Aliud verbis, aliud sensu, scrive Quintiliano, quando spiega che l’allegoria consiste nel dire “una cosa con le parole e un’altra con le idee sottintese” (la traduzione è presa qui a prestito dal manuale di Bice Mortara Garavelli). Il cinema di Marco Bellocchio allegoreggia. Ovviamente narra quanto pare narrare, ma in modo nobilmente servile. Succede anche quando dà l’impressione che narrare sia la sua intenzione principale. Suoi film degli ultimi anni hanno in effetti preso spunto da fatti storici o di cronaca, recenti e meno recenti, sempre piuttosto controversi. In proposito, esemplare Il traditore del 2019, sulla vicenda del mafioso Tommaso Buscetta, che declina una prospettiva originale già nel titolo: un’antonomasia evangelicamente allusiva. Lì si trova in effetti l’emblema millenario del tradimento.
Dietro simili scelte ci sono forse anche esigenze commerciali. Lo lascia sospettare l’ancora più fresco Esterno notte, ibrido tra serie televisiva e opera cinematografica in due lunghe puntate, sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Alla vicenda e al tema della vittima sacrificale, osservati da diversi punti di vista, Bellocchio s’era d’altra parte già accostato da diversa prospettiva, quella del carnefice, con Buongiorno, notte, film del 2003.
C’è certo e in correlazione però, in un regista ultra-ottantenne ma dallo spirito vivacissimo, anche la volontà di rivolgersi a un pubblico diverso del suo tradizionale e di elezione, in via di ineluttabile scomparsa. Un pubblico almeno parzialmente nuovo, quindi, da attirare in sala o davanti il televisore con l’esca di temi che hanno avuto eco o potrebbero averla nella platea oggi non troppo raffinata (se non proprio grossolana) della comunicazione pubblica, nelle sue molteplici declinazioni.
Anche nei casi più apertamente accattivanti, il narrato storico o di cronaca delle pellicole di Bellocchio resta tuttavia un pretesto per l’impianto concettuale delle sue opere. In altre parole, è un accidente a partire dal quale il regista fa ciò che più lo ispira e gli preme come artista, fin dal suo esordio molto giovanile: proporre riflessioni morali e apologhi e farlo cinematograficamente, cioè tessendo immagini, luci, dialoghi lungo la dimensione temporale.
Quanto al contenuto, corrispettivo della forma cinematografica sono l’interrogazione morale e il dubbio esistenziale, ambedue radicali nel loro ancoraggio antropologico, psicologico e sociologico. E la borghesia, come si sa, è l’ambito sociale di accanita disamina di Bellocchio, con la famiglia come suo istituto cruciale.
In ciò si riverbera la sua personale, meglio, interiore esperienza di vita, in modo più o meno mediato; in alcuni casi, con lampante immediatezza. Da qui, la persistente presenza di un retroterra facilmente qualificabile come psicoanalitico nel suo cinema; per paradosso artistico, non da cercare nel profondo, però. Al contrario, subito chiaro, come sfondo, e da sempre dichiarato apertamente.
L’allegoria, si diceva, è dunque il tratto caratterizzante della produzione di Bellocchio e sintonizzarsi con essa impone che se ne colga la variabile e polisemica lunghezza d’onda. È quanto si prova a fare in queste righe a proposito di Rapito, senza pretesa di completezza né di sistematicità. C’è anzitutto da notare allora la polisemia del titolo: è una chiave di ingresso alla pellicola.

