieme a dilatare il filmato “fino in fondo alla sua potenzialità espressiva e di svelamento” (così la giuria che a Roma ha premiato l’opera di Stigter) al punto di “rompere il confine tra microstoria e macrostoria, facendole camminare insieme”.
Del resto, anche questo è il senso di un festival come UnArchive, dedicato – recita il sottotitolo – “al riuso creativo delle immagini” e messo in opera dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico in collaborazione con l’Archivio Luce, due istituzioni impegnate a contrastare il nostro contemporaneo presentismo con la loro stessa esistenza e con azioni che vanno molto oltre la tutela e la conservazione di vecchie pellicole. Archivi che liberano i loro materiali “disarchiviandosi”, cinema che si ricicla per trovare forme nuove e sorprendenti.
Ha scritto qualche anno fa nel suo Recycled cinema Marco Bertozzi, direttore artistico del festival insieme ad Alina Marazzi: “Amo il cinema, ma non perché costruisce delle storie. Per quello c’era già la letteratura. […] Amo il cinema proprio come forma di pensiero visivo, di sguardo che scardina i limiti e le frontiere del visibile”. Sguardo tanto più potente perché contiene in sé il fluire irresistibile e imprevedibile del tempo. E difatti più avanti, citando João Moreira Salles che citava Werner Herzog, Bertozzi scrive: “La bellezza di una inquadratura sta spesso in ciò che non è previsto e che appare fortuitamente prima o dopo l’azione. L’attesa, i tempi morti, i momenti in cui quasi nulla succede”.
Attesa è parola-chiave nel cinema e nella vita. Di sicuro lo è per Herzog, che intorno a un’attesa disattesa (l’eruzione di un vulcano nell’isola della Guadalupa, data per certa e invece non avvenuta) aveva costruito nel 1977 uno dei suoi documentari più belli, La Soufrière, sottotitolo Warten auf eine unausweichliche Katastrophe, “Aspettando una catastrofe inevitabile” (lo si può vedere su diverse piattaforme, tra l’altro Dailymotion). Quell’appuntamento mancato si è riproposto al regista, quasi mezzo secolo dopo, per interposta persona, grazie alle duecento ore di materiali video lasciati da una coppia di vulcanologi francesi scomparsi nell’eruzione del monte Unzen, in Giappone, il 3 giugno 1991. Senza aggiungere quasi niente, solo selezionando e montando quelle riprese e ad esse sovrapponendo passaggi musicali (soprattutto il Requiem di Gabriel Fauré) e la sua voce inconfondibile, Herzog ha realizzato The Fire Within. A requiem for Katia and Maurice Krafft, che ha aperto (fuori concorso) UnArchive e che – per un caso singolare – è uscito quasi contemporaneamente a un altro documentario, Fire of Love, dedicato alla stessa coppia e realizzato a partire dalla stessa mole di materiali video.

Da un lato un fuoco amoroso, potremmo dire estroflesso; dall’altro, un fuoco che consuma da dentro, fino a uccidere. Già dai trailer, Fire of Love (visibile per intero agli abbonati di Disney+) e The Fire Within si offrono come film diversi. Nel primo la regista, l’americana Sara Dosa, ricostruisce la vicenda dei Krafft con attenzione e rispetto: il loro rapporto, la comune ossessione per i vulcani, la fascinazione per queste montagne che portano allo scoperto le viscere incandescenti del pianeta su cui noi umani ci ritroviamo a vivere e del quale in fondo conosciamo molto poco. Coprodotto da National Geographic, il documentario di Dosa ha anche, com’è giusto che sia, una valenza didattica: veniamo così a sapere fra l’altro che i vulcani si dividono abitualmente in due grandi famiglie, i rossi e i grigi, e sono questi ultimi – con le loro colate piroclastiche, le loro gigantesche nuvole di cenere che a noi incompetenti appaiono tanto simili ai funghi atomici – i più letali. L’Unzen, che ha ucciso i Krafft, è uno di loro.
