Non è arte. L’arte preistorica non è arte. Nonostante il titolo apparentemente inequivocabile, la mostra Arts et Préhistoire tenutasi presso il Muséum national d’Histoire naturelle di Parigi (novembre 2022-maggio 2023), ebbene quello che si potuto vedere nell’esposizione, e leggere nel catalogo corrispondente (a cura di Patrick Paillet ed Éric Robert, edizioni del Muséum national d’Histoire naturelle, 2022), non è una mostra d’arte. In effetti tutto si gioca su quel plurale, arti o arte?
Prendiamo una definizione corrente e sostanzialmente condivisibile di arte, quella della Enciclopedia on line Treccani: “Il concetto di a. come tèchne, complesso di regole ed esperienze elaborate dall’uomo per produrre oggetti o rappresentare immagini tratte dalla realtà o dalla fantasia”, che, successivamente “si evolve solo attraverso un passaggio critico nel concetto di a. come espressione originale di un artista, per giungere alla definizione di un oggetto come opera d’arte”. In questo senso specifico quelle che si sono potute osservare nella bellissima mostra parigina non erano opere d’arte prodotte da artisti. Diverso il caso se si parla di arti, al plurale, perché in questo caso, sempre rifacendoci alla definizione Treccani, rientra nelle arti la “capacità di agire o di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche”.
Nel testo del catalogo, tuttavia, questa doppia accezione è spesso omessa, e in più punti si parla semplicemente di “opere d’arte”. Da questo punto di vista è del tutto improbabile che le mani degli ignoti e ignote che materialmente produssero questi oggetti fossero le mani di qualcuno che pensava a sé stesso come ad un artista. Perché per pensarsi come artista occorre appunto che esista l’arte, e che l’arte sia qualcosa di diverso dalle arti in senso tecnico, come quella del conciatore o del calzolaio. Tantomeno è credibile che questi esseri umani pensassero che potesse esistere, all’interno del loro comune mondo pratico-culturale, il campo separato dell’esperienza propriamente artistica. Se poi pensiamo a quello che la parola arte evoca oggi nella mente di un frequentatore di mostre e performance artistiche (che sia o no qualcuno interno a quel mondo), le ‘immagini’ e gli oggetti che si sono potuti ammirare nella esposizione parigina rimandano ad un mondo diverso, che è piuttosto quello del sacro.
Il punto in questione è nell’esistenza o meno di un campo propriamente artistico separato da altri ambiti dell’esperienza umana. Nella sua introduzione al catalogo della mostra, Aurélie Clemente-Ruiz scrive che gli oggetti e le immagini esposte testimonierebbero del fatto che la “facoltà umana di proiettarsi, di sviluppare delle rappresentazioni mentali coscienti, ha fatto nascere l’arte come pensiero simbolico del mondo” (p. 10). Secondo questa impostazione un essere umano del paleolitico superiore (è in questo periodo, circa 45.000 anni fa, che cominciano ad apparire queste raffigurazioni) pensava quindi a sé stesso come separato dal mondo. In effetti il pensiero simbolico non è altro che un pensiero che in tanto può avere come oggetto il mondo, in quanto è separato da quello stesso mondo che sta pensando. Al contrario un maiale non ha alcun bisogno di pensare il mondo perché non se n’è mai staccato. Connesso a questo punto è quello del supposto “bisogno di rappresentare” che, secondo i curatori della mostra, avrebbe spinto quei nostri lontani antenati a rappresentare sulle pareti di profonde e scomode grotte delle immagini, in particolare di animali. In effetti sente il bisogno di rappresentare qualcosa solo chi non si sente più in presenza di quello stesso qualcosa: in questo senso ogni rappresentazione esprime nostalgia per il mondo, che proprio per questo verrebbe ri-presentato, perché di fatto non è più sentito come direttamente presente. Ma perché un essere umano del paleolitico avrebbe dovuto sentirsi separato dal mondo naturale, avrebbe cioè dovuto provare il sentimento che può provare, oggigiorno, un abitante di una città che non ha più contatti con l’ambiente extraurbano? Questa stessa continua vicinanza – in effetti una vera e propria ininterrotta immersione – con il mondo rende altrettanto difficile comprendere perché questi nostri antenati avrebbero dovuto avere il bisogno “di copiare il reale” (p. 45). Il problema del “reale” è un tipico problema che può porsi solo un idealista, cioè chi crede nel ‘primato’ del mondo delle idee rispetto a quello materiale: ora, immaginarsi un essere umano del paleolitico alle prese con un dubbio sull’esistenza effettiva del mondo sembra del tutto implausibile.
Quindi, non c’è ragione perché ci sia arte in quanto arte che produce opere d’arte, non ci sono artisti, non c’è alcun bisogno di rappresentare in absentia un mondo che, al contrario, è sempre insopportabilmente in præsentia. Ché non ci siano artisti lo conferma anche il fatto che, nonostante la grande quantità di manufatti ‘artistici’ finora trovati, al momento non sia mai stato trovato alcun autoritratto (p. 49), che invece è un tipico segno dell’autocoscienza dell’artista in quanto artista. Ma allora, perché provare nostalgia del mondo naturale, quando la vita di un essere umano del paleolitico era completamente e incessantemente connessa a quello stesso mondo? Se c’è un sentimento relativo al mondo naturale che deve avere provato qualcuno vissuto nel paleolitico, non sarà certo stata la nostalgia, semmai la paura e il senso di soffocamento. Se l’arte è rappresentazione, cioè messa in scena di un mondo fantastico accanto a quello reale, allora quella primitiva non può essere arte.