Rapito si dice di chi è vittima di un atto di violenza che lo priva della libertà e lo porta via dal suo ambiente. È quanto accadde al bimbo Edgardo Mortara, a Bologna nel 1858, narra il film, prendendo spunto da una storia vera, da allora riapparsa di tanto in tanto sull’orizzonte della comunicazione pubblica. Il piccolo Mortara fu strappato alla sua famiglia ebrea ed osservante dall’amministrazione pontificia della città, in particolare per ordine dell’inquisitore Pier Gaetano Feletti. Costui aveva appreso infatti che sei anni prima il bambino era stato furtivamente battezzato da una serva di casa ed era dunque cristiano. Edgardo fu così condotto a Roma e alloggiato nella Casa dei Catecumeni, il collegio destinato ai convertiti dalle altre fedi monoteiste. Lì fu avviato a essere formato (o riformato) secondo una rigida educazione cattolica, per esplicito e diretto volere di papa Pio IX. Non sortirono effetto gli sforzi della famiglia e della comunità ebraica, persino di quella internazionale mossasi nell’occasione per porre rimedio a un atto che parve vessatorio e che suscitò all’epoca un’eco vastissima, con riprovazione da parte dell’opinione pubblica laicista.
Rapito si dice però anche di chi è attratto da qualcosa che ammalia, che affascina, che incanta tanto da farsi dimentico di sé e da vivere una sorta di estasi. Ed è di nuovo questo che il film narra sia accaduto a Edgardo. Anzi lo (di)mostra, come spetta a un’opera cinematografica.
La pellicola, ha osservato Flavio De Bernardinis su MicroMega on line, si caratterizza per un’atmosfera di permanente penombra, a tratti di oscurità. Essa è figura di un contesto storico e ideologico tutt’altro che illuminato, naturalmente: gli anni della nascita di uno stato nazionale italiano e della correlata fine del potere temporale della Chiesa. Ebbene, in un’atmosfera siffatta, ma, va detto, mai tenebrosa e inquietante, il bambino passa dagli interni borghesi della sua casa famigliare e dei relativi riti, insomma passa dagli spazi semplici, ordinati e strettamente privati della sua apparizione nel mondo, alla ampiezza allusiva di ecumenicità e alla cura artistica degli edifici romani dal gusto architettonico post-tridentino in cui la vicenda lo proietta. Sono tali infatti non solo quelli del culto pubblico ma anche quelli del potere temporale pontificio in cui il film inscena la sua storia. In un simile contesto, Edgardo si divezza in effetti dei primi e, crescendo, diviene così non solo un fedele della Chiesa romana, ma un suo giovane chierico convinto e militante.
Durante il percorso della sua formazione, il personaggio non manca di dare prova, sulle prime, di un anelito disperato al ritorno tra le braccia materne. Nel film, se ne fa appunto occasione un incontro con la madre che, concesso dagli istitutori del bambino, finisce per svilupparsi tempestosamente. Più avanti e quando la sua formazione si avvia a compiersi o si è definitivamente compiuta, egli non manca d’altra parte di dare prova di pulsioni di un’aggressività repressa e di un’intima avversione nei confronti dell’uomo che così lo ha determinato: il papa. Sentimenti tanto coinvolgenti e tanto divergenti sono ineluttabilmente ambigui, nelle loro manifestazioni.
Nel film non ci sono però buoni e cattivi e l’opera non fomenta in proposito la ricerca di una distinzione, soprattutto se tale ricerca è alimentata da pregiudizi ideologici, come capitava un tempo, o da rabbiosi sentimentalismi, come capita adesso. Invita anzi chi eventualmente nutrisse ambedue a provare a sospenderli, se non a trascenderli.
Chi assiste non è chiamato a dire, tanto meno a dirsi chi, tra i personaggi sulla scena, tanto meno tra le persone che ispirano tali personaggi, abbia (avuto) ragione e chi torto. E se la narrazione incrocia, come certamente incrocia, qualche inclinazione dello spettatore non necessariamente commendevole in proposito, in altre parole qualche concessione al fanatismo, assistere a Rapito si candida come occasione per una catarsi.
