Esorcizzare i ghiacciai

04/07/2023

Malocchi

Esorcizzare i ghiacciai? Per un attimo alzo la testa dai libri ripetendo nel vuoto e a bassa voce un’idea tanto balzana, ancora incredulo che si tratti di un fatto storicamente accertato e non di una ecofiction. Per comprendere la faccenda più da vicino, da giorni frequento la Biblioteca nazionale dove consulto un materiale mai così eterogeneo, in parte redatto in un francese antico risalente al XVII secolo: archivi municipali di paesini montani, vite dei santi dal tono agiografico, raccolte di leggende e tradizioni popolari, studi scientifici di ispettori delle acque e delle foreste, processi verbali. Curiosamente, questi documenti a volte si sovrappongono, come i processi verbali di cerimonie religiose conservati in archivi municipali, un estratto dei quali è ripreso in una rivista di glaciologia. Dove finisce la storia e dove comincia la finzione? Confesso che a un certo punto mi perdo. Ma senza illanguidirmi in nostalgie postmoderniste, il verdetto è chiaro: materiali alla mano, noi umani abbiamo esorcizzato i ghiacciai – e siamo stati recidivi.

Quanto segue è una brevissima storia dell’esorcismo dei ghiacciai.

Il contesto, anzitutto, è quello della cosiddetta Piccola era glaciale. Durante il decennio 1640 i ghiacciai alpini, già voluminosi, avanzano. Le estati sono fresche, i raccolti tardivi, l’ablazione glaciale ai minimi storici. Il picco si registra nel 1644-1653 e il riflusso degli anni 1650 è così modesto che dopo il 1680 la situazione è poco evoluta. Lo riassume bene lo storico dell’ambiente Emmanuel Le Roy Ladurie nella sua Histoire du climat depuis l’an mil, pubblicata nel 1967 e riedita nel 1983 (non tradotta in italiano),  concentrandosi sulla Svizzera e la Savoia.

Prendiamo i ghiacciai di Chamonix che scendono dalle montagne verso i villaggi: avvicinandosi ai fiumi rischiano di ostruirne il corso e di trasformare la valle in un lago, d’inondare le abitazioni e trascinarle via con loro. Anche i campi d’avena e d’orzo restano sotto la neve per diverse stagioni – una calamità per le coltivazioni da cui dipende la sopravvivenza di interi villaggi. Dietro di loro i ghiacciai lasciano un paesaggio di morene, ovvero una scia di ammassi di pietre che trasportano e depositano sul loro letto.

Nel gennaio 1642 una valanga di neve e ghiaccio trascina con sé due case, quattro mucche, otto pecore e persino una ragazza che esce indenne, nonostante rimanga sotto la neve un giorno e mezzo. Lo riporta Gaston Letonnelier, corrispondente del Ministero della Pubblica istruzione, che raccoglie testimonianze dal 1580 al 1730 sui danni causati dai ghiacciai e dagli straripamenti dei torrenti sul territorio di Chamonix.

Più dettagliate le informazioni che disponiamo su maggio 1643. Il ghiacciaio di Bois (Aveyron) avanza ogni giorno, persino durante il mese di agosto. La preoccupazione sale: si prevede che, a questo ritmo, in quattro anni rischia di far scomparire la zona della Rosière. Che ci siano dei malefici o dei malocchi tra i ghiacciai? Non è un’illazione: maléfice, mi accorgo, è un termine che ricorre spesso nei documenti. La comunità organizza così una processione “per implorare l’aiuto di Dio per preservarli e proteggerli da questo pericolo”[1]. Qual è l’esito della processione sacra? Tento di rispondere isolando i tre episodi maggiori in cui m’imbatto e su cui resta più documentazione.

Thomas Ellis, A true report of the third and last voyage into Meta incognita, London, Thomas Dawson, 1578

Acqua benedetta

Il primo risale a giugno 1644, l’anno successivo all’avanzata del ghiacciaio di Bois. La parrocchia di Chamonix si trova in una posizione svantaggiosa, in una valle alta e stretta, ai piedi di grandi ghiacciai i cui lastroni minacciano di staccarsi e devastare case e beni. Per tale ragione, “sospettando che questo accada loro per volontà divina come punizione per i loro peccati, desiderosi come sono di servirsi dei benefici delle benedizioni di Nostra Santa Madre la Chiesa al fine di placare l’ira di Dio, hanno fatto ricorso a noi [Charles-Auguste de Sales, vescovo di Ébron dal 1643 al 1645, poi vescovo di Ginevra fino al 1660], pregandoci assai umilmente di voler visitare le devastazioni e i precipizi dei ghiacciai e di portare le benedizioni della nostra autorità ordinaria”[2].

