Le architetture dell’obbedienza. Su Didi-Huberman

19/06/2023

Georges Didi-Huberman è un intellettuale instancabile. La sua produzione è vasta e lo spettro delle sue ricerche è ampio e articolato: si muove, di volta in volta, su piani diversi con un’andatura unica capace di condurre sempre più lontano, per trovare, in quel lontano, una vicinanza che ci riguardi e ci tocchi. Lo spazio che si crea è uno spazio di gioco, di libertà. Didi-Huberman riesce a vedere, nel nero, non un buio che divora, ma lo spazio ancora increato in cui le cose si generano; sa che negli interstizi che separano le cose nel tempo e nello spazio, esistono legami stretti che si sottraggono alla vista e alla conoscenza, ma che appaiono a chi continua a custodire per sé la libertà di giocare e di sperimentare, a chi si concede ancora, prima di capire, la possibilità di sentire e a chi, instancabilmente, come bambini – o come veri filosofi – si chiede perché o, meglio, per che.

Per che obbedire? (Pour Quoi Obéir?) è il titolo della “piccola conferenza” che Georges Didi-Huberman ha tenuto presso il Nouveau Théâtre di Montreuil il 16 ottobre 2021 e che, in questi giorni, esce in italiano per Luca Sossella Editore, a cura di Maria Nadotti. La conferenza di Didi-Huberman fa parte del ciclo “Les petites conférences” organizzato e diretto da Gilberte Tsaï che, di volta in volta, affida a voci autorevoli del mondo culturale francese il compito di tenere una lezione che ha una caratteristica peculiare: il pubblico delle conferenze, infatti, è composto da ragazze e ragazzi dai dieci ai quindici anni di età e l’unica regola del gioco è che gli oratori si rivolgano davvero a loro «in un movimento di amicizia che attraversa le generazioni»[1].

Georges Didi-Huberman sceglie di parlare ai ragazzi della possibilità di ciascuno di rivendicare lo spazio decisionale che c’è tra l’obbedienza cieca e la disobbedienza gratuita; ma anche del confine, spesso labile, tra un ordine comprensibile e necessario e un ordine totalmente arbitrario; come pure dell’importanza di conservare, preservare ed esercitare sempre un atteggiamento critico nei confronti di ciò che ci viene imposto – direttamente o indirettamente – e, infine, di quanto sia importante non obbedire mai ciecamente, quanto sia fondamentale avere il coraggio di dire no, preferirei di no. Parla di fronte ai ragazzi, si tende verso di loro in un sincero movimento di reciprocità: la lezione prende le mosse dalle immagini e dai racconti del periodo nazifascista che hanno segnato la sua infanzia e che continuano, ancora oggi, a essere oggetto della sua riflessione. Procede per snodi visivi e argomentativi ed esempi reali mostrando i nessi causali – spesso nascosti o dimenticati – che ci sono tra gli eventi della storia e gli effetti che ci colpiscono direttamente. Quel periodo può apparire passato ma, di fatto, non è sorpassato: «c’è di quest’epoca tumultuosa un numero impressionante di residui, di rigurgiti, di continuità nel nostro mondo attuale»[2] ed è più che mai necessario seguirne i fili nascosti, le tracce e le impronte, gli spostamenti linguistici, i lacerti visuali e le appropriazioni sotterranee di alcune forme di bieco assoggettamento che, a partire da lì, vengono perpetrate, oggi, con gli stessi fini, con diverse parole, con le stesse strutture.

L’obbedienza, infatti, è reticolare, forma vere e proprie architetture, gerarchie, in cui la responsabilità delle azioni compiute viene così diluita da dissolversi. E, quando l’assoggettamento è tale da spingere a rinunciare alla capacità di pensare, quando l’obbedienza è così cieca da indurre ad abdicare all’umano sentire, quando la fascinazione diventa giogo, allora c’è il rischio di vivere, disumani, nella barbarie: «che sia dunque un regime liberale o un regime dittatoriale, la sottomissione cieca all’autorità porta alle peggiori cose»[3].