A margine, ma senza uscire dal tema: sul mercato internazionale, la pellicola porta un titolo in inglese: Kidnapped. Esso riprende l’impostazione (e i titoli) che la stampa anglosassone dell’epoca diede ai resoconti di una vicenda che, come si è detto, fece scalpore in tutto il mondo. Quella stampa non aveva in simpatia la Chiesa di Roma, per adoperare una litote, ed è superfluo specificare come mai. Vi si pubblicavano per esempio vignette in cui si vedeva un losco Pio IX caricaturale fuggire concitatamente, spalleggiato da compari in tonaca, mentre porta via un bambino tra le braccia.
Kidnapped non rende quindi conto della polisemia di Rapito, perché rappresenta un punto di vista. E c’è da temere che ciò oscuri di riflesso il perlomeno duplice valore del titolo italiano anche presso chi sarebbe messo in grado di coglierlo dal possesso della lingua in cui il film è stato concepito. Il titolo di lavorazione del film, si osservi, suonava La conversione, anch’esso bello, ma meno apertamente polisemico e ritenuto evidentemente di minore impatto sul pubblico.
I riflessi della presentazione del film a Cannes, qualche settimana fa, sono stati rappresentativi di un simile appiattimento, come quelli delle prime settimane di programmazione nelle sale. Per reazione maggioritaria, Rapito è stato infatti letto come valesse unicamente ‘kidnapped’. E, non paradossale testimonianza di una coda di paglia o del bruciore di una ferita ancora aperta, tra i cattolici c’è stato anche chi ha pensato fosse il caso di precisare che la Chiesa di Roma non è oggi quella della metà dell’Ottocento, quale essa emergerebbe dalla pellicola.
Quasi la cosa non fosse palmare sotto tutti i rispetti e (lo si precisa, a scanso di equivoci) da una prospettiva laica non si potesse in proposito commentare una siffatta presa di distanza con un paradossale e rammaricato “Purtroppo!”. È il rammarico che, non per celia, il film esprime con quanto, verso la conclusione, dice con affranto cinismo il cardinale Giacomo Antonelli. Sotto un cielo plumbeo e con stordente fracasso, il cannone del Regno d’Italia ha aperto la Breccia di Porta Pia: Antonelli, segretario di stato di Pio IX, profetizza allora ad alta voce un capo della Chiesa privato da lì in avanti dello scettro e del Triregno; quindi, per sineddoche, una Chiesa privata di ciò che fino ad allora era valso a rapire, in ambedue i valori disponibili per il verbo: certo, portare via con forza autoritaria, ma anche affascinare ed estasiare.
È impossibile oggi negare che sia andata proprio così. Lo si veda come un bene o come un male, poco importa. Non c’è potere che non sia figura in terra del potere dell’Onnipotente, appunto. Della Chiesa di Roma cominciarono a farsi evanescenti i segni del potere terreno e la si vide costretta a difendere, nascondendoli, i suoi residui tesori: udendo la fosca profezia del cardinale, il Pio IX del film esorta Antonelli a provvedere in proposito di gran carriera, a pensare al sodo, smettendo di strologare.
In effetti, impallidendosi l’immagine del suo potere temporale, la Chiesa di Roma non si è fatta più spirituale. Si è fatta più mondana. E, mettendo in scena una vicenda che marcò gli anni estremi dell’ultimo papa re, il film lo mostra per contrasto. Non si può dire infatti che Rapito non alluda all’evangelico Sinite parvulos venire ad me. Ma da una prospettiva corrente, capita addirittura che un invito siffatto e dall’espressione ormai oscura, lungi dal farsi motto del pertinace intento della Chiesa di curare e formare le anime sin dall’infanzia, rischi di precipitare, in cronaca, nell’abisso di raccapriccianti casi di individuali pedofilie. A tali morbosità, Rapito appunto né allude né indulge, rispettoso della vicenda storica e del contesto morale in cui essa ebbe il suo sviluppo.