La richiesta del sindaco e dei consiglieri di Chamonix di benedire i ghiacciaci è ben accolta e viene così celebrata una messa “per chiedere la misericordia di Dio per intercessione della Vergine santissima e del glorioso arcangelo San Michele, patrono di questo luogo”. Dopo la predica e la cerimonia pubblica, il vescovo guida una processione di circa trecento persone al villaggio Les Bois, minacciato di “totale rovina [da] un grande e spaventevole ghiacciaio spinto giù dalla cima della montagna”[3], che viene benedetta “solennemente, in forma di rituale”. Ma il vescovo deve prendere gusto a tale escursione geologica e, già che ci sta, indice una sorta di mini-crociata o tournée pastorale anti-ghiacciaio, spostandosi nei paraggi per benedirne altri tre: a Largentière, al villaggio La Tour, sede di un “horrible glacier”[4] e, due giorni dopo, a Bossons.

L’effetto della benedizione episcopale si fa sentire e, secondo le testimonianze, i ghiacciai si ritirano lentamente fino al 1663, cioè per quasi un ventennio. Ne trovo conferma in un’altra testimonianza dove apprendo che l’esorcismo richiesto a gran voce va a lieto fine, anche se il ghiacciaio di Bois ha l’ultima parola. Infatti nel ritirarsi lascia dietro di sé “la terra che occupava così arida e bruciata che da allora non vi cresce più né erba né altro”[5]. Dei ghiacciai indemoniati che, con un ultimo colpo di coda, dove passano fanno terra bruciata: un’immagine che associamo male al sublime alpino e che, dato il contesto, suona come una perfida vendetta diabolica.

Joos de Momper il Giovane, L’agguato, 73×103.8 cm, dipinto su legno, 1622, Alte Pinakothek, Monaco

Avanzo col secondo episodio. Chamonix, settembre 1653, un testo gesuita conservato negli Archivi di Sitten consultato da Le Roy Ladurie tratta del ghiacciaio dell’Aletsch, della sua crescita e altezza straordinarie, causa di preoccupazione e di minaccia per gli abitanti del villaggio di Nater. Questi si rivolgono ai gesuiti, “e chiedono loro consiglio, dichiarandosi pronti a placare l’ira divina facendo penitenza e altre opere buone della religione cristiana”. Questa volta vengono inviati ben due Reverendi:

“Per una settimana predicarono proficuamente a questo piccolo gregge; una processione si diresse in seguito verso il ghiacciaio, e ivi giunse dopo quattro ore di cammino. Lungo tutto il percorso, a testa nuda e sotto la pioggia, cantarono a turno in coro. Arrivati al punto fatale, i partecipanti alla processione ascoltarono la Santa Messa e un breve sermone. Una benedizione fu impartita in nome di tutti i santi del Paradiso, al fine di contenere la crescita del ghiacciaio dalla forma serpentina, di tenerlo a freno e d’impedirgli di espandersi ulteriormente. Gli esorcismi delle grandi feste furono compiuti! Di acqua consacrata fu cosparsa l’estremità del ghiacciaio nel nome del nostro padre Sant’Ignazio!”

Non contenti, ligi al dovere e di granitica fede, i due Reverendi – che avevano un nome: si chiamavano Charpentier e Thomas – conficcano sul “ghiacciaio vorace” una colonna con tanto di effigie del Santo patriarca. “Questa fiducia nei meriti del Santo non fu disattesa: Ignazio costrinse il ghiacciaio all’inerzia, al punto che da allora cessò la sua avanzata”[6].

Questi passaggi necessiterebbero di un lungo commento, a cominciare dalla benedizione: dell’acqua liquida è aspersa su dell’acqua ghiacciata, dell’acqua benedetta col segno della croce si contamina e si confonde con l’acqua posseduta da un povero diavolo che, stanco di dimenarsi in un sottosuolo rovente prende le fattezze di un cristallo. Non siamo lontani dal Cocito, il lago ghiacciato in fondo all’Inferno di dantesca memoria. Si oppongono qui una visione teologica e una visione geologica, e questo malgrado le numerose continuità storiche tra le due.

