Arturo Martini, l’aldilà della scultura

14/06/2023

Non si può parlare per Arturo Martini di «stile tardo»; e non perché quando morì (a Milano, nel marzo del ’47, i nervi disintegrati dal processo di epurazione: «per guardar la gente faccia a faccia», racconterà Orio Vergani, «beveva dieci aperitivi prima di ogni pasto e consumava un tubetto di simpamina al giorno») aveva meno di 58 anni. Alla stessa età, in effetti, 120 anni prima di lui era morto Beethoven: a proposito del quale Adorno coniò la formula ominosa poi ripresa da Edward Said. Il fatto è che per il compositore quella tardività durava da un decennio buono (la si può datare almeno dalla Hammerklavier in avanti) mentre per lo scultore i suoi lavori estremi, e per lui stesso rivoluzionari, si concentrano negli ultimi tre anni scarsi di vita; e conoscono testimonianze rarissime, quelle numerate sopravvissute all’autodafè comminato da lui stesso. Confessava allora a Gino Scarpa di essersi spinto «ai confini della scultura, sperduto come un navigante, quando perde la visione della terra». Ma già nel ’22, scrivendo al più caro amico Lino Mazzolà, s’era identificato (come prima di lui il maestro de Chirico) nell’archetipo dell’«argonauta che immagina sempre, e al di là d’una siepe o d’un muro, la distesa del mare sempre pronto a riceverlo»: «l’idea di un aldilà proprio, e nella carne e nello spirito». Quell’aldilà della scultura non lo scopre alla fine del suo percorso, Martini: era una piega, o una piaga, sin dall’inizio interna al suo immaginario.

Atmosfera di una testa, 1944

Comunque appariva una rivoluzione copernicana quella di opere come Atmosfera di una testa (1944), per chi sempre s’era scagliato contro ogni forma di astrazione (ancora l’anno seguente bercerà: «l’astrazione in arte è una bestemmia […] è un comodo rifugio senza senso né sesso, buona alla mistica e non all’arte che è un fatto vivo e fisico […]. Tutte le astrazioni sono onanismi o ibride paludi»); ma in effetti in lavori come quello viene a giorno il «carattere non-oggettuale» (così Nico Stringa) al quale tendeva l’arte di Martini sin dai «teatrini» in terracotta dei primi anni Trenta (come la Donna alla finestra e Veglia), i quali – fu il giovane Elio Vittorini fra i primi ad accorgersene – scoprivano un aldilà della terza dimensione, ambientando la figura in uno spazio che è il vero oggetto dell’opera: erano quelle, secondo Stringa, le «prime installazioni nell’arte italiana del ’900» e secondo Elena Pontiggia (autrice della fondamentale biografia critica dell’artista, Arturo Martini. La vita in figure, Johan & Levi 2017) preludono ormai, infatti, agli Ambienti spaziali che un quindicennio dopo comincerà a plasmare Lucio Fontana (ma di qui vengono pure i “teatrini” di Fausto Melotti e Giosetta Fioroni: figlia di un non disprezzabile allievo di Martini).


La veglia, 1931-1932 

Proprio la limitatezza delle tre dimensioni è uno degli argomenti che inducono Martini a un gesto estremo e forse senza precedenti, quel pamphlet dal titolo La scultura lingua morta che è a tutti gli effetti un’abiura senza appello del linguaggio cui aveva tributato l’esistenza, e al quale doveva la gloria (non a caso sono coevi gli insistiti tentativi pittorici – la prima personale del Martini pittore data al ’40 – sua massima ambizione sbagliata). Iniziato proprio nel ’44, e pubblicato in proprio nel maggio dell’anno seguente, il testo conoscerà diverse edizioni (con vari ampliamenti dallo statuto a volte incerto, con dichiarazioni a parziale correzione o sconfessione delle tesi, radicali, che vi aveva professato) sino a quella esemplare procurata sempre da Pontiggia nel 2001 (e ristampata nel 2020 da Abscondita). «Fa che io non sia oggetto, ma un’estensione», vi fa dire alla scultura il suo demiurgo; «fa che io non sia una pietra miliare dell’uomo, ma della mia natura. Fa che io non sia una vistosa virtù, ma un oscuro grembo». Pena la condizione denunciata dal titolo: «fa che io non resti nelle tre dimensioni, dove si nasconde la morte».


La Pisana, 1928-1929

Proprio lui, che aveva celebrato la figura umana analizzandola da tutti gli scorci e torcendola in ogni possibile postura (si pensi alle conturbanti donne prone, a partire dalla Lupa ferita del ’31 per proseguire col Sonno del ’33 e con la serie delle Pisane, dall’omonima allumeuse che impazza nelle Confessioni di Ippolito Nievo: tutti lavori ispirati all’etrusca Chimera di Arezzo del Museo Archeologico di Firenze ma anche, direi, all’Ermafrodito dormiente dei Vaticani e del Louvre; nonché forse soprattutto a un ricordo d’infanzia confessato a Gino Scarpa nel ’44: «a due anni, a casa mia, una stanza era stata affittata a una prostituta. […] Una mattina, scesa sul canale, si alzò la sottana e si accucciò sull’acqua… Visione del grande deretano sui tronchi delle cosce, bianco, che esplode. Questo tempio. Estasi. A due anni ho avuto vent’anni. Ho capito la forma. La Saffo, la Pisana, tutte le mie donne sono quella rivelazione»), dichiara all’improvviso che il «ritratto» umano, se scolpito, «sembra presagire il cimitero».

