Guardare ma non danzare

12/06/2023

La realtà che destabilizza l’ordine mortifero del museo

Le cose fragili più tardi diventano oggetti: questo è ciò che esse hanno in comune con numerose evidenze apparenti che maturano per divenire lampanti solo quando sono andate perdute – e di regola vanno perdute nellistante in cui vengono coinvolte in raffronti che fanno perdere loro lingenuità delle cose date. Laria che respiriamo senza riflettere; le situazioni sature di atmosfere nelle quali esistiamo in maniera incoscientemente contenuta e contenente; le atmosfere in cui viviamo, ci muoviamo e siamo, che sono divenute impercettibili a forza di essere manifeste: tutti questi elementi costituiscono dei nuovi arrivati nello spazio tematico, perché prima di poter essere esplicitamente portati alla nostra attenzione, sembravano fornire a priori, come nature o beni di consumo eterni, una dotazione soggiacente e muta al nostro essere qui e ora.[1]

I.

A marzo 2023, mentre ero in viaggio per Roma, sono incappato in un articolo scritto dalla coreografa Sophiline Cheam-Shapiro, in cui spiegava di essere stata bloccata dalla sicurezza del Metropolitan Museum di New York City mentre danzava di fronte ad alcune statue raffiguranti delle divinità ancestrali provenienti dalla Cambogia, suo luogo di origine.[2]

La danza, filmata in accordo con il team di un podcast, ha catturato da subito la mia attenzione – facendomi rinsavire dal torpore mentale causato dal monotono scroll di Instagram. A piedi scalzi, la donna esegue dei movimenti lenti e pesati, le braccia ondeggiano cautamente fendendo l’aria in una maniera così gentile da apparire naturale, necessaria. Dei piccoli inchini, una sciarpa che svolazza e le mani che compiono delle leggere torsioni. Quella stanza del MET, abitata solitamente da immobili figure di pietra, appare improvvisamente animata da una tensione viva, vibrante. Dentro quello squarcio appare l’aria, si nota l’atmosfera, il movimento delle cose è messo in risalto.

Sophiline Cheam-Shapiro che danza di fronte alle sculture delle divinità cambogiane al Metropolitan Museum di New York, courtesy Sophiline Cheam-Shapiro

II.

Quando ho visitato il MET nell’agosto del 2022, le stanze erano densamente popolate non solo dalle innumerevoli opere artistiche e archeologiche – acquistate, trafugate, donate – ma anche da schiere di turisti pronti ad apprendere (leggersi depredare) il valore culturale, decisamente inestimabile, di quell’enorme scrigno del sapere umano – al modico prezzo di 30 dollari. In quell’occasione di totale sopraffazione, dovuta alla mostruosa collezione del museo e all’assalto del pubblico, non ho provato la tensione che ho constatato successivamente guardando il video della danza di Cheam-Shapiro. Mi sono sentito pesante, appesantito. Ero parte di un unico ammasso multiforme di pelle e organi, intento ad acquisire il più possibile dalla monumentale traccia del passato, fatta anch’essa di materiali pesanti quali pietre e marmi, scrigni e ferro, armi e legno. Nulla a che fare con la leggerezza scaturita dalla danza osservata nel video.

La donna ha danzato e pregato per le divinità affinché quelle stesse statue trafugate potessero un giorno tornare al loro luogo d’origine, la stessa terra in cui lei è nata. è scattato qualcosa in me quando ho letto che la sua azione – decisamente meno invadente dell’orda di turisti smaniosi di vampirizzare i patrimoni coloniali – è stata interrotta. Non è permesso danzare, serve un permesso.

Da persona che ha lavorato come guardasala di un museo, so che quell’invito a interrompere la danza è venuto dall’alto. Vedere una visitatrice fare qualcosa di “anomalo” rispetto al semplice guardare, mette in guardia perché spezza l’ordine naturale del museo d’arte. Per quanto quella danza possa assomigliare a una performance artistica – e possiamo anche assumere che lo sia – guardando il video capiamo che quell’atto è troppo reale per essere associato alla finzione artistica. Troppo leggero, perché non imbrigliato alla pesantezza del luogo, alle sue regole e alla sua massiccia storia di potere. C’è qualcosa di troppo vivo che allarma e mette sulla difensiva il museo, luogo mortifero per eccellenza, a quanto pare.

III.

Nel 2017, durante la quattordicesima edizione di documenta – una delle rassegne d’arte contemporanea più importanti al mondo – sono stato ad Atene per la sezione della mostra parallela a quella di Kassel, città tedesca in cui la rassegna ha notoriamente luogo. In quell’occasione ho assistito a diverse performance in cui i corpi umani hanno avuto modo di relazionarsi con resti archeologici e statue inanimate. Ho assistito, per esempio, a Collective Exhibition for a single body, un progetto del curatore Pierre Bal-Blanc in collaborazione con il coreografo Kostas Tsioukas e i danzatori Myrto Kontoni e Tassos Koukoutas. La performance si è tenuta al Museo Archeologico del Pireo e prevedeva la frammentazione figurata di un corpo attraverso i corpi stessi dei diversi performer che, posizionati sui gradini, sulle panche o accanto alle statue, ripetevano delle azioni create da una selezione di artisti partecipanti a documenta.