Il terzo episodio è legato a due visite documentate di Jean d’Arenthon, vescovo di Ginevra a partire dal 1660, datate 12 ottobre 1664 e 6 agosto 1669[7]. Nonostante l’intervento divino e dopo una breve regressione – che suona ora come una tregua – i ghiacciai e le neve di Chamonix riprendono imperterriti ad avanzare e a minacciare le abitazioni circostanti e i campi seminati, mentre sulle morene non c’è l’ombra di un filo d’erba.

Gli abitanti di Chamonix supplicano l’intervento di Jean d’Arenthon affinché “esorcizzi e benedica queste montagne di ghiaccio” – le due azioni sono spesso evocate insieme in questo ordine: prima l’esorcismo, poi la benedizione. Si rivolgono a lui ricordandogli il successo ottenuto dal suo predecessore, Charles Auguste de Sales, sebbene ora “ci sono financo diversi torrenti e ruscelli che coi loro straripamenti e devastazioni inondano i possedimenti con tal forza che si direbbe che covi in loro qualche maleficio”[8]. Il vescovo non si fa pregare (è il caso di dirlo) e benedice la popolazione inginocchiata al suo passaggio, avanzando “fino ai piedi dei ghiacciai, dove li esorcizzò e li scomunicò secondo le formule rituali”[9].

Tornerà a Chamonix cinque anni dopo per una seconda benedizione (come un richiamo vaccinale), accolto calorosamente visti i risultati strabilianti della sua previa visita pastorale: i ghiacciai si ritirano di oltre ottanta passi, un miracolo storicamente attestato, perlomeno secondo La vie de monseigneur Jean d’Arenthon d’Alex, Évêque et Prince de Genève (1895) di Dom Innocent Le Masson. Il biografo afferma infatti di essere entrato in possesso di un’attestazione pubblica in cui si giura che “dopo la benedizione impartita da Jean d’Arenthon, questi ghiacciai si sono ritirati di tal sorta che ora sono a mezzo quarto di lega di distanza dal luogo in cui si trovavano prima della sua benedizione, e che hanno smesso di causare i danni che causavano prima”[10]. Amen.

William Scoresby Jr, An Account of the Arctic Regions, with a history and description of the Northern Whale-Fishery, vol. II, Edinburgh, Archibald Constable and C., 1820

Meteorologia

Dopo una lunga pausa alla caffetteria climatizzata, in cui non riesco a distogliere lo sguardo dal cubetto di ghiaccio che si scioglie nel mio bicchiere, mi rimetto al lavoro. Continuo a incrociare testimonianze simili sull’esorcismo dei ghiacciai e mi chiedo quale sia la sua parabola storica. Insomma, quando entra in crisi questo ricorso all’intervento divino? Difficile indicare una data precisa. Secondo Le Roy Ladurie, “dei preti rifiutano di praticare l’esorcismo dei ghiacciai a partire dal decennio 1770”. Al riguardo, ricorda i ghiacciai di Grindelwald che scendono verso la valle della Lütschine nera (1768-1777): “L’alluvione di Grindelwald nel decennio 1770 fu tale che i parrocchiani dovettero rivolgersi a un esorcista, ma quest’ultimo, forse un giansenista, non sapendo se l’avanzata del ghiacciaio fosse prevista dalla Provvidenza o provocata dal diavolo, si rifiutò di aiutare i contadini”[11]. Ora, stando a questo passaggio, è implicito che il rifiuto dell’esorcismo è legato esclusivamente a un’indecisione sulla natura effettiva degli smottamenti glaciali. Né la forza che li anima – che questa agentività sia divina o diabolica – né l’efficacia dell’eventuale esorcismo sono rimessi in discussione. Ipotizzo che il suo tramonto sia più tardo e coincida col disincanto moderno e, parallelamente, con la diffusione del turismo alpino, quel turismo che un John Ruskin lamentava nel suo giornale di Chamonix nell’agosto 1849.

Nel 1875 Antony Dessaix, in una raccolta di leggende e tradizioni popolari della Savoia non esita a ridicolizzare la credulità popolare, riferendosi nello specifico a Jean d’Arenthon. Con tono sarcastico dichiara: “riteniamo che, se qualcuno di Ginevra ha cambiato grandemente le cose a Chamonix, non si tratti di Mons. d’Arenthon, ma di Mons. de Saussure”. Il riferimento va allo scienziato e alpinista Horace-Bénédicte de Saussure. Nel secolo che separa i due assistiamo alla transizione dalla “credenza superstiziosa” alla “meteorologia razionalista”[12]. Per sapere cosa ne sarà delle proprie abitazioni  e delle terre coltivate vicino ai ghiacciai, insomma della propria sopravvivenza, la meteorologia diventa più affidabile dell’intervento miracoloso di un prelato. I suoi gesti, le sue parole, la sua acqua benedetta, la sua intercessione, poco possono contro l’avanzata dei ghiacciai. Se c’è ancora una volontà divina, questa si manifesta nei bollettini meteorologici.