Fanciulla piena d’amore, 1913

La grande mostra a Palazzo Bailo, curata insieme a Fabrizio Malachin da quello che con Pontiggia è il massimo studioso di Martini, appunto Stringa (il quale firma in catalogo, oltre a un ampio saggio, le dettagliate schede relative a tante delle ben 270 opere esposte), idealmente prosegue e conclude quella da lui stesso curata, nella stessa sede, insieme a Eugenio Manzato nel 1989: quando di Martini a fuoco era stata messa, di contro, l’opera giovanile (1905-1921) intrisa di estri nietzscheani e tangenze futuriste: come l’antigraziosa e boccioniana Fanciulla piena d’amore che salerà il sangue a Osvaldo Licini (1913), o l’enigmatico libro d’artista del ’18, Contemplazioni, il cui «silenzio» tanto iconico che verbale è invece da leggersi (come fa ancora Stringa) quale «risposta necessaria e polemica» al tutto-pieno e gridato dei libri marinettiani: «un grado zero […] per poter ripartire» (viene da pensare al Disegno geometrico di Giulio Paolini..).

Contemplazioni

A un capo e all’altro della parabola del risolutamente anti-astratto Martini, dunque, due (fra loro assai diverse) forme di astrazione e silenzio. Che però paradossalmente, per lui, tentavano di reagire a forme diverse di morte: all’inizio la vociante ipercinesi futurista; alla fine il presagio di cimitero cui s’era pervertita, a suo modo di vedere, la scultura figurativa che proprio lui aveva portato a un estremo di elaborazione espressiva (con capolavori quali i monumenti funebri dedicati sintomaticamente a un martire fascista, Tito Minniti, nel ’36, e dieci anni dopo a uno antifascista, Primo Visentin detto «Masaccio», nel testamentario Palinuro di Padova).

L’amante morta, 1921

Quello che non capiva Martini, o meglio non riusciva ad accettare, è che quella morte, da lui tanto aborrita, era davvero la cifra ultima delle sue figure. L’archetipo più pregnante del suo catalogo – purtroppo assente dalla mostra di Treviso – è ai miei occhi L’amante morta (vista una prima volta, in una versione in bronzo brunito del ’22, alla collezione della Farnesina a Roma; poi, nell’originale in gesso dipinto dell’anno precedente, alla Casa Necchi di Campiglio a Milano): ma solidali appaiono le posture dell’Ofelia, ricorrente in catalogo (nell’interpretazione appunto funerea, preraffaellita e simbolista: specie nella versione del ’33, appartenuta a Giovanni Comisso), e anche dei tanti nudi reclinati in apparenza così traboccanti di erotismo. Eros sì, ma funesto, quello della Lupa; e trasfigurato nella latenza senza fine di una post-Ofelia, ormai sommersa dalle acque che l’hanno uccisa, nel «fiore delle mie ricerche» (come lo chiamava Martini) della Donna che nuota sott’acqua del ’44.


Donna che nuota sott’acqua, 1941-42 

L’amante morta, che rivolge verso l’alto gli occhi ciechi, tiene in grembo uno specchio. E gli specchi sono onnipresenti nelle figurazioni residue della civiltà Etrusca «innamorata della morte», specchi che (ha scritto Giorgio Manganelli in uno dei testi ora raccolti in Emigrazioni oniriche, Adelphi 2023) «sembrano alludere ad una storia segreta, privata, e insieme ad un rito misterioso»: quegli attributi muliebri «divennero non solo gli ausili di una delicata cosmesi del corpo, ma oggetti magati, che trattenevano in una loro simbolica eternità l’immagine riflessa». Ed è questo il paradosso di ogni scultura: vera lingua morta che, proprio come quegli specchi, immobilizza il flusso della vita così insieme estinguendola e rendendola eterna: «cattura la luce e un volto, e la loro cattura è per sempre».


Athena, 1934, Università La Sapienza Roma (particolare) 

Per tutti gli anni passati ad appassire alla Città Universitaria di Roma, a cadenza pressoché biquotidiana ho sfilato sotto lo sguardo atterrito dell’Athena, vulgo «la Minerva», ivi collocata da Marcello Piacentini nel 1935: al culmine della campagna propagandistica alla vigilia dell’invasione fascista dell’Etiopia. Opera «bella ma maledetta», la definirà Martini, forse sapendo che gli studenti della «Sapienza» si tramandavano – ignoro se lo facciano ancora oggi – il superstizioso comandamento di non guardarla negli occhi, quella Minerva-Medusa, pena il paralizzarsi e cadere bocciati all’esame. Ma certo c’era un oroscopo sottile, in quel gesto di trionfo a braccia alzate, per il regime all’apice della gloria e il suo sventurato, il suo massimo cantore: il quale già allora era presago della luce d’Apocalisse, dell’aldilà che conoscerà giusto dieci anni dopo.

Arturo Martini. I capolavori
a cura di Fabrizio Malachin e Nico Stringa
Treviso, Musei civici Palazzo Bailo
fino al 30 luglio 2023

Una versione più breve di questo articolo è apparsa sul «Giornale dell’arte» di giugno

In copertina: foto storica del piazzale dell’Università La Sapienza dove campeggia la statua di Athena su un alto basamento rivestito in porfido. Foto dell’inaugurazione, 21 aprile 1935.

Andrea Cortellessa

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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