Ogni snodo della lezione è occupato da immagini attraverso cui Didi-Huberman non solo fa vedere gli effetti disastrosi che si ottengono quando si smette di chiedersi il per che – in vista di che cosa – ci chiedano di obbedire, ma ci mostra anche, in filigrana, quanto sia impercettibile ma tenace il legame che c’è tra uno sguardo asservito e spento e l’obbedienza e, dunque, quanto sia importante allenare lo sguardo e allargare il proprio punto di vista.

La radice latina di osservare, observare etimologicamente rimanda all’adeguarsi a, al conformarsi: si osservano le immagini ma si osservano anche le regole, i codici, le pratiche. L’osservare si schiaccia sull’osservanza. Si tratta sempre dell’azione del vedere ma lo sguardo che osserva è uno sguardo chiuso dentro una serie limitata di possibilità, inquadrato dentro un sistema di convenzioni e limitazioni che lo rendono passivo e inoffensivo. L’obbedienza incondizionata è legata a doppio filo a uno sguardo che solamente osserva e riceve.

Uno sguardo simile connota l’epoca attuale: si vive un eterno presente senza passato e senza futuro in cui l’atteggiamento da osservare più frequentato e richiesto è quello di cogliere soltanto l’attimo frontale degli eventi senza bisogno di sapere cosa è stato, cosa sarà: da dove vengono le immagini e le parole, dove si sono formate, a quali condizioni, con che diritto; dove andranno, che fine faranno, che conseguenze avranno. Ciò è testimoniato non soltanto dal continuo, quotidiano, inesorabile sciabordio anonimo e monotono della produzione, moltiplicazione dei segni e delle immagini, ma anche e soprattutto dalla natura del loro incondizionato proliferare, dalla loro capacità di subordinare la vita, influenzare i pensieri, orientare i gusti, le scelte e, in fin dei conti, portare a compimento il processo di disancoramento tra diversi piani: immagine/visibilità/realtà – segni/leggibilità/realtà. È pacifico che in questo processo ogni responsabilità individuale è polverizzata; è altresì ben chiaro che nulla di ciò che accade è segreto: tutto avviene nella luminosità più chiara, sotto i nostri occhi, attraverso i nostri occhi, le nostre parole, le nostre azioni o non azioni.

«Il mondo libero in cui attualmente viviamo non è poi così libero. È fatto anche di certe costrizioni e di certi controlli che tendiamo a non riconoscere più, tanto ci siamo abituati»[4]. Didi-Huberman, al termine della piccola conferenza, con esempi concreti, smonta due delle architetture dell’obbedienza più granitiche che informano, oggi, le vite di ciascuno: da un lato il mito della gestione che – quando smette di essere un mezzo attraverso cui migliorare l’organizzazione delle società e diventa, come sempre più spesso accade, un fine in sé, quando «il mondo del potere e del rendimento economico diventa la nostra sola realtà naturale»[5] – rende tutta la nostra esistenza una vita offesa, umiliata, asservita, infelice; dall’altro l’onnipervasiva promozione che declassa il desiderio a mero bisogno e annienta la capacità di muoverci insieme e di costruire qualcosa in un insieme: «è un governo di industriali a decidere in anticipo quel che è bene o non per la società – e ci accorgiamo che “quel che è bene” per tutti lo è soprattutto per le imprese medesime»[6].

Come se l’assiomatica del denaro nel mondo globalizzato e capitalizzato ci imprigionasse nella doppia cattura del parlare, che si riduce a una maniera di rilanciare e di trasmettere sempre le stesse parole d’ordine della gestione e della promozione; e del vedere che, ristretto al solo osservare a partire dal proprio, parziale, punto di vista, diventa escludere, relegare, omologare, quindi produrre ciò che qualcun altro reputa bene per ciascuno di noi. «Dove la costrizione è ormai chiamata controllo, e dove l’emozione è ormai chiamata promozione»[7] si ha la sensazione di partecipare a un gioco in cui si può scegliere ma non si possono scegliere i termini della scelta.