Ci sono due lingue, nel film, a determinare per figura il netto confine tra due mondi. Due codici rituali, per la precisione. Da un lato, c’è l’ebraico dei riti famigliari, la lingua che la madre, di nome Marianna, raccomanda a Edgardo di non abbandonare giammai nella sua preghiera della sera: Shemà Israel… Dall’altro, c’è invece il latino della Chiesa di Roma e del papa, cui il bambino viene progressivamente accostumato dagli istitutori, una volta condotto nella sua nuova casa, una casa collettiva.
Questi lo invitano a non preoccuparsi sul principio dell’oscurità di tale espressione rituale. La comprensione sarà infatti una delle conseguenze ultime, se vi sarà, del perfezionamento etico e teoretico del rapimento. Non si viene rapiti infatti (né forse istruiti) da ciò che si capisce. Con il tempo, si capisce piuttosto o forse solo si intuisce ciò da cui si è stati rapiti (e istruiti).

Nessuno dei due codici esposti in Rapito, si osservi, è una lingua parlata fuori del rito: ambedue stanno al di là del tempo (così perlomeno pretendono). Ed è un bel paradosso che, per mero accidente, una persona che non ne padroneggia nessuno faccia da inciampo. Anna Morisi, la serva di casa Mortara che ha molto alla buona impartito il sacramento al bambino in culla, si esprime in dialetto: una varietà tutt’altro che rituale ed estranea a una norma. Per opera sua, due codici ultra-temporali e che si prospettano come assoluti entrano in un corto circuito che provoca il grande incendio.
Per l’inquisitore Pier Gaetano Feletti, quel battesimo, pur approssimativo nelle forme, ha fatto di Edgardo un cristiano. Ne ha fatto conseguentemente un’anima da salvare, sottraendola a chi non crede in Cristo e, senza l’intervento della Chiesa, la destinerebbe alla perdizione. Ma a spingere la donna al gesto era stata appunto l’incomprensione di un rito. Aveva creduto fosse rito correlato a una prevedibile e prossima morte della creatura, rito accompagnato da espressioni appunto arcane, quello che aveva intravisto e udito i due genitori celebrare accanto alla sua culla. Sotto l’impressione di chiacchiere intrattenute con un pizzicagnolo, s’era determinata a ricorrere al furtivo battesimo per sottrarre al Limbo l’anima del bimbo, a suo modo di vedere, in procinto di morire. Una pratica concessa dalla Chiesa.
Rappresentate dai due codici linguistici rituali, per Edgardo ci sono quindi da un lato la norma e l’ordine materni, dall’altro la norma e l’ordine del papa. O del padre, come va forse meglio detto, a questo punto, e come del resto il costrutto del film rende presto palese.
Nel corso della vicenda che investe il bimbo e la sua famiglia, Salomone Mortara, della relazione che lo lega al figlio, esibisce nella pellicola i tratti di una dolcezza affettiva, con correlata inclinazione alla ricerca di un compromesso con chi vuole allontanarlo, più di quelli della forza e della determinazione richiestigli invece dalla moglie.
Come personaggio, Salomone è figura di babbo (o di papà), non di padre. C’è anche un dettaglio onomastico a rivelarne l’attitudine. Egli è Momolo frequentemente nei dialoghi della pellicola. È in altre parole appellato e designato con un vezzeggiativo infantile: ed è il solo. Se, nella storia, la persona di Momolo Mortara fu il padre a tutti gli effetti di Edgardo, nella finzione cinematografica il personaggio che le si ispira vale da arrendevole padre putativo ebreo.
Fino in fondo, a fare invece da paradossale scudo formale alla sacralità infrangibile del rito materno, è piuttosto Riccardo, il fratello maggiore di Edgardo. Ed è così che, passati una dozzina di anni dal rapimento e giunto il 20 settembre 1870, Riccardo, bersagliere del Re e partecipe della presa di Roma, procura al giovane allontanato dalla famiglia l’opportunità di riconquistare la sua libertà o, meglio, di ripristinarsi nella sua identità originaria e infantile. Ma Edgardo, ormai pienamente rapito, conferma con rigore la sua nuova e scaccia con sdegno il fratello. Anche perché questi, mentre gli fa la proposta, proclama con oltracotanza nichilista di non avere in realtà più nessuna fede.