In realtà un modo diverso per pensare a questo tipo di manufatti lo si può ricavare dai principali ‘oggetti’ che possiamo osservare in questa ‘arte’ che non è un’arte: in ordine di frequenza, animali, poi ‘segni astratti’ e infine esseri umani, o quasi umani (teriomorfi) (p. 18). Si può cominciare a farsi una idea di questi ‘oggetti’, in particolare delle immagini degli animali, provando a non pensarle come se fossero riproduzioni di animali effettivamente esistenti, quegli stessi animali fisicamente presenti alla luce del sole appena fuori dalle grotte. A guidarci può essere proprio il tema della continuità animale-umano. In effetti la vita umana del paleolitico era una vita assolutamente inseparabile da quella degli animali non umani, sia come nutrimento sia come pericolo mortale (ma anche come amicizia, ché la domesticazione dei lupi rimonta più o meno a quel periodo).
In questo senso un animale ‘disegnato’ su una parete di una grotta o inciso su un utensile non è tanto un animale raffigurato, cioè immaginato o ricordato, quanto una sorta di animale reale, benché appunto solo in effige. Un modo per stare con gli animali anche dove non ci sono, come nelle grotte, oppure per averli sempre con sé come sugli strumenti incisi. In questo senso non sarebbero animali in absentia, al contrario, gli animali sarebbero sempre in præsentia. Perché non c’è vita umana se non in contatto con gli animali. Per questo quelle immagini non sarebbero segni (che funzionano in base al fondamentale meccanismo semiotico dell’aliquid stat pro aliquo) bensì delle invocazioni, o più precisamente l’equivalente visivo di un giuramento (che per Agamben rappresenta il gesto linguistico originario): qualcosa come “bisonte, che tu stia sempre con me”. Vale lo stesso per il leone, “che tu stia sempre con me”, perché non c’è bisonte senza leone, questo è il mondo naturale. Gli esseri umani del paleolitico, come abbiamo visto, sono ‘naturalmente’ realisti, e il realista prende il mondo per quello che è, con il bisonte e il leone. Di questo mondo fanno parte anche gli esseri umani, evidentemente, ed è naturale che siano presenti. Ma perché giurare affinché il mondo sia? Perché gli animali non umani non fanno niente del genere? Perché gli esseri umani usano il linguaggio (e 45000 anni fa non era da tanto che avevano cominciato ad usarlo; secondo molte stime la facoltà del linguaggio appare circa 200000 anni fa), e la principale prestazione del linguaggio è quella di poter parlare del mondo in assenza del mondo. Il linguaggio allontana il mondo. Ecco allora perché diventa necessario rassicurare il mondo che il legame con la natura non si è interrotto. Ecco perché riaffermare, anche con le immagini, la fedeltà al mondo. Ed ecco perché, infine, riempire le pareti anche di segni che non sembrano essere rappresentazioni.
Anche in questo caso il pregiudizio espressivo/comunicativo presume comunque che queste linee debbano significare qualcosa: “i segni” viene scritto nel Glossario che chiude il catalogo, “come gli animali, sono portatori di messaggi che per noi sono inintelligibili” (p. 293). Ma perché queste linee e queste forme devono per forza avere un significato? Perché questa ossessione per la comunicazione e l’espressione dell’artista? Se le immagini animali sono una forma di giuramento visivo, allora questi segni potrebbero avere la stessa funzione delle parole che accompagnano e seguono i giuramenti. Saremmo allora in presenza di un rito, più che di un messaggio, di un’azione più che una rappresentazione, di una manifestazione del sacro più che di una messa in scena semplicemente artistica. In effetti, come scrive Carole Fritz, nel capitolo intitolato “Pour une antropologie de l’art prehistorique” nel paleolitico “il rapporto fra i gruppi umani e l’ecosistema non consiste in un adattamento passivo dei primi rispetto al secondo, ma si definisce come una storia comune in cui gli umani e i non umani sono evoluti insieme, adattandosi ai ritmi e alle esigenze del loro ambiente, Fra i 38000 e i 12000 anni fa, l’umanità si percepisce come una specie fra le altre, alla pari del mondo animale. Lo testimonia la posizione modesta che occupa la figura umana” in queste scene visive. “Questa discrezione ci mostra che non c’è differenziazione dell’umanità rispetto all’animale, bensì una coscienza comune, poiché i non-umani sono collocati al centro dei dispositivi legati all’immagine” (pp. 130-131).
Ma infine, che non si tratti di arte non vuol dire affatto che allora siano raffigurazioni e oggetti di poco valore, al contrario. Oggigiorno, se c’è un ambito assolutamente sopravvalutato è proprio quello dell’arte, che spesso sembra avere smarrito il suo potenziale trasformativo, per diventare un fenomeno di marketing o direttamente e brutalmente un bene finanziario. Mentre certe immagini, per non parlare di alcune delle statuette presentate nella mostra parigina, danno agli spettatori la sensazione di una urgenza e di una necessità fortissima. Come se in quegli animali e quelle figure umane o quasi umane si percepisse non tanto un’esigenza di espressione ‘artistica’, quanto appunto un gesto di comunione ‘sacra’ con il mondo. Di fronte a queste immagini, più che guardare, viene da pregare.
In copertina: una rappresentazione del cosiddetto Bos primigenius, Grotta del Romito, Papasidero (CS); courtesy Giulio Archinà