Achille Funi è stato uno dei più grandi maestri dell’Accademia di Brera nel Novecento. Lo è stato non per la sua statura di artista, pur significativa, ma perché ha saputo educare tanti artisti. A Brera hanno insegnato pittori e scultori di valore assoluto, da Wildt a Carrà, da Marino Marini a Fabro, ma nessuno ha avuto tanti allievi di talento come lui. Ennio Morlotti, Valerio Adami, Giuseppe Ajmone, Cesare Peverelli, Gianni Dova, Roberto Crippa, Gianni Colombo, Davide Boriani, Grazia Varisco, Umberto Mariani, Attilio Forgioli, per citarne solo alcuni, hanno tutti studiato all’Accademia con Funi, e già la diversità delle loro ricerche conferma l’efficacia del suo insegnamento. Perché un maestro non è chi forma epigoni di se stesso, ma chi aiuta un giovane a diventare se stesso.
È indicativo, in questo senso, un episodio raccontato da Dino Buzzati. Nel giugno 1970 lo scrittore visita la mostra di Franca Fricker, una pittrice che era stata allieva di Funi. Nei suoi quadri, le dice, non c’è il minimo ricordo del maestro. “Può darsi – replica lei. – Ma Funi mi ha insegnato una cosa importantissima: la serietà nel lavoro.” Le fa eco, un quarto di secolo dopo, Valerio Adami: “Funi è stato un grande maestro: la finezza dell’intelligenza che ha saputo trasmettere non si riferisce al come fare dell’arte, ma al come leggere e vedere l’arte”.
Questo libro ripercorre le vicende e l’opera del pittore ferrarese accompagnandolo fino agli inizi della sua attività a Brera (dove dal 1940 al 1956, con qualche interruzione, ha insegnato la tecnica dell’affresco, dal 1944 al 1945 è stato direttore ad interim e dal 1957 al 1960 direttore) e spostando poi lo sguardo alla sua scuola. Funi (1890-1972) ha attraversato le principali correnti dell’arte italiana del secolo scorso. Dopo esordi segnati dalla pittura di Cesare Tallone, suo maestro a Brera, aderisce nel 1914 al gruppo astratto-futurista di “Nuove Tendenze” e quindi al futurismo. Nel primo dopoguerra avverte le suggestioni della metafisica e, dopo esiti che anticipano il realismo magico, nel 1922 è uno dei fondatori del “Novecento” (la maggiore espressione italiana del Ritorno all’ordine, insieme con “Valori Plastici”), mentre nel decennio successivo è uno dei protagonisti della rinascita dell’affresco.

Sulla sua pittura rimane fondamentale il catalogo ragionato dei dipinti e dei cartoni curato da Nicoletta Colombo nel 1996, cui anche qui abbiamo fatto riferimento. Tra i suoi scritti, oltre ai rari testi programmatici e polemici, quasi sempre occasionali, abbiamo attinto alla sua corrispondenza, soprattutto con Arturo Tosi, cui era profondamente legato, nonostante avesse quasi vent’anni meno di lui. “Funi fu il migliore amico del più anziano Tosi” testimonia Raffaellino De Grada.
Uomo di proverbiali silenzi e di vaste letture, il pittore ferrarese conosceva fin da giovane Omero, il De bello gallico e il De bello civili, le Storie di Tacito, la Vita di Cesare di Plutarco, Ariosto e Tasso, cui più tardi accosterà i filosofi presocratici, soprattutto Eraclito, i sofisti, l’Etica nicomachea e la Fisica di Aristotele, Nietzsche, il Poussin di Gide. “Un uomo senza cultura è un uomo morto. Se non fosse per le mie letture cosa sarei io, oggi?” dirà pochi anni prima di morire.
Nella sua pittura ha alternato esiti di grande intensità e bellezza, soprattutto nella stagione del realismo magico e del Novecento Italiano, a esiti minori e talvolta palesemente velleitari. Nelle sue opere più alte ha saputo però conciliare davvero magistralmente due caratteristiche a prima vista opposte: la concretezza di figure e cose e la narrazione di miti e leggende. Nei suoi quadri gli uomini esibiscono un corpo potente, le donne una figura ricolma, gli oggetti una evidente solidità. “Se non c’è la forma non c’è la vita” diceva. “L’unico problema dell’arte [è] lo studio ampio, energico della forma” scriveva nel 1934. E ai suoi allievi amava ripetere: “Quando avrete imparato l’anatomia del corpo umano, avrete imparato la geometria della vita”.
Con lo stesso “realismo” Funi dipingeva anche i personaggi della mitologia e della letteratura antica, infondendo in quei racconti immaginari la consistenza delle sue figure quotidiane o dei suoi paesaggi e, per contro, dando a uomini e donne la nobiltà dei protagonisti del mito. Tra una bagnante in Versilia e un’Afrodite al bagno, tra una modella in studio e una Rebecca al pozzo non vedeva differenze. Guardava l’esistenza di tutti i giorni con gli occhi della fantasia e, in modo uguale e contrario, considerava gli episodi fantastici come se appartenessero a quella che Saba chiamava “la calda vita di tutti”. Per indicare l’arrivo del bel tempo estivo, per esempio, poteva scrivere con naturalezza: “Il sole ti aiuterà perché Apollo è il generatore di tutte le arti ed il padre delle muse”. Il passato, per lui, era più vivo del presente.

Margherita Sarfatti, il critico che gli è stato più vicino e ha pubblicato la sua prima monografia, l’ha sempre paragonato a un frescante antico e, al di là dell’evidente disparità degli esiti, in parte aveva ragione perché Funi non ha mai dimenticato la lezione degli affreschi di Palazzo Schifanoia, nella sua Ferrara, dove i protagonisti della mitologia erano più reali della realtà. “La mitologia è più vera della storia, a meno che non sia storia romana” diceva.
Forse per questo ha saputo conservare la consapevolezza della magia della pittura, che ha guardato sempre con stupore. Come aveva dichiarato all’amica Myrtia Ciarlantini: “La pittura è un mistero […]. Grande, misteriosa cosa questo rendere le forme. Ci si è arrivati a poco a poco, per l’opera di generazioni, e adesso che ci siamo abituati non ci pare tanto, ma rimane sempre un fatto magico”.
Elena Pontiggia
Achille Funi. Un maestro di Brera
Libri Scheiwiller, 2023
pp. 176, € 22,90
È stato qui riproposto, per gentile concessione di editore e autrice, un estratto dell’introduzione della bella monografia su Achille Funi di Elena Pontiggia.
In copertina: Achille Funi, La terra, 1921 (particolare)