Reciprocamente, quando del debole Momolo è rimasta solo l’immagine di un quadro appeso a una parete di casa, Riccardo riprova e stigmatizza il tentativo di Edgardo corso a Bologna a battezzare Marianna in punto di morte. Tentativo peraltro fallito. Dalla madre, il convertito che prova a procurare una nuova anima al Cristo riceve infatti la risposta: “Sono nata ebrea e morirò ebrea”.
A margine: non sarà improprio intravedere nella filigrana del personaggio di Riccardo perlomeno un tratto della silhouette di Piergiorgio Bellocchio, fratello maggiore, di recente scomparso, del regista e a lungo figura esemplare di intellettuale désabusé nel panorama culturale nazionale dell’ultimo cinquantennio.
Si tocca così, finalmente, quel retroterra sul quale i film di Marco Bellocchio trovano, come si è detto, un palese appoggio. Rapito non è (va precisato?) un documentario. Nella storia presa appunto a pretesto di una libera invenzione narrativa, c’è dunque un bimbo che vive nel grembo privato di una famiglia ordinata dal codice materno.
Quel bimbo sarebbe forse destinato a restarvi, come pare sia accaduto a tutti i suoi fratelli e le sue sorelle: il loro numero non è esiguo (non era esigua la prole della famiglia Bellocchio, viene fatto di osservare, di nuovo a margine). Ma un mero accidente, uno di quelli che, volta per volta, fanno la vita, lo strappa via da lì. Non lo fa con violenza, ma con una determinazione ineluttabile: una sera, c’è, completamente inattesa, una chiamata. Chi se ne fa latore, il maresciallo della polizia pontificia, riconosce i sentimenti che la chiamata scatena, ma deve trascenderli. È differente la vita? Capita chiami.
Si dirà allora che il bimbo è costretto a nascere? Forse è troppo, ma basta sostituire entrare nel mondo o crescere a nascere e si intercetta approssimativamente una lunghezza d’onda, per riprendere la metafora proposta in esordio, della molteplice allegoria messa in scena dal film. Al bambino tocca di esordire nella sua vita pubblica e deve farlo fuori del grembo, nel quale, cura di mostrare il film, al momento di esserne appunto allontanato, la madre lo accoglie per l’ultima volta. È un tentativo disperato e inutile di nascondervelo: la vita non è però un gioco a nascondino e da sotto le sottane di Marianna il bambino deve inderogabilmente venire fuori. Anche la vita fuori del grembo materno è regolata rigidamente da un codice ultra-temporale e, di nuovo, ultra-sentimentale. Lo impersona il papa, principalmente, ma ha repliche in tutte le figure maschili che governano prima il rapimento, per dire così, poi la formazione del bambino: nessuna violenta, ma tutte assolutamente determinate.

Anche il papa, come padre, oltre a tenere Edgardo sulle ginocchia (atavico gesto non a caso scelto come immagine della locandina del film), accoglie il bimbo in una virtuale rappresentazione di un grembo nuovo e istruttivo, s’incarica di mostrare la pellicola. Nel corso di un gioco a nascondino, Edgardo, inseguito da un coetaneo, si cela sotto il mantello di Pio IX, a spasso per il medesimo giardino. Lo fa molto approssimativamente; il compagno di gioco vede benissimo che Edgardo è sotto quel mantello. Ma lo sguardo del papa e il codice che egli rappresenta dogmaticamente trascendono percezione e realtà: come lo fa il dogma dell’Immacolata concezione, proclamato pochi anni prima proprio da Pio IX, cui il bambino, in altra scena del film, enuncia alla perfezione la dogmatica definizione di dogma. Edgardo esce infine volontariamente dal nascondiglio formale e, più veloce del compagno, vince nel gioco. Così va il mondo: bisogna accettarne il codice, essergli fedeli e farne tesoro.