Della vulcanologia come scienza, a Herzog non interessa molto. E lo stesso, della vita quotidiana della coppia: la faticosa ricerca di finanziamenti, il progresso negli studi, i battibecchi più o meno scherzosi, tutto questo – che ha una parte importante nel film di Dosa e lo rende adatto a una visione home video con i bambini di casa – in The Fire Within non c’è. La struttura è circolare: il documentario comincia e finisce con le ultime riprese effettuate dai Krafft il giorno prima della loro morte, ai piedi dell’Unzen, in un’area evacuata (com’era accaduto per La Soufrière alla Guadalupa) nell’imminenza dell’irruzione, ma che adesso ci appare tranquilla – boschi, pendii scoscesi, in alto la sommità del vulcano, solo a tratti velata da una nuvola grigia. Noi sappiamo cosa succederà, ma Katia e Maurice con i loro aiutanti no, anche se la fine è inscritta nella loro scelta di vita. (Lo è per tutti, ma ai più è dato dimenticarsene). Quindi aspettano l’eruzione (e la morte), apparentemente si annoiano, cazzeggiano davanti alla macchina da presa secondo un copione non scritto ma ripetuto infinite volte.
La voce di Herzog ci dice che Katia, presagendo il pericolo, avrebbe voluto andarsene, ma non lo ha fatto. Anche per lei vale quello che ha detto Maurice: “Non ho mai paura perché ho visto così tante eruzioni in 23 anni, che anche se dovessi morire domani, non mi importa”. Se per La Rochefoucauld “la morte, come il sole, non si può fissare a lungo”, per i Krafft – e per Herzog – la vita esiste e vale la pena di essere vissuta solo quando ne guardiamo in faccia la fatica e la finitezza, e soprattutto la ferocia di una natura alla quale noi stessi, membri di una specie che si definisce sapiente e dimentica di essere mortale, apparteniamo: “So che agli spettatori tutto questo non piace, che lo trovano orribile – dice ancora il regista, mentre guardiamo Katia e Maurice muoversi carichi di pesi su un pendio sassoso – ma io darei tutto quello che ho per essere stato al loro seguito, per avere condiviso con loro la vita nuda, the bare life”.
Tra l’incipit e l’epilogo alle pendici dell’Unzen, le immagini delle eruzioni – scandite come in capitoli divisi da momenti di buio totale – riempiono a tratti lo schermo, trasformandosi in cromatismi astratti: colate di densa lava magmatica, fondali fiammeggianti su cui si stagliano le figurine ridicolmente minuscole di Maurice o di Katia. Non vulcanologi, non scienziati, ma artisti li considera Herzog: suoi compagni di ossessione, maestri (quanto consapevoli, non saprei dire) di una visualità che sfugge alle regole e ai codici.

Altrettanto magnificamente e spaventosamente eccedente è Storia naturale della distruzione di Sergei Loznitsa, presentato in concorso a UnArchive dopo essere passato l’anno scorso a Cannes. Di nuovo un esempio di film basato quasi solo sul found footage, come già altri del regista ucraino, da State Funeral, sulle gigantesche esequie di Stalin, a Revue, assemblaggio geniale di cinegiornali e film di propaganda sovietici (visibile di nuovo su Mubi), questa Storia naturale della distruzione si ispira all’omonimo saggio – in originale, Luftkrieg und Literatur – di W. G. Sebald, autore a cui Loznitsa aveva già attinto molto liberamente in Austerlitz del 2016, seguendo con una sorta di candid camera i turisti in visita all’ex campo di concentramento di Sachsenhausen in una calda giornata d’estate.