Collective Exhibition for a Single Body, performance, Museo archeologico di Pireo, documenta 14, ph. Stathis Mamalakis

Al di là dell’effetto straniante che mi ha indubbiamente colpito, ho provato una strana sensazione: quei corpi erano lì per essere guardati, oggettivabili. Come fossero essi stessi vittime dello sguardo occidentale venuto da lontano in nome dell’arte. In qualche modo è stato attraverso quello strano incontro – positivo o negativo? – che sono arrivato a una consapevolezza: la performance dovrebbe smettere di essere finzione, tentare di appigliarsi alla reale esistenza dei performer, far sì che essi non siano nient’altro che loro stessi. L’oggettivazione dei corpi performativi può essere considerata come il tentativo di inglobare dentro il processo mortifero/oggettuale dell’arte un linguaggio che dovrebbe fondarsi sulla vita?

Non so se per una strana coincidenza o per un voluto parallelismo implicito, il duo di artisti Prinz Gholam ha performato prima ad Atene all’interno dell’area dove sorgono le rovine del Tempio di Zeus, e poi a Kassel all’ interno di Lutherplatz, accanto alle lapidi di un piccolo cimitero. Nonostante la bellezza dei loro corpi mi sono chiesto: ho assistito a uno slancio di vita all’interno di luoghi “morti” o all’ennesima prova dell’esistenza di un potere mortifero che tenta di assorbire tutto ciò che può, arte compresa?

Prinz Gholam, My Sweet Country, 2017, performance, Temple of Olympian Zeus, Atene, documenta 14, ph. Pinelopi Gerasimou

IV.

Cosa ci dice il museo oggi? Oltre a suggerire un’assimilazione passiva del passato – ma anche del contemporaneo – orientata da uno sguardo che ricerca ostentatamente l’inquadratura perfetta, forse ci racconta quanto ancora oggi il potere si palesi sotto forma di immagine muta e silente, irrevocabilmente statuaria.

A novembre del 2022 ho visitato la mostra Recycling Beauty, a cura di Salvatore Settis, Anna Anguissola e Denise La Monica, ospitata all’interno di due sale di Fondazione Prada a Milano, allestite per l’occasione dall’immancabile studio OMA di Rem Koohlas. “Attraverso un innovativo approccio interpretativo e una modalità espositiva sperimentale” – come dice il comunicato stampa – la mostra riunisce opere provenienti da prestigiosi musei internazionali come il Louvre di Parigi, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, i Musei Capitolini di Roma, le Gallerie degli Uffizi di Firenze e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Inutile dire che all’interno del Podium e della Cisterna di Fondazione Prada, questi oggetti di indubbia bellezza – selezionati per via dell’abbandono della loro funzione iniziale a favore di un riuso successivo – appaiono magnificamente eleganti. L’allestimento vorrebbe suggerirci che le opere sono lì per essere studiate attraverso una fruizione lenta e “meno spettacolare”, abbiamo infatti statue che si ergono su bancali e materiali d’imballaggio, fregi appoggiati su scrivanie davanti alle quali ci si può sedere. Ma la mia sensazione, passeggiando in mezzo al lussuoso ambiente del Podium, è che l’invito a studiare, ricercare e “riutilizzare” sia piuttosto una sorta di didascalica postura: il piedistallo, seppur diverso nell’aspetto, è pur sempre un basamento che innalza; inoltre la stessa atmosfera della Fondazione crea una distanza tra il pubblico e l’opera (che pur travestendosi da oggetto a disposizione di tutti, persevera nell’emanare uno statuale e rigoroso potere). Esempio eclatante è la ricostruzione di undici metri del Colosso di Costantino installato nella cisterna, che sfrutta ancora una volta la spettacolarizzazione utilizzata dall’Antica Roma per rivangare un ruolo di dominio dell’immagine. La gigantesca statua appare addirittura compressa tra quelle mura, come a suggerire l’opprimente presa del museo non solo sul pubblico ma anche sull’arte stessa. Tante persone sono entusiaste, inondando Instagram con le foto del Re. Qualcuno invece, intento a sgranocchiare delle noccioline, mi dice che sembra tutto una grande tamarrata. Nel frattempo le briciole cadono a terra sporcando il marmo di Travertino.

Recycling Beauty, 2022, Fondazione Prada, Milano, ph. Roberto Marossi

V.

Nei musei possiamo tacitamente prendere parte al silenzio del passato, alle sue regole ferree che impongono un dominio senza lasciar spazio all’atto sovversivo – che può apparire, paradossalmente, come un’azione molto umana e naturale, come quella della preghiera o della danza. È più importante preservare ciò che è morto, difenderlo dall’irruzione della realtà, piuttosto che rivelare una mancanza di oggettività, una non-neutralità.