Per un codice paterno così espresso sono tuttavia gli ultimi fuochi: “Non sono io reazionario, è il mondo che va verso la rovina”, esclama pateticamente il Pio IX di Bellocchio, in un primissimo piano nel cuore del film. Altrettanto patetica, si badi bene, sarà la sortita finale della madre di Edgardo, di cui si è già detto. Nell’ordine delle cose e del tempo, madri e padri muoiono, con i loro codici rigidi e con le loro ostinazioni tragicomiche.
Non c’è apologo costruito da Bellocchio che non guardi il mondo e quanto vi accade dalla prospettiva del figlio. Ha più di ottanta anni, il regista, ma continua a essere il figlio. Rapito non è oscuro, in proposito, e comunica una sorta di senile nostalgia dell’ordine materno e di quello paterno, dell’ordine del grembo e fuori del grembo, pure in conflitto tra loro, conflitto tanto insanabile, quanto collaborativo. Lo fa senza affettare sentimentalismi, con sguardo amaro e distante, ma chiaramente nostalgico. Ed è un suo merito, mentre muove chi assiste a riflettere, con esso, su cosa resta allora al di là della madre e del padre e della Madre e del Padre.
Perché, in fine dei conti e a ben vedere, il Cristianesimo fu religione rivelata dal Figlio battezzato di una Madre ebrea che, per mandato del Padre, andò verso un martirio. Per mandato del Padre, andò cioè verso la testimonianza che fece tracimare il culto di un solo Dio dal piccolo Israele. Strappò, rapì quel culto, per dire così, dalla sua culla materna e nazionale e lo proiettò verso l’universalità, pretendendo che così maturasse. Gli diede un codice diverso e una diversa norma linguistica, espressiva e comunicativa. Da ebreo, com’era nato e come si era fin lì espresso, lo fece ecumenico e dunque latino e lo estese ai gentili senza distinzioni, proclamando di fare in tale maniera tutti gli esseri umani fratelli, tutti figli di Dio, unico Padre celeste.

In effetti, in Rapito c’è, maiuscolo, il Figlio, battezzato, di una Madre ebrea, più volte evocato per immagine. Precisamente, nell’immagine della sua testimonianza, del suo martirio: crocifissi ricorrono nel viaggio che porta Edgardo da Bologna a Roma, nel dono che una pia donna fa al bambino di ciò che egli suppone essere un portafortuna, nel suo primo ingresso in una casa di Dio e così via. E nel film c’è, minuscolo e speculare, il figlio di una madre ebrea, anche lui battezzato ma accidentalmente. I due si incontrano, nel sogno. Nel sogno, il secondo, ancora bambino, esce a piedi nudi dal letto del dormitorio della Casa dei Catecumeni, va nella chiesa contigua, oscura e deserta, si arrampica sopra un altare che esibisce una rappresentazione plastica del primo, appunto crocifisso, e toglie i chiodi che lo fissano alla croce. Solidale, sì. Ma anche quasi ad appianare e a risolvere il catastrofico inciampo della colpa inespiabile che la Chiesa di Roma attribuisce alla sua gente e quindi anche a lui.
Liberato dai chiodi del pubblico martirio cui l’ha destinato l’inflessibile Padre, il Figlio scende allora dalla croce, si toglie la corona di spine e nell’oscurità della notte, senza dire motto al suo piccolo accidentale doppio e liberatore, a piedi nudi si dirige fuori della Chiesa. C’è da credere che non torni dalla Madre chiusa e ostinata, ma si incammini, da figlio qual è finalmente diventato senza quei chiodi, verso il notturno disordine del mondo.