Finalmente è uscito (per le cure di Roberta Valtorta da Corraini, 160 pp. ill. a col., € 32), a quasi dieci anni dal completamento dell’opera di una vita, il libro che raccoglie 20.12.53 • 10.08.04 di Moira Ricci. Molto semplicemente è il più potente libro di fotografia di questi anni quello che presenta cinquanta immagini nelle quali, mercè photoshop, Moira – nomen omen – s’è introdotta, col massimo della delicatezza, nelle foto dell’archivio di famiglia che ritraggono sua madre Loriana dal primo all’ultimo anno della sua esistenza (cinquanta, appunto, quante sono le fotografie rielaborate: alfa e omega che intitolano il lavoro). Il volume, nell’eccellente (e inventiva, ma per una volta non sopraffacente) resa grafica di Filippo Marani, è accompagnato da testi, oltre che di Valtorta, di Lydia Flem e Andrea Cortellessa: il quale ultimo, per la cortesia di autrice, curatrice ed editore, si propone qui.
Confusione degli statuti. Per mesi e mesi, sono stato sua madre. È come se avessi perduto mia figlia (dolore più grande di questo? Non avevo mai pensato a una cosa del genere).
Roland Barthes, Dove lei non è
Immagini in qualche modo fondamentali d’una vita, delle quali ogni tanto taluna d’improvviso m’assale.
Su alla cappella, quando vi tornai subito dopo il passaggio della guerra, una pallottola aveva forato il vetro del ritratto di mia madre sul sepolcro centrale, ritratto incoronato di roselline di ferro come di spine; ma il vetro stesso doveva aver deviato la pallottola, e il volto di lei era intatto.
Giù in casa, egualmente intatta appariva, tra tante rovine e pietre spezzate, l’antica scala esterna, mio orgoglio e amore.
Il più terribile dei ritratti di mia madre è quello che la presenta ritta (in una buffa e larga vestaglia di quei tempi, i capelli a cannuolo intorno alla fronte) con me unenne sul braccio sinistro ripiegato; ella mi addita sorridendo l’obbiettivo, che difatto, riccioluto e aggrondato, io fisso. Ma questo gesto giocondo ha il suo orrendo rovescio, o forse il suo vero dritto: dal braccio teso di lei il nostro almo sole ritaglia un’ombra nera e precisa, minutamente descritta ed articolata, un braccio di tenebra che attraversa il suo corpo di sbieco. Coll’indice notturno ella mostra la terra, la fossa: quella in cui doveva essere rinchiusa di là a pochi mesi.
Ma l’avida terra non sembra paga, il nero gesto continua.
Queste due pagine a specchio rovesciato si susseguono a poca distanza, tra «Febbraio» e «Marzo» del 1964, in Des mois: terzo e ultimo dei diari metafisici di Tommaso Landolfi, pubblicato tre anni dopo. Fra loro compongono un chiasmo, l’una il rovescio dell’altra, le due immagini convocate da Landolfi di sua madre Ida, morta il 24 maggio 1910, quando lui aveva due anni. Fra le due si colloca quest’altro brano:
La nostra vita interiore si volge tutta tra un’illusione di dominio sugli oggetti e un’umile richiesta ad essi. Richiesta di che? Evidentemente del nostro proprio volto, di una nostra consistenza non ipotizzata dalla volontà e non figurata per compenso dalla disperazione, ma tanto o quanto reale.
La richiesta è quella, nientemeno, di una definizione della nostra identità: una consistenza che non può avere forma diversa dal nostro proprio volto. Il che sarebbe pacifico (forse!), se Landolfi non fosse lo stesso autore che, nel Novecento non solo italiano, è stato fra i primi a cancellare la sua identità appunto oscurando il proprio volto. Anche in questo caso il gesto è mediato da una fotografia: quella che lo scrittore scelse di riprodurre nel risvolto al primo dei suddetti diari, LA BIERE DU PECHEUR: il ritratto che la nascente civiltà dell’immagine e del personaggio-autore (siamo nel 1953) pretendeva di devolvere alla curiosità dei lettori era bensì presente ma fra il volto e l’obiettivo, così nascondendo il primo, Landolfi (o chi per lui…) stendeva la mano aperta. Da quel momento in avanti le alette dei libri successivi reciteranno semplicemente «Risvolto bianco per desiderio dell’autore». Ma che la ricerca – seppur così contrastata – della propria identità, anzi della propria consistenza, passi necessariamente dal metafisico avallo dell’imago materna, lo dice la prima volta che questa viene convocata dall’autore (seppure solo en passant, e in toni in apparenza ben più leggeri). Siamo nel secondo dei tre diari, Rien va, e «il ritratto di mia madre morta sembra assicurarmi che posso o magari devo seguitare a vivere; ma che cosa non possiamo far dire noi stessi a un ritratto, di madre poi!».