Nel 2001 l’antropologa Nancy Scheper-Hughes commenta con un articolo[3] il tentativo da parte della comunità di Nativi Californiani di rimpatriare il cervello e le ceneri di Ishi – notoriamente conosciuto come l’ultimo degli Yahi, sopravvissuti al genocidio dei Nativi Californiani in seguito alla caccia all’oro di metà ‘800. Agli inizi del 1900 l’uomo, rimasto solo, era comparso nella progredita società di Europei Americani finendo così per essere studiato a lungo dall’antropologo Alfred Kroeber, padre oltretutto della nota scrittrice Ursula K. Le Guin.

L’antropologo A. L. Kroeber e Ishi

Scheper-Hughes parla di questo episodio criticando l’approccio antropologico neutrale, basato sulla rigorosa attenzione agli oggetti, alle persone e agli artefatti culturali come fossero inseriti in una bolla a sé stante – lontana dai genocidi, etnocidi e altri tipi di distruzione coloniali, sui quali però si costruisce il lavoro stesso dell’antropologia. Gli oggetti di studio hanno una storia che si riferisce solamente a ciò che può essere guardato da lontano – come un diorama davanti al quale osserviamo una natura pura e immobile – o ci raccontano anche di un’atrocità che ci riguarda, come se fossero quegli stessi oggetti a guardarci?

VI.

Mi chiedo cosa abbia rappresentato la figura del museo nel tempo e quanto essa sia cambiata fino ad arrivare ai giorni nostri. Certo, Bennett ha parlato delle prime esposizioni e dei primi musei come dispositivi di controllo delle masse: la folla disordinata dello spazio pubblico è stata trasformata nel tempo – grazie alla relazione con l’egemonia culturale dello stato incarnata dagli spazi museali – in un pubblico sorvegliato e auto-regolato[4] che ha imparato le regole del decoro (non toccare, non correre, stare in silenzio, ecc.). Subordinato allo sguardo bianco, coloniale, borghese e maschile verso un mondo che viene interamente raffigurato, compresso e (apparentemente) compreso, il pubblico si sente democraticamente tirato in ballo e assimila lo stesso sguardo di potere utilizzato per erigere collezioni e gallerie di musei. D’altronde il museo pubblico, dice Hooper-Greenhill, è stato plasmato affibbiandogli due funzioni contraddittorie, quella dell’elitario tempio delle arti e quella dello strumento di educazione democratica. Come spiega ancora Bennett, lo scopo del museo non è quello di “rendere la popolazione visibile al potere ma di rendere il potere visibile alle persone e, allo stesso tempo, di raffigurare quel potere come loro”[5].

Ma è davvero ancora così?

Roberto Casti, Miliardi di detriti ci separano dalla nostra ombra, 2022, performance e installazione sonora, Bastione – Villa Rey, Torino

VII.

“Lo sguardo umano immobilizza l’oggetto – lo spoglia di vita – partecipando così al funerale della materia non umana. Ogni tentativo di palesare la vita nascosta della materia, dissociandola dal peso del controllo, dev’essere fermato.”

Ho immaginato un essere al di sopra di tutto, probabilmente il direttore del museo della storia umana, pronunciare queste parole nel tentativo di fermare l’assalto. Le statue vanno ripulite, Notre-Dame ricostruita; l’aerazione va controllata, così come la temperatura. Laser e allarmi, guardie, vetri anti-riflesso, barriere anti sfondamento e telecamere.

“Siamo barricati, siamo salvi.”

L’incendio della cattedrale di Notre-Dame a Parigi, 15 aprile 2019, ph. Michel Euler 

VIII.

Forse il museo è diventato un luogo di morte anche per chi, all’interno, è vivo. Si deve percepire la pesantezza di ciò che è stato, in qualche modo si assecondano le regole che hanno portato i Faraoni al trono. Non si può toccare, non si può parlare, non si può danzare. Oppure sì, si può danzare, ma su permesso del padrone.

L’azione più sovversiva diventa quindi la più semplice di tutte, ovvero quella della leggerezza. Dell’aria. Perché l’aria è invisibile ma complessa, sfaccettata nonostante la sua impercettibile presenza. Vive e ci fa vivere. E quella donna, in quel video, è stata aria. In qualche modo aleatoria, perché non individuata dallo schema mortifero del museo, che impone lo sguardo passivo e non l’azione – non è prevedibile, non è calcolabile, in qualche modo non è performativa ed è quindi più reale di una performance artistica. Perché improduttiva, in-oggettivabile.

Quando l’aria, che tutto avvolge senza che ce ne accorgiamo, diverrà oggetto, ci tramuteremo in statue – simboli morti e silenti di un potere che non esisterà più.

In copertina: Il Museo di Ferrante Imperato nella prima immagine stampata di una