Walter Siti aggiorna la sua Ossessione alle pratiche catastali del Cielo, come a dire il materialismo storico, pure autorizzato per via primitiva (si veda la citazione iniziale eloquente di Giacomo Noventa: «Mi me credevo un òmo libero / e sento nascer in mi el paron»). Marx e Freud ancora una volta congiunti per via endogamica – e per sempre – sotto il magistero di quella che si dice pura Ossessione ma che risulta fiore impuro, macchiata dalla lucidità autoptica e non più solo «autofittiva» («Da notare che molti di questi racconti sono in terza persona, parlano di me senza usare l’io autofittivo; testimonianza […] che l’Ossessione se ne frega dei pronomi personali»); dunque, più variazione sul tema che sguaiato rictus della pulsione. E poi, naturalmente, le immagini: a significare una definitiva interferenza extra-diegetica. Il Mito si verbalizza una volta per tutte, si fa trascrizione di conversazioni (Perché io volavo), espone i propri incunabola. Da eccezion(al)e l’ecfrasi visiva si fa ordinaria, descrittiva, analitica appunto. Corredo della seduta psicoanalitico-marxiana alla quale Siti sottopone il suo mito, simbolo, nodo originario irriducibile e, forse, inspiegabile. Ma se un Mito, seppur mostrificato alla Jarmush (Only the lovers left alive, ma anche e soprattutto The dead don’t die), è Mito, allora la sua esposizione sul lettino glaciale, con tanto di cartellino da Morgue, non dovrebbe sussistere.
Con Tutti i nomi di Ercole Siti ripropone i suoi racconti – usciti in una precedente versione nel 2004 – spesso germi dei romanzi maggiori: su tutti Autopsia di un’Ossessione e Troppi paradisi – archiviando il fascicolo sotto un nuovo nome certo, che osservi un timore per il Cielo e che rifrange l’onda sonora dei testi dentro la cassa da aedo, un cantore sporco e sapienziale al tempo stesso. Tuttavia, sarebbe un errore leggere in maniera monadica questa nuova edizione; ciò che essa rappresenta non può fare a meno di ciò ch’essa è-stata e dunque sì Ercole, ma pure sì alla «magnifica merce», che è come dire la “magnifica ossessione”, laddove s’intenda declinato non già il verbo di Douglas Sirk (1954), ma quello del minuscolo (come vuol essere citato) enrico ghezzi, che nel 1985 abbagliò gli spettatori già in stato di drammatica sedazione con una raggelante maratona cinematografica di 40 ore (il lungo tempo standard del salario).

E poi c’è un terzo specchio nel quale la monotonia di Siti si riflette: l’immagine. La merce si mette in mostra: per essere ‘comprato’ il feticcio deve essere visibile, visualizzabile, esposto. Come le cere anatomiche della Specola, che il genio dell’inner space David Cronenberg anima, anche la merce – tanto più quand’essa è umana – deve esporre il proprio orrore interiore, ma ammantato di appetibilità, deve insomma farsi simulacro e feticcio. E non solo, ovviamente. L’immagine, qualunque immagine, dischiude a un visibile che è prodromo dell’Invisibile.
La lunga storia del feticcio-visibile, in Siti, è stata già scritta con precisione e ricchezza da Giuseppe Carrara in Storie a vista. Paragrafi densi, che ritagliano uno spazio ormai canonico alle immagini di Siti – tratte dall’Autopsia – che ritornano in uno dei racconti più emblematici di quest’ultima raccolta (definitiva? Non sarà che l’Ossessione, la pulsione, la bocca che vuol mangiare sé stessa, richiede continui aggiornamenti, richiede la propria “zombizzazione”? [«miti zombi» li chiama Siti nel libro]) – spazio non a caso immediatamente precedente a quello di un altro cultore italiano del feticcio, Michele Mari. Sussidiario per demoni e mostri (Scuola di demoni è il libro del 2019 che Carlo Mazza Galanti ha curato per minimum fax: Siti e Mari in dialogo tra loro sull’arte narrativa) che permette di leggere il Frankenstein dei simulacri dei due maggiori autori italiani contemporanei: in Siti l’ossessione per il feticcio ‘cosifica’ l’umano – tutto diviene merce – in Mari l’umano si reifica e l’ossessione scatta il primo piano all’oggetto.