Perché il ritratto della madre morta dovrebbe assicurare a suo figlio la possibilità di seguitare a vivere? La risposta sembrerebbe darla il primo brano citato di Des mois: quello in cui la foto di sua madre, protetta dall’opaco vetro cimiteriale, devia il raggio mortale del tempo così serbando il suo volto intatto. Al contrario, ci dice però il secondo brano, è precisamente la luce dell’almo sole a proiettarle addosso il braccio di tenebra che attraversa il suo corpo di sbieco: così segnando la sua sorte, che è poi quella di noi tutti. Il gesto che fa con la mano libera prosegue l’ombra nera e precisa che taglia in due, crudele, la propria immagine: inequivocabile indicando la terra, la fossa alla quale è destinata. Ma in effetti quel gesto non indica in modo generico la destinazione cui è inesorabilmente indirizzato ogni vivente. Quello che addita sorridendo, per la precisione,è l’obiettivo: cioè l’occhio impassibile della macchina che riprende la scena, e che proprio l’azione della luce impiega per iscrivere, nei corpi, l’ineludibilità di quella morte.

Alla lettera è la foto-grafia che, mentre sancisce l’irrecusabilità di quanto «è stato», altrettanto irrevocabilmente scrive «la morte al futuro». Così nelle araldiche pagine della Camera chiara di Roland Barthes, che hanno codificato una volta per tutte la superstizione, così frequente al primo diffondersi della nuova tecnologia, che con insistenza collegava la fotografia alla morte (il che non sarà stato privo di conseguenze, si capisce, nelle resistenze che incontrò, sulle prime, fra scrittori e artisti: l’anatema di Baudelaire contro i «nuovi adoratori del sole» non è che il più noto d’una saporita aneddotica). La paura più sottile che l’obiettivo incuteva – e tuttora talvolta incute, in chi si sottragga al nuovo culto solare del popolo dei selfie – probabilmente si deve alla qualità in sé mortifera di quest’«arte nata da un raggio e da un veleno», come l’estroso Arrigo Boito chiamava la fotografia già verso il 1870. Cioè alla sua capacità di rendere visibile l’azione del tempo: nient’altro che la morte, appunto.

Questo dice l’immagine dialettica che compongono i due brani di Landolfi: ciò che non ha potuto il Tempo Esterno, quello che tutti ci accomuna (il tempo della guerra, il tempo della storia), ha potuto un Tempo Interno (inherent vice che cova nel corpo di chi, infatti, è attraversato dal raggio d’ombra), o forse un Tempo Più Esterno: che non appartiene, propriamente, né alla storia dell’individuo né a quella dei popoli. È quella che un suo discepolo come Giorgio Manganelli, commentando negli anni Ottanta le fotografie scattate da Anna Forcella (e riportate nel suo libro Studi sul deserto) al camposanto romano del Verano, chiama la lama di tenebra della rappresentazione:
Se una statua si aderge contro un muro, con l’ambizione della parola incisa e rilevata, verrà trasformata in ombra, ritagliato buio […]. Tra due muraglie si inserisce una lama di tenebre, ed è questa, non altro, la materia dell’immagine, e chi guarda, e vede un profilo d’infante su di un muro, deve guardarlo dal punto di vista dell’oscurità […]. Il vetro che custodisce un’immagine adolescente esegue un difficile lavoro di rifiuto, allontanamento, smentita per l’appunto di quella presenza patetica, e alla fine dell’opera il vetro resterà come immagine assoluta, dominante, interpretativa, acre e limpida confutazione della squisita favola mortuaria; e il vetro è trasparenza, guisa d’aria, rapido gioco del nulla astratto con il nulla travestito di forma.
Un nulla travestito di forma è, a ben vedere, l’azione ambivalente di ogni rappresentazione visiva. Che fissa in immagine l’aspetto odierno dei volti e dei corpi, così in apparenza negando l’entropia che presto li condurrà, come tutti, alla terra, la fossa. Ma che, in quel preciso momento, provvede pure a irrigidire il perpetuum mobile della vita in un’icona che la immobilizza una volta per sempre. Il raggio di luce che eterna la vita è la stessa cosa della lama di tenebre che la pietrifica e la uccide.

