La libertà e l’impegno. Dondero e Deflorian

22/06/2023

Esistono alcune regole di base del giornalismo culturale. Una di queste è che ogni articolo deve essere dedicato a un libro, uno spettacolo, una mostra o, usiamo il terribile sintagma, un evento. Come tutte le regole anche questa ha più di una ragion d’essere, la principale delle quali è la priorità di informare, in modo ordinato, i lettori sull’ “offerta culturale” più recente. Eppure, ci sono occasioni in cui le regole possono, se non devono, essere trasgredite, ovviamente, esponendosi al rischio di una certa sovrapposizione di piani, se non confusione.

Mi pare che la lettura della monografia, appena pubblicata, che Rossella Menna ha dedicato a Daria Deflorian, e la visione della mostra consacrata a Mario Dondero – appena inaugurata a Palazzo Reale di Milano – siano una invitante occasione trasgressiva proprio perché libro e mostra si illuminano l’uno con l’altra, seppur nella distanza che separa i loro formati e i due loro protagonisti, tanto nello spazio quanto nel tempo.

Mario Dondero, seconda metà degli anni sessanta

Percorrendo le sale in cui è ospitata la retrospettiva La libertà e l’impegno, le immagini scattate da Dondero dagli anni cinquanta sino al primo decennio del nuovo millennio mostrano un mondo per molti versi scomparso, punteggiato da un’umanità semplice, spesso toccata dalla povertà, ma estremamente fiera, dignitosa, vitale, sognatrice. I volti dei tanti protagonisti della cultura di quegli anni (da Pier Paolo Pasolini a Carla Fracci, passando per tutti i maggiori interpreti di quella stagione), frammisti agli anonimi protagonisti di un popolo alla ricerca di una propria nuova identità in una società in rapido mutamento, tratteggiano il ritratto di un’epoca. D’altronde, Dondero è noto come uno dei più grandi “ritrattisti” del secondo novecento, non tanto e non solo per la sua capacità di cogliere uno sguardo, una fisionomia, un’identità nei tanti volti che ha incrociato, ma, in modo ancor più radicale, proprio perché ha saputo comporre un ritratto storico, un antimonumentale ritratto d’insieme.

Mario Dondero, La ballerina Carla Fracci, Londra, 1961

Le sue fotografie, in questo senso, non dovrebbero essere guardate singolarmente (benché la qualità dei singoli fotogrammi sia spesso eccelsa), ma come un insieme, in quanto è esattamente nella loro composizione corale che assumono il loro vero significato, rinviando le une alle altre con un ritmo visivo martellante. Alla luce di questo iconismo corale e coreutico, la grande retrospettiva milanese assume una particolare importanza e merita una o più visite (l’ingresso è, con slancio civile, gratuito), tanto per chi quell’epoca del mondo l’ha vissuta (vi si riconoscerà sicuramente) quanto per chi non l’ha vissuta (comprenderà quanto la storia travolga e faccia scomparire ogni cosa, in un batter di ciglia).

Mario Dondero, Laura Betti, attrice e cantante, Roma 1963

Analoga sensazione, almeno per chi qui cerca di renderne conto, è quella suscitata dalla lettura del bel libro di Rossella Menna su Daria Deflorian, figura, per molti versi, centrale, nella sua protratta marginalità, del teatro italiano dell’ultimo trentennio. Il titolo del libro a lei dedicato è Qualcosa di sé. Ed è, senza dubbio, avvincente seguire l’evoluzione del Sé di questa straordinaria donna di teatro, attrice sarebbe davvero riduttivo, dalla sua infanzia ai giorni nostri, in un racconto, spesso avvincente, anche grazie ai molti ricordi e alle ricostruzioni retrospettive della sua protagonista che inframmezzano la scrittura brillante di Menna. Ma il volume – da qui il suo vero interesse – dice molto più di qualcosa di quel sé; racconta qualcosa di noi, di una o più generazioni che hanno mosso i propri passi nell’Italia che va dagli anni ottanta ad oggi. Un’Italia, quella in cui si è trovata Deflorian, che, consapevole della scomparsa progressiva ma ineluttabile di quella appena precedente, quella fotografata da Dondero, cerca una propria via culturale in una società che, altrettanto inesorabilmente, sta trasformando la cultura – quella cultura vitale, autentica e un po’ stracciona che appare nelle immagini in bianco e nero della mostra milanese – in un informe contenitore, governato dalle leggi del marketing. È un’Italia, quella che si snoda dai primi anni del post-settantasette fino ai primi del duemila, in cui, in modo sistematico, si persegue, spesso con entusiasmi di rinnovamento e svecchiamento, la disintegrazione della ricerca a scapito di un omogeneizzante e insapore prodotto di midcult, al motto di basta snobismi e discorsi da intellettuali, largo ai fenomeni della cultura globalizzata, alle nuove industrie del divertimento, ai curatori dj, alla postproduzione senza creazione, alle classifiche, alla circuitizzazione! I gusti del pubblico (pagante) prima di tutto!