La natura ecfrastica delle immagini sitiane è stata senz’altro un’eccedenza, ma la sua valenza dischiusiva, aprentesi all’epifania apocalittica, ovvero alla Rivelazione – via preferenziale già autorizzata dal saggio di Carrara – rimane ancora valida. E validante. La ierofania sitiana, còlta nella sferologia del bodybuilder, il culturista, cioè l’adoratore del culto (più che del Mito) del corpo, già «antropotecnica» come dice Sloterdijk (e ribadita poco tempo fa da Fabrizio Patriarca in Pumping Arnold) è ben poco legata alla natura statuaria, canoviana o semplicemente «kitsch» (in Sul nudo ossessivo nella fotografia: «nella foto kitsch un potere ha prevaricato sugli altri creando un imbarazzo […]. L’ossessione si è esposta in pubblico e ha dovuto auto-castrarsi per qualche censura o rispetto umano») delle raffigurazioni fotografiche – ovviamente inserite nella diegesi del testo e commentate dalle voci narranti che le ‘trattano’ – ma assai intrecciata con quel rapporto servo-padrone che da Hegel passa, attraverso Marx, nel fraseggio di Tutti i nomi di Ercole e che da lì si diparte in ramificazioni perfino celesti. «Sono convinto che non si può scrivere un romanzo, oggi, in Occidente, se non si sperimenta in proprio, e in profondità, il rapporto tra piacere e denaro (si riferisce naturalmente a Troppi paradisi, capolavoro irraggiunto del 2006).
E poi, naturalmente, il magistero pasoliniano, Corpus Christi che compare in uno dei racconti. A risentire oggi il sonoro del Pasolini-regista anni ’60, i cui film hanno retto meglio la prova del tempo rispetto ai romanzi, meglio emerge non solo la matrice mimetica di Siti, ritmico-timbrica eppure indissolubilmente legata alla consapevolezza ‘analisi del mondo’, ma si comprendono ancor meglio i nodi tra carnalità paradisiaca e quel rapporto così apparentemente materialista tra servo e padrone («anche per servire i padroni bisogna essere un po’ padroni»: La magnifica merce).

Ad ‘ascoltare’ oggi, ad esempio, La ricotta (1963), che oggi si offre allo spettatore/ascoltatore nella sua versione ritenuta perduta ma avventurosamente rinvenuta nei depositi doganali delle Ferrovie dello Stato e restaurata dalla Cineteca Nazionale, appare fin troppo esibito, ma in qualche modo paradigmatico, il rapporto che c’è – lì – fra Stracci, la ricotta e la Passione di Cristo e – in Siti – fra «l’ossessione erotica per un’immagine, un’icona, un fantasma» e «una forma di trascendenza laica» (ancora Carrara).
In qualche modo, dunque, il rapporto dialettico fra testo e immagine, da Autopsia di un’Ossessione sino a Tutti i nomi di Ercole, è epitome del rapporto tra servo e padrone, tra libertà e schiavitù, del nodo gramsciano fra egemonia e subalternità. Che ci sia un rapporto strettissimo fra carne-corpo e immagine – dunque, estetica come «fenomenologia del corpo» – lo dice Terry Eagleton in un contributo a un volume ‘insospettabile’, Comunismo necessario. Ma che il «comunismo del sensibile» non sia una evocazione dilettantesca è inscritto nella stessa storia dell’estetica e della sua fisiologia autenticamente vòlta alla riscrittura dei rapporti tra «generale e particolare», «attraverso cui quest’ultimo è semplicemente la libera, reciproca, partecipazione cooperativa di ogni specifico componente».