In realtà l’idea di un testo intitolato “Storia naturale della distruzione” – è Sebald a dirlo nel libro – era stata di un personaggio eccentrico e geniale, il biologo e barone Solly Zuckerman, consulente dell’esercito britannico durante la seconda guerra mondiale, che contro il parere di Churchill convinse (tardi) le autorità militari a cessare i bombardamenti a tappeto sulle città e sulle fabbriche tedesche, a favore di attacchi tattici su ferrovie e ponti, come aveva sperimentato in Italia. Se Zuckerman non portò a termine il suo articolo, fu perché – disse in seguito – “lo spettacolo che Colonia mi offrì esigeva da me qualcosa di molto più eloquente di quanto avrei mai potuto scrivere”. Lo spettacolo della distruzione impone azioni, non parole. Ma prima di tutto ci chiede di essere guardato. E infatti, alla domanda di Sebald intorno al testo incompiuto di Zuckerman – “Da che cosa sarebbe dovuta cominciare una storia naturale della distruzione?” – Loznitsa risponde oggi, quasi ottant’anni dopo, con un film pressoché muto.
Di nuovo all’inizio abbiamo un’attesa. E, come nel caso dei ragazzini e dei vecchi di Tre minuti di Bianca Stifter (ma a differenza di quello di Katia e Maurice Krafft), è un’attesa inconsapevole: i contadini al lavoro nelle fattorie, le persone che attraversano la piazza centrale di una cittadina come tante, gli uomini e le donne a passeggio o seduti ai caffè su un viale di Berlino pavesato di svastiche, non sanno di aspettare. Credono – o sembrano credere – che saranno lì per sempre. Poi lo schermo si oscura, resta buio a lungo. Un rumore sordo ci dice che siamo su un aereo, dentro la stiva. Si apre un portellone e le bombe cominciano a cadere, a grappoli, su una terra lontana, di cui, anche quando è giorno, si percepiscono appena i contorni. La caduta è implacabile e irreversibile e naturale come la pioggia, o come la forza di gravità che porta in basso i congegni di distruzione.
Per quasi due ore (112 minuti) le bombe cadono, e non cambia molto che là sotto ci sia la Germania o la Gran Bretagna. A terra i paesaggi si trasformano: non ci sono più le case, ma scheletri di edifici e mucchi di macerie, ogni tanto spunta un braccio, un piede, oppure si vedono file ordinate di cadaveri. I vivi camminano senza guardarsi troppo intorno, hanno da fare, tenersi in vita richiede impegno. Solo in pochi punti il silenzio si spezza: quando il generale Montgomery in una fabbrica forse di materiali bellici promette la vittoria (“noi siamo meglio attrezzati, e lo sappiamo”), quando Churchill su uno sfondo di rovine viene acclamato dalla folla (una scena cui fa da contraltare un’altra, un gruppo di persone che si accostano all’automobile di Göring quasi senza parlare, come zombi), infine quando un militare americano si rivolge ai tedeschi, “che lo sappiano: un giorno ripenseranno a questi bombardamenti come a una lieve brezza di primavera prima dei venti di tempesta”.
Anche questo “è stato”. E noi che guardiamo, sappiamo del mattatoio di Dresda, e poi di Hiroshima e Nagasaki, e di quello che è venuto dopo, di quello che avviene ora. Storia naturale della distruzione si chiude con una serie di bellissime sequenze aeree girate nel 1945 o ’46, a colori. Qui la terra è vicina, la vediamo bene, chilometri di rovine dove prima c’erano città. Solo immagini, nessun commento. Fine? (Loznitsa, nato in Bielorussia e cresciuto a Kiev, autore nel 2014 di un documentario, Maidan, sulla rivoluzione ucraina, l’anno scorso è stato espulso dall’Accademia dei cineasti del suo paese, perché ha dichiarato che “non si giudicano le persone in base al loro passaporto” e non si è allineato al boicottaggio indiscriminato dei cineasti russi).

In copertina: Werner Herzog, The Fire Within – A Requiem for Katia and Maurice Krafft, 2022