20.12.53-10.08.04, il lavoro al quale Moira Ricci ha atteso dal 2004 al 2014, con l’interminabilità propria dell’analisi secondo Freud (prima di questo libro sono apparsi il video Ora sento la musica chiudo gli occhi sono ritmo in un lampo fa presa nel mio cuore, e la fanzine Fugazine # 6), pare voler sussumere tutti questi paradossi e insieme, con un solo gesto semplice e decisivo, tutti volerli tagliare come un nodo di Gordio. Questo gesto le è stato permesso dall’evoluzione della tecnica digitale e in particolare da Photoshop: software che ormai sanno usare, si può dire, un po’ tutti.
Inserire la propria immagine di adesso – un adesso, per ulteriore paradosso, che ormai ha a sua volta una storia di quasi vent’anni – all’interno delle fotografie della collezione di famiglia che ritraggono sua madre, scomparsa a poco più di cinquant’anni (cioè l’età che avrà fra poco lei, Moira, nata 46 anni fa), significa ripetere all’infinito l’effetto di compresenza magica che nella foto commentata da Landolfi dà l’inclusione di lui unenne sul braccio sinistro ripiegato della madre morta: gesto che pare intendere il contrario di quello ominoso dell’altro braccio che indica, s’è visto, l’obiettivo fotografico. Se con questo gesto la donna accetta il veleno e la luce dei quali la macchina crudele la investe, così consentendo al proprio destino di morte, l’altro braccio pare voler invece proteggere, da quel raggio micidiale, la vita nascente che sta sorreggendo: così consegnandola a un futuro che non includerà lei ma lui, invece, sì. In questo senso il ritratto della madre morta sembra consentirgli, o piuttosto ingiungergli, di seguitare a vivere.

Le immagini di 20.12.53-10.08.04 sono tanto semplici, tecnicamente, quanto emotivamente non meno che lancinanti. Quello che può apparire un effetto Forrest Gump non ha niente di ludico: se è forse inevitabile, da parte nostra, proiettare nell’operazione una certa dose d’ironia nei confronti dell’abuso patetizzante che troppo spesso delle foto di famiglia fanno gli artisti d’oggi, lo struggimento che si produce guardando le immagini di Moira Ricci mantiene sempre una sua evidente, tanto bizzarra quanto innegabile, autenticità: paradossalmente proprio in virtù della falsificazione operata dall’autrice (non diverso il cortocircuito di altri suoi lavori che esplorano, o piuttosto “inventano”, le mitologie della heimat maremmana d’origine: come Da buio a buio, visto alla Quadriennale di Roma del 2016,o Dove il cielo è più vicino, passato al Festival Fotografia Europea di Reggio Emilia dove l’ho visto nel 2017).
Piuttosto che al film del 1994 la cui frase-slogan tirava in ballo giusto la mamma del protagonista eponimo («Mamma diceva sempre: la vita è uguale a una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita»), il quale grazie all’effetto CGI sbalordiva l’audience di allora includendosi, con digitale verosimiglianza, in una serie di universalmente note scene del passato, l’operazione di Moira Ricci fa pensare a quella, d’un paio d’anni precedente al film di Robert Zemeckis, con cui Natalie Cole riusciva a duettare col padre Nat «King» Cole, morto nel 1965, nella sua celebre hit Unforgettable: sovraincidendo la propria voce a quella incisa da lui quarant’anni prima (e nel relativo videoclip riuscendo anche a montare la propria immagine, virata in bianco e nero, accanto alla sua). A riuscire davvero unforgettable l’assoluta, implacabile prevedibilità di un’esistenza per sempre crocifissa alla medesima coazione a ripetere: la vita è quella scatola che, ogni volta che la apri, sai già benissimo quello che contiene.
Siamo dalle parti del Krapp di Beckett e del suo Ultimo nastro: testo che in effetti ragionava sulle conseguenze della riproducibilità tecnica della vita (nella fattispecie, della voce umana): dopo il Verne del Castello dei Carpazi, il Roussel di Locus solus, il Bioy Casares dell’Invenzione di Morel, in questione è sempre la sfida impossibile al tempo che ruit irreparabile, nell’invocazione che era stata di Faust: «fermati istante, sei bello!». Chi ha rinnovato il tòpos nel modo emotivamente più vicino all’interpretazione che darà Moira Ricci mi pare sia stato William Trevor nel Viaggio di Felicia, romanzo del 1994 memorabilmente portato al cinema cinque anni dopo da Atom Egoyan: Joe Hilditch (interpretato nel film da Bob Hoskins) è un serial killer che attira in trappola le sue vittime con l’untuosità di Norman Bates nell’archetipo hitchcockiano; ma il lutto per la morte della madre Gala non lo vive impersonandola e indossando i suoi abiti, come aveva fatto il protagonista di Psycho, bensì restando immerso in una specie di sacrario dove incessabilmente rivede le registrazioni degli anodini programmi di cucina condotti dalla madre nei palinsesti televisivi d’antan.