Eppure basterebbe allargare lo sguardo, trasformare la passività dell’osservare nel ben più rivoluzionario guardare. Basterebbe, forse, guardare. L’etimologia di questo verbo è sorprendente, restituisce consistenza a un’azione troppo spesso svilita: guardare ha in sé il vigilare, il vegliare, l’avere cura, il conservare, il custodire, il difendere. Chi guarda sta in allerta: solo in questa condizione sono possibili incontri che avvengono come fossero agguati d’amore, con stupore, meraviglia, con l’indicibile emozione di esser finalmente trascinati fuori di sé, fuori dalle nostre piccole interiorità. Chi guarda, agisce, sceglie.

«Non bisogna obbedire ciecamente […] bisogna aprire gli occhi, giudicare con la propria testa, riconoscere e analizzare ciò a cui è bene o male obbedire»[8]: chi guarda e sceglie di agire può decidere di non obbedire, di lasciare vuoti i perni e intaccare le strutture che sostengono le architetture dell’obbedienza. Disobbedire, allora, è sottrarsi, costringendo la grigia e presunta universalità della legge a manifestarsi proprio in quello spazio vuoto che si è appena abbandonato, rendendola finalmente visibile. Fare il vuoto. Se obbedire ha come radice il prestare ascolto, allora disobbedire è lasciare che gli ordini si propaghino, soli, in quel vuoto, senza nessun orecchio che ascolti, senza ostacoli che li assorbano o specchi che li moltiplichino.

Chi guarda custodisce la facoltà così umana di emozionarsi, imparando a discernere la natura delle proprie emozioni, allargandole a ciò che prima non si vedeva. È un fatto etico prima ancora che politico porsi nel mezzo tra l’emozione e la comprensione: si obbedisce ciecamente quando le emozioni vengono risucchiate e private di ogni spontaneità e libertà. Quando vengono, in sostanza, negate, quando si diventa insensibili e il mondo si rimpicciolisce e si staglia, grigio su grigio, su un orizzonte piccolo, perché ha perso i colori della vita.

I ragazzi che assistono alla conferenza sono esseri in divenire e, proprio per questo, è importante che fin da subito inizino a costruirsi la propria libertà, il proprio spirito critico; è importante che imparino a conoscere e discernere, prendere posizione, partecipare, emozionarsi, aprirsi al mondo e alla scelta. È proprio qui che Georges Didi-Huberman fa segno verso il movimento di amicizia che attraversa le generazioni: se il divenire è una forza vitale che anima i ragazzi, è fondamentale, allora, che si crei una stretta alleanza nella quale anche gli adulti possano ritrovare l’infanzia di un mondo illimitato, non dimenticando il proprio, vitale divenire-bambino che, incessantemente, rinnova lo sguardo, che inventa mondi e linee di fuga quando l’aria si fa irrespirabile e che, allargando l’emozione, lo sguardo, il punto di vista, la conoscenza, ci permette ancora di giocare. E giocare è resistere all’obbedienza cieca, all’umiliazione, all’offesa, all’ingiustizia, all’infelicità.

Georges Didi-Huberman
Per che obbedire?
Cura e traduzione di Maria Nadotti
Luca Sossella Editore, 2023
pp. 96, € 10

In copertina: un fotogramma dal film Pink Floyd, The Wall (1982)


[1] G. Didi-Huberman, Per che obbedire?, a cura di Maria Nadotti, Luca Sossella Editore, Roma, 2023, p. 7;

[2] Ivi, p. 40;

[3] Ivi, p. 43;

[4] Ibid.;

[5] Ivi, p. 45;

[6] Ivi, p. 54;

[7] Ivi, p. 56;

[8] Ivi, pp. 56-57.

Guido Mannucci

Nato ad Atri (TE) nel 1988, attualmente lavora e studia a Milano.
Si laurea in Filosofia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, si specializza in seguito in Estetica e Teorie dell’Immagine presso l’Università Statale di Milano. È attualmente studente del corso “Visual Studies” presso l’Accademia di Belle Arti di Brera.
È regista teatrale, dramaturg, musicista e sound designer. La sua ricerca nel performativo si concentra sulle modalità di costruzione dell’immagine nell’ambito delle arti performative, sull’interazione transmediale del visivo e sui meccanismi interni alla relazione tra immagine e canone dello sguardo. Nel 2016 è tra i fondatori di Compagnia La Lucina, realtà attiva nelle arti performative, nel teatro e nella danza contemporanea.

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