Joan Fontcuberta, post-voyeur

Nella scena finale di Blow-Up la linea di faglia fra apparenza e realtà ch’era corsa lungo tutta la pellicola si apre, sancendo la definitiva rottura del loro patto mimetico e il contemporaneo allontanamento di tutto ciò che possa ascriversi al nostro vissuto, in favore di una sublimata rappresentazione. Il fotografo protagonista del film di Antonioni si prova a vedere la realtà più da vicino; ma quando, ingrandendola troppo, essa si scompone e sparisce, ciò che resta è «trasformato in una massa confusa» – come si legge nelle Bave del diavolo di Cortázar che del film è sinopia.

Un volume a più voci di qualche anno fa, Io sono il fotografo. Blow-Up e la fotografia (Contrasto 2019), mostrava come nella pellicola del 1966 a confrontarsi non fossero soltanto l’ambito del reale e quello della parvenza, ma pure due diverse tecniche di esplorazione degl’immediati dintorni e confini di codesti ambiti: la fotografia e la pittura. Se quest’ultima rispetto al problema insito nella rappresentazione si fonda ancora, almeno per certi versi, sulla duplice piramide albertiana (fig. 1), la cui base poggia sulla superficie dipinta e le cui sommità coincidono rispettivamente con il punto di vista e con il punto di fuga, nel caso della fotografia l’occhio dell’osservatore si posa e si proietta nello spazio della rappresentazione producendo un effetto di realtà, che, tuttavia, resta una finzione. Laddove in un quadro non si può che notare un’assenza (il campo centrale, che non può che mancare o essere sostituito da un buco, riflesso, insomma, della pupilla dietro la quale è lo sguardo), in una fotografia, fluendo attraverso lo spiracolo che segna il centro cieco della rappresentazione, l’osservatore diventa oggetto esso stesso, cosa tra le cose, voyeur opaco alla sua stessa coscienza.

fig. 1

In una pagina della Fotografia (Einaudi 1973) Ugo Mulas ricorda al riguardo come la macchina fotografica amplifichi l’ossessione di vedersi vedere, di partecipare a ciò che l’occhio cattura. Essa, però, in quanto mezzo, non farebbe che escludere il fotografo mentre è più presente. Allo stesso modo di ogni altro spettatore che si affacci alla realtà, il fotografo perderebbe in tal modo la nozione stessa di sguardo, tanto è vero che, qualora volesse recuperare la propria personalità, egli non potrebbe che attraversare lo stadio dello specchio. Ne sarebbero prova quegli scatti che – scrive a sua volta Iñaki Bonillas sul margine delle sue Ideas del espejo – s’intrufolano casualmente in uno specchio, creando «una falla che si ostina a rubare la fotocamera, a portare lo sguardo verso un altrove», in uno si quegli spazi nei quali un’altra immagine fotografica nasce casualmente dentro la ripresa originale (fig. 2).

fig. 2

Si attiverebbe così – fa notare Joan Fontcuberta nella Furia delle immagini (Einaudi 2018) – una serie di contingenze: anzitutto quella rappresentata dalla doppia casualità, rappresentata dalla foto in sé come oggetto e dello specchio nella foto come immagine, e a partire dalla quale cominciano a definirsi i connotati della cosiddetta photo trouvée. Un nome che richiama alla mente l’objet trouvé. E non solo nel nome, ma anche nella funzione. Se l’artificio escogitato da Man Ray aveva mostrato come fosse possibile adempiere alla grande secolare minaccia di una conquista surrealista della sensibilità moderna, secondo quanto affermato da Susan Sontag, la «foto trovata» – puntualizza Fontcuberta – avrebbe la caratteristica di rivelare, dell’immagine, una natura che trascende il registro del visibile per penetrare, mediante un fuori campo attivo, nelle riserve dell’invisibile. Essa dimostrerebbe così come «la fotografia ricalchi la realtà, ma sempre attraverso un’impostura».