La maledizione di Moira Ricci consiste nell’essere insieme la vittima e il serial killer, la preda e il ragno, o se si preferisce – volendo interpretare questa tradizione in chiave metalinguistica – lo spettatore e il regista del sempreuguale spettacolo da lei messo in scena per dieci anni, appunto, anzitutto per sé stessa. Questo cortocircuito psicoanalitico era sottolineato da Marco Delogu con l’accostare i suoi lavori, nel volume Facing the camera (Punctum 2021), a quelli di Luigi Di Sarro: tecnicamente diversissimi, e precedenti del resto di quasi quarant’anni, gli scatti nei quali il medico e fotografo tragicamente scomparso nel ’79 (quando venne ucciso per errore dalla polizia a un posto di blocco) riprendeva anche sé stesso nella cornice dello specchio nel quale si guardava sua madre. Non c’era trucco e non c’era inganno: ma identica, e non meno perturbante, la sovrimpressione psichica così prodotta.
Ha dichiarato una volta Moira Ricci: «continuavo a guardare le sue foto, non riuscivo a smettere; volevo solo entrare lì per stare con lei. Mi sono inserita nel modo più preciso possibile per rendere verosimile il mio sogno di poterle stare ancora accanto, di recuperare il tempo perso e proteggerla». Iscrivere sé stessa accanto a sua madre significa anzitutto entrare lì, nel circuito feticizzato dell’immagine sacra, e farlo con tutta la delicatezza del caso – per esempio scegliendo un abbigliamento coerente con la moda del tempo, attenuando sino ad annullarla ogni discontinuità di colore e illuminazione, prossemicamente assumendo la distanza corretta dalla figura centrale. E poi, sì, proteggerla. Tutto, nella figura che si aggiunge, sta a significare questo intento tanto urgente quanto impossibile: lo sguardo, l’inclinazione della testa, la postura delle mani. Con spirito non diverso, anche se antitetico nell’attitudine guerriera del figlio maschio, Michele Mari ha innescato la sua mirabile Leggenda privata inserendovi una foto scattata da suo padre – il celebre grafico e designer Enzo – al figlio settenne che si frappone fra lui e la moglie Iela, al culmine d’una delle orrorose crisi di famiglia raccontate nel libro, nel «delirante conato di difenderla […]: con lo sguardo che dice: “Dovrai passare sul mio cadavere”». Situazione tanto “vera”, drammaturgicamente e figurativamente, quanto verosimilmente inattendibile. Come si potrà credere che, nel pieno di una tale crisi famigliare, qualcuno possa mettere mano alla macchina fotografica?