Daria Deflorian a Roma, fine anni ’80, davanti all’ingresso di Dark Camera (ora Teatro Furio Camillo); foto di Serafino Amato.

La traiettoria di Deflorian, tutti i suoi reiterati inizi, le sue cadute, i suoi sviamenti, le sue ricerche di altre dimensioni di senso, gli spettacoli autoprodotti, gli incontri negli spazi autogestiti, i lavoretti, i lavori alimentari, la fatica e ancora la fatica, sono l’emblema di una generazione che si dibatteva tra figure materne e paterne (per lei, ad esempio, Bachmann e Pasolini) ormai scomparse e apparentemente irripetibili e l’affermarsi di un berlusconismo, anche culturale o anti-culturale, che poneva chiunque volesse fare della seria ricerca in posizioni di marginalità assoluta. Deflorian – come in altre direzioni, chi un po’ prima chi un po’ dopo, Mariangela Gualtieri, Chiara Guidi, Claudia Castellucci, Ermanna Montanari, Silvia Rampelli, per non fare che alcuni nomi e per fermarci alla straordinaria ondata di teatro italiano al femminile di questi anni, così ben documentata, nell’ultimo decennio, dallo sguardo editoriale attento di Luca Sossella – ha aperto delle possibilità, dei luoghi di ascolto, di attenzione al reale che il mondo plastificato degli ultimi quarant’anni tendeva a occultare, a camuffare dietro a filtri in cui i singoli volti si uniformavano a un volto comune, di tutti e di nessuno, su cui il tempo non lasciava alcun segno. Deflorian ha fatto un teatro di narrazione – partendo, spesso, dal proprio sé – ma esclusivamente alla ricerca di uno “spettacolo” che fosse espressione della realtà. Una ricerca teatrale, la sua, fondata sull’“amore per gli altri, per qualcuno che non rientra in una mitologia, qualcuno che magari incroci nell’autobus e se ne sta andando al lavoro, per l’essere umano che non fa grandi apparizioni sul palcoscenico della vita ma ha una sua luce che devi saper riconoscere”.

Daria Deflorian, tentativo di book fotografico, data incerta; foto di Elena D’Agostino

Ed è proprio di questa capacità di dar conto del reale, degli entusiasmi che fanno andare avanti e delle sconfitte che lasciano senza forze, della gioia di vivere e della pena di vivere, del coraggio e delle paure, della forza e delle debolezze che il teatro di Daria Deflorian e le fotografie di Mario Dondero offrono una narrazione, un racconto, per parole e immagini. Non c’è alcuna differenza qualitativa tra questi due gesti, allo stesso tempo, così limpidi, così liberi e così impegnati. Forse, è proprio da qui, da una rinnovata capacità di incrociare gli sguardi e le parole, il tempo che non c’è più e quello a venire, le vite di coloro che ci hanno insegnato la dignità e la miseria quotidiana che ognuno di noi deve affrontare per mantenere quella dignità; forse è proprio incrociando il sorriso triste di Deflorian e quello serio di Dondero, in questa bellezza triste, che si dà ancora e per sempre un senso, il senso di un mondo che continua a soccombere ma non smette di rinascere.

Mario Dondero. La libertà e l’impegno
a cura di Raffaella Perna
Palazzo Reale, Milano
21 giugno – 6 settembre 2023
ingresso gratuito

Rossella Menna
Qualcosa di sé. Daria Deflorian e il suo teatro
Luca Sossella editore, 2023
pp. 252, €16

In copertina: Mario Dondero, Santa Vergine a Valencina de la Concepción, Siviglia, 1961

Federico Ferrari

(Milano, 1969). Insegna Filosofia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra i suoi ultimi libri: “L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine” (Johan & Levi, 2013), “L’anarca” (Mimesis, 2014; 2a ed. Sossella, 2023), “Oscillazioni” (SE, 2016), “Il silenzio dell'arte” (Sossella, 2021) e, con Jean-Luc Nancy, “Estasi” (Sossella, 2022).

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