L’opera d’arte, dunque, come laboratorio politico per una vera repubblica, instaurato dagli Illuministi del XIX secolo. Da questo punto di vista, allora, il fototesto assurge a vero fondamento dell’opera, in senso ampio: dialettica dei poteri, bilanciamento degl’altrimenti invincibili rapporti tra servo e padrone (sempre Eagleton «Ciò che […] distingue un’etica socialista da una liberale è la mutualità o reciprocità»). Tutti i racconti di quest’altra magnifica ossessione raccontano sottili atti di ribellione, non foss’altro alla pubblica morale. Sono i racconti morali di un (im)moralista, o forse meglio di un moralista che sceglie la via batailleana alla sua morale. Qui l’ossessione di Siti per la sferologia (post)umana gioca allo scoperto, con le sue carte programmaticamente degradate: come, appunto, un set della Ricotta che sia esondato nella vita di tutti i giorni. La nostra società collosa è quella dove gli Stracci sono passati dal ruolo di comparsa a quello di protagonisti o dove, meglio, i ruoli di comparsa e protagonista si sono appiattiti nell’indistinto del ‘campo medio’ (nell’ultimissima edizione di Cannes, a maggio 2023, è stato presentato The Zone of Interest di Jonathan Glazer che, attraverso dispositivi di ripresa audiovisiva controllati da remoto, riprende la normalità di Aushwitz letteralmente senza primi piani sui personaggi, costruito solo su campi medi) e ora vale «un meccanismo più complicato, e più tenero, di quello normale di borgata secondo il quale si sfruttano cinicamente i froci perché li si disprezza».

E poi naturalmente c’è un altro nodo che va sciolto, che s’ingarbuglia con gli altri, ed è quello del “sacro”: «sentimento creaturale» di un Mysterium Tremendum, modello hegeliano dell’«uomo religioso [che] è al tempo stesso servo e signore»: egli è «nella forma laicizzata […] servo del capitale» (ancora Carrara). Dio-denaro, si dice nella vulgata. La merce, per troppa visibilità, per necessità d’esposizione spettacolare, acceca come un epifenomeno del numinoso.
Lo Spettacolo immagina la sintassi del contemporaneo: lattescente stage che conduce allo stremo intestinale i suoi nutricanti: dentro le sessioni di sceneggiatura del racconto All’alba una gallina c’è tutto il condensato desiderante – giacché quest’ultimo è il recto del racconto Sul nudo ossessivo nella fotografia, che ne offre il verso, ma la carta è sempre quella dei rapporti di egemonia-subalternità sempre contrappuntati, sempre gettati nel campo di battaglia – di questo grande autore morale, che non si lascia mancare l’occasione di scoprire il fianco al moralismo, come nell’appendice-intervista con Guia Soncini, come un concentrato di moralismo patinato, spin off tollerato, e anzi incoraggiato, dalle voci neoliberali dello Spettacolo. Il problema di Siti, semmai Siti avesse un problema, e quest’appendice lo lascia intuire, è che la sua capacità di aver creato un originale paradigma per l’interpretazione del contemporaneo – e da questo punto di vista le pagine di Giglioli sono chiare – dà il nulla osta a un andazzo letterario epigonale che non raggiunge la complessità delle sue pagine, ma che si presta a creare figli «mostruosi» nati da un «ventre morto», giacché egli è un «feto adulto» che si aggira «più moderno di ogni moderno» fra i primi «atti di un Dopostoria» ma non può avere compagni di viaggio.
Walter Siti
Tutti i nomi di Ercole. La magnifica merce e altri racconti
Rizzoli, 2023
pp. 360, € 15
Le immagini che accompagnano l’articolo sono tratte dal fototesto di Walter Siti Una prigione mobile, in Magnifica merce.
In copertina: Robert Mapplethorpe, Poppy, 1988, J. Paul Getty Trust and the Los Angeles County Museum of Art © Robert Mapplethorpe Foundation