Nell’interpretazione viceversa tutta al femminile di Moira Ricci, è indicibile l’insieme di tenerezza, ma anche di straniamento, che non può non comportare la bizzarria della situazione. Viene da pensare alla Lettura di un’immagine di Lalla Romano (testo poi ampliato nel Romanzo di figure e nel Nuovo romanzo di figure). Come nel Barthes di Roland Barthes pubblicato nello stesso 1975, la scrittrice ritrova e commenta in età adulta un archivio di fotografie che includono la propria immagine, a un’età compresa fra i tre e i sette anni, e quella di sua madre, insieme o separate ma sempre riprese da suo padre, apprezzato fotografo. Nessuna impossibile disfida edipica, stavolta, ma anche questo a ben pensarci è un contesto abbastanza inquietante. Non solo queste foto raffigurano fantasmi, uno iscritto nell’immagine e l’altro che la realizza, cioè i genitori dell’autrice da tempo scomparsi; ma fantasmi sono loro stesse: perché le loro “didascalie” vengono redatte dopo un tempo lunghissimo, quando le circostanze nelle quali le foto erano state scattate sono state dimenticate da un pezzo (o non sono mai state neppure registrate, magari, dalla memoria della bambina piccolissima).
Fondamentale è però il ricongiungimento della vecchia Lalla (all’epoca della prima edizione giunta alla soglia dei settant’anni) con la figura materna. Anche stavolta non c’è trucco e non c’è inganno, ma comune di nuovo è l’indefinibile insieme di algida sospensione metafisica e travolgente incandescenza affettiva. Viene in mente, ancora, Giosetta Fioroni. Che in una delle ultime personali, al Museo del Novecento di Milano nel 2018, interpretava la sua ormai lunga storia come Viaggio Sentimentale, ivi inscenando cortocircuiti davvero da fantascienza: un suo Autoritratto a nove anni del ’66 (il bambino – perduto nel tempo come nella Jetée di Chris Marker – certo è lei stessa) si specchiava in una Giosetta a 12 mesi scolpita in bronzo dal padre Mario (tutt’altro che disprezzabile allievo di Arturo Martini); per culminare in un grande autoritratto doppio, scultura in resina a grandezza naturale in cui la Giosetta settantenne tiene per mano la Giosetta di nove anni in tenuta da scolaretta.

In alcune immagini di 20.12.53-10.08.04, in uno scambio vertiginoso di ruoli, Moira adulta veglia sull’infanzia della madre rimasta fissata in arcaici bianco e nero. Per esempio in Fratelli e cugina è lei, assorta e con un (rarissimo) spettro di sorriso accennato sul volto, a sovrastare il gruppo dei bambini che include colei che, tanti anni dopo, le darà la vita; e in Gemellini è presente alla prima apparizione in scena di sua madre accanto a suo zio. In un’altra di queste immagini, Moira assiste al momento più intimo che si possa dare tra madre e figlio: quello in cui Mamma allatta Federico, cioè suo fratello.

Questi cortocircuiti temporali assomigliano tutti a quello del finale di 2001 di Stanley Kubrick: quando giunto al termine del Viaggio che è stata la sua vita – un’Odissea, appunto – il Viandante si vede Morire, e insieme si vede Nascere. Immagini, queste di Moira Ricci, che interpretano il paradosso umanissimo enunciato da Landolfi: quando diceva che conservare l’immagine materna era l’unica cosa che gli permettesse di seguitare a vivere. Perché questo vivere consisteva anche nello scrivere la pagina destinata a far giungere sino a noi, seppure nella forma virtuale dell’ècfrasi, l’immagine della madre. Così il Figlio assumeva su di sé, in un futuro inimmaginabile, il medesimo ruolo di metafisica protezione assolto dalla Madre a suo tempo. Lo stesso fa Moira Ricci, assistendo la madre che entra nel circuito delle generazioni, e persino quando quel circolo rimette in moto: in questo modo garantendo a sé stessa il futuro nel quale potrà correre indietro, a perdifiato, e così salvare sua madre dall’abisso del tempo.
In forma laicissima, ma non per questo meno trascendente, si ripete la preghiera già ripetuta da Dante all’inizio dell’ultimo canto del Paradiso: e la «Madre» si rivela «Figlia del suo Figlio». Quando lei sarà morta, solo chi è nato dal suo grembo potrà accudirla. Una tenerezza che si spinge «verso l’infinito e oltre», come l’astronave di Kubrick; la tenerezza che può avere solo una Madonna del Bellini.
In copertina: Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04 (mamma con donatella), 13×21 cm (particolare)