Favorita dalla svolta digitale, e dalla correlata possibilità di manipolare quanto ci circonda, la fotografia si rivela sempre di più una falso-grafia: una faux-tographie – come l’ebbe a chiamare Godard in Weekend (1967). È la stessa prospettiva del Bacio di Giuda. Fotografia e verità (Mimesis 2022; 1ª ed. Editorial Gustavo Gili 1997), il testo più celebre dello stesso Fontcuberta; «filosofo della fotografia» come lo dice Ferdinando Scianna, che da lustri propugna l’idea, d’accordo con quanto teorizzato da Otto Steinert nel secondo volume di Subjektive Fotografie (1955), che l’arte della luce abbia, nel corso della sua storia, attraversato quattro tappe: della riproduzione, della rappresentazione, della rappresentazione della creazione e quindi della creazione fotografica assoluta. Alla quale – aggiunge Fontcuberta – fa ora seguito l’epoca della «post-fotografia», nella quale si assiste alla smaterializzazione dell’autorialità e al contemporaneo dilavarsi delle nozioni di originalità e proprietà di qualsiasi immagine, e soprattutto a un deciso accentuarsi dell’«ambiguità interstiziale tra realtà e finzione, oppure attorno al dibattito su particolari situazioni percettive, come nel caso del trompe-l’œil, o su nuove categorie del pensiero e della sensibilità, come il vrai-faux». Fino a giungere a una messa in questione della stessa adeguazione della cosa all’intelletto. Un’adeguazione che s’era determinata allorché la “cosa” era parsa, grazie proprio alle vedute che la fotografia nei suoi primordi era riuscita ad imporre, semplicemente essere, prescindendo dalle nostre convenzioni e dai nostri, avrebbe detto Robbe-Grillet, «aggettivi animisti o casalinghi». Ora, però, col proliferare incontrollato di immagini prive di referente, questa stessa forma d’adeguazione secondo Fontcuberta è equiparabile a un non-sense, inteso come ciò che elude la verità come oggettività.

Come ha sostenuto Jacques Derrida nel colloquio del 1992, Die Fotografie als Kopie, Archiv und Signatur, proprio l’elisione d’ogni hic et nunc dotato di presenza reale comporterebbe il dover ammettere che la funzione di registrazione assolta dalla fotografia sia, in ragione della sua digitalizzazione, venuta definitivamente meno. Anzi, registrare un’immagine sarebbe ormai inseparabile dal gesto di produrla, con conseguenziale perdita di un «referente unico esterno». La fotografia non potrebbe perciò più fungere da testimonianza – come voluto da Roland Barthes – che la cosa, non facoltativamente, ma necessariamente, «è stata là». Questa circostanza, di cui Derrida si rammarica tanto quanto Fontcuberta si compiace, troverebbe sanzione nell’apparizione di Photoshop – si legge in Contro Barthes, ultimo tassello del ragionare del poliedrico autore spagnolo (la cui opera fotografica è in questi mesi in mostra all’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione di Roma) attorno alle nuove tecniche fotografiche, qui occasionato in modo un po’ fortuito dal ritrovamento dell’archivio iconografico d’una rivista messicana degli anni Sessanta specializzata in cronaca nera. Il noto software di elaborazione di immagini ha infatti da tempo instaurato – dichiara Fontcuberta – un nuovo ordine visuale, che conduce a fare della fotografia una finzione che si presenta come veritiera. Con ciò congedando ogni «posizione congiunta di realtà e di passato».

Un congedo, si dirà però, troppo repentino. E che, soprattutto, mostra di non comprendere ciò di cui testimonia Barthes nella Camera chiara. Egli vi consegna i sentimenti d’un figlio orfano della propria madre amatissima che, attraverso le vecchie fotografie che la ritraggono, si prova a trasformare il dolore in lutto; e che quando ha trovato infine un’immagine di lei che realizza «la scienza impossibile dell’essere unico», non la mostra. Perché vedere presuppone sì la distanza, la facoltà di non essere in contatto; ma vedere significa che tale separazione è stata incontro. In ciò risiede il peculiare «fascino dell’immagine» della madre bambina o, meglio, come scrive Barthes, dell’«immagine di una bambina», «del Supremo Bene dell’infanzia». La quale è il momento stesso del fascino, «è un’età dell’oro che sembra bagnata in una splendida luce in quanto non svelata; il fatto è che essa è estranea alla rivelazione, non vi è niente da rivelare, è puro riflesso, puro raggio che è ancora soltanto irraggiamento di un’immagine»: assenza aliena a qualsiasi possibile alterazione, in quanto visibile solo perché accecante.

Joan Fontcuberta
Contro Barthes. Saggio visivo sull’indice
Mimesis, 2023
pp. 206, € 20

In copertina: una fotografia di Joan Fontcuberta dalla serie Cultura di polvere, lightbox

Luigi Azzariti-Fumaroli

(Milano 1981) insegna filosofia della comunicazione e del linguaggio presso l’Università Pegaso di Napoli; ha svolto e svolge attività didattica e seminariale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e l’Università di Pavia. Studioso di filosofia moderna e contemporanea, è autore di numerosi saggi e studi monografici fra i quali: “L’oblio del linguaggio” (Guerini 2007); “Alla ricerca della fenomenologia perduta. Husserl e Proust a confronto” (Mimesis 2009); “Brice Parain-Impromptu” (ESI 2010); “Giuseppe e i suoi fratelli: dalla filosofia narrante alla rivelazione” (Editoriale Scientifica 2012); “Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin” (Quodlibet 2015) “Monoteismo plurale. Teologia ed ecclesiologia in Schelling” (Il Pozzo di Giacobbe 2019). Ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Baumgardt, Hegel, Maimon. Di prossima pubblicazione, presso Quodlibet, è “Filosofia dell’ombra. Tre saggi”. Giornalista pubblicista, collabora con diversi periodici.

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