Non mancano tuttavia delle sopravvivenze animiste, se pensiamo al già citato ghiacciaio di Aletsch. Nel 1889 il principe Roland Bonaparte racconta ad esempio la leggenda del famigerato Rollibock:

“Era un mostro terribile e potente che emergeva improvvisamente dall’Aletsch per uccidere l’audace che aveva osato provocarlo o deriderlo. La fuga più rapida non lo avrebbe salvato dalla sua presa e, una volta afferrato l’audace, lo avrebbe ridotto a brandelli. Aveva la forma di una capra, la testa sormontata da due enormi corna, occhi da cui sputava fuoco, i capelli sostituiti da candele di ghiaccio che producevano un rumore terribile quando si scontravano durante le sue corse furiose. Con tali corna scagliava in aria, a mirabili altezze, sabbia, pietre e abeti”[13].

Senza contare che il ghiacciaio in quanto locus horribilis, catalizzatore di eventi inquietanti, torna nelle tradizioni animiste in Alaska, dove è considerato un’entità irascibile come ha ben ricostruito l’antropologa Julie Cruikshank in Do Glaciers Listen? Local Knowledge, Colonial Encounters, and Social Imagination (2005). Potrei citare ancora La mano sinistra del buio (1969, ora disponibile in una bella edizione degli Oscar Moderni Cult, Mondadori) della scrittrice americana Ursula K. Le Guin. O un classico della storia del cinema come The Thing (1982) di John Carpenter. Tuttavia è difficile trovare film distopici che hanno come protagonisti dei ghiacciai, contrariamente ai film dove le forze del male sono incarnate dal mondo animale, vegetale o persino geologico. Me ne rendo conto vedendo un film debitore di The Thing ma che mi lascia perplesso: Blood Glacier (2013).

photo © Miguel Medina

Sudario

Torno al XVII secolo e tiro le fila: durante la Piccola era glaciale i ghiacciai diventano delle entità che rispondono e reagiscono al segno della croce, all’acqua ma solo se benedetta, ai sermoni, alle sacre invocazioni, alla messa, un po’ meno alle ingiunzioni e alle suppliche degli abitanti dei villaggi; diventano delle entità pronte a rivenire sui loro passi dietro le richieste ritualizzate degli alti prelati, pronte a rientrare nel seminato, a ritrovare la ragione, a riconoscere le forze divine che governano il mondo delle cose naturali. I ghiacciai si ritrovano al centro di processi verbali, di politiche ecclesiastiche e di pratiche religiose “per porre i ghiacciai sotto la protezione di Dio, una volta liberati dalle forze demoniache”[14]. Mai nella storia europea i ghiacciai erano stati così viventi, così presenti nella quotidianità delle comunità montane; il loro “comportamento” ne condiziona l’esistenza e la sussistenza.

A ogni loro minimo movimento verso valle corrisponde un atto umano concreto, volto alla sperata immobilità, per quanto temporanea e instabile, data la natura capricciosa e imprevedibile dei ghiacciai. Non sembra infatti esserci esorcismo che tenga. La loro immobilità – questo il punto più interessante ai tempi della crisi climatica – è vissuta come uno stato di grazia, uno stato salvifico per l’umanità. Non ho bisogno di precisare che questa stessa immobilità è ormai un’immagine della catastrofe ecologica. La stessa specie che ha esorcizzato i ghiacciai oggi fa di tutto per rallentarne lo scioglimento.

Chiusi i polverosi libri, uscito dalla biblioteca, mi viene in mente una pratica di conservazione diffusa da una decina d’anni: immensi teli bianchi che riflettono anziché assorbire il sole ricoprono i ghiacciai durante la stagione estiva. L’idea nasce nelle Alpi svizzere, dove il ghiacciaio del Rhône perde circa 350 metri di spessore di cui 40 metri nell’ultima decade. Questa tecnica, secondo il glaciologo David Volken, ridurrebbe il suo scioglimento del 70%, così che anche il ghiacciaio Presena in nord Italia viene coperto d’estate con teli di 70×5 metri ben ancorati contro il vento e le infiltrazioni di correnti d’aria calda. Ciononostante, continua Volken, è una situazione-tampone, perché ogni anno il ghiacciaio perde 5-7 metri di spessore, e alla fine del secolo potrebbe restarne solo il 10%.

La geo-ingegneria lavora nel frattempo a interventi più invasivi, come la costruzione di cumuli di sabbia e pietra artificiali e sottomarini per sostenere le lastre di ghiaccio a rischio e rallentarne il crollo, o l’uso di pompe alimentate dal vento che, d’inverno, spruzzano acqua marina sul ghiaccio per favorire la formazione di ghiaccio più spesso.

Ormai in metro, sul cellulare cerco fotografie dei teli protettivi: a qualcuno ricordano immense tende d’accampamento la cui superficie monocroma è spezzata solo da una minuscola bandiera svizzera. Ma dopo una giornata trascorsa a leggere di esorcismi, questo impermeabilone mi fa pensare, e non potrebbe essere altrimenti, al sudario con cui si vela la salma. Sotto il lenzuolo funebre, il sepolcro del ghiacciaio è costituito dai fiumi elvetici. Una scomparsa silenziosa: “A differenza dello scioglimento delle calotte antartiche e della Groenlandia, quello dei ghiacciai alpini avrà un impatto minimo sull’innalzamento globale del livello del mare”[15].

L’esorcismo è riuscito.

photo © Arnd Wiegmann

Bibliografia cronologica

Antony Dessaix, Légendes et traditions populaires de la Haute-Savoie, Annecy, Aimé Perrissin, 1875, édition revue et commentée par Claude Rignot, Cuvat, Heurtevent, 2007

Roland Bonaparte, Le Glacier de l’Aletsch et le lac de Märjelen, Paris, 1889

Les glaciers, in “Revue des traditions populaires”, vol. V, n. 4, 15 avril 1890, pp. 250-251, con la nota seguente: “Preghiamo i nostri colleghi che conoscono leggende relative ai ghiacciai di volercele gentilmente spedire alla redazione della Rivista”.

M. Mougin, Etudes glaciologiques en Savoie, in “Études glaciologiques”, t. 3, 1912, pp. 1-113

Gaston Letonnelier, Documents relatifs aux variations des glaciers dans les Alpes françaises, in “Bulletin de la Section de géographie”, 1-2, 1913

Emmanuel Le Roy Ladurie, Histoire du climat depuis l’an mil [1967], Flammarion, Paris 1983

Eric Baratay, L’excommunication et l’exorcisme des animaux aux XVIIe et XVIIIe siècles. Une négociation entre bêtes, fidèles et clergé, in “Revue d’histoire ecclésiastique”, vol. 107, n. 1, 2012, pp. 223-254

Andrew Toland, The Exorcism of the Glaciers, in “Scapegoat”, 8, 2015, pp. 32-47


[1] Letonnelier, p. 9.

[2] M. Mougin, p. 7.

[3] M. Mougin, p. 8.

[4] Le Roy Ladurie, p. 221.

[5] Letonnelier, pp. 10-11; Le Roy Ladurie, p. 222.

[6] Le Roy Ladurie, p. 223.

[7] Mougin, p. 8.

[8] Mougin, p. 8.

[9] Dessaix, p. 115.

[10] Le Masson, versione leggermente differente per ortografia e punteggiatura in Mongin, p. 9.

[11] Le Roy Ladurie, pp. 258-259.

[12] Dessaix, pp. 114-115.

[13] Bonaparte, pp. 9-10.

[14] Baratay, pp. 223-254.

[15] Agence France-Presse, Blankets Covers Swiss Glacier in Vain Effort to Halt Icemelt, 21 dicembre 2015.

In copertina: Jean Antoine Linck, Vue prise de la Voûte nommée le Chapeau du Glacier des Bois et des Aiguilles des Charmoz, c. 1800-1820, stampa, 411,9×54 cm, The British Museum, Londra

Riccardo Venturi

insegna Teoria e storia dell'arte all'università Panthéon-Sorbonne di Parigi. Attraversa spesso i confini – non solo geografici – tra la Francia e l’Italia e, a volte, quelli transatlantici. Collabora con la Fondazione ICA di Milano, scrive per cataloghi di mostre, pubblicazioni accademiche e non, cartacee e digitali, tra cui “Artforum”, “Alias - Il Manifesto”, “Flash Art”, “doppiozero”. Armato di matita, stila spesso liste di progetti accarezzati, fattibili o chiaramente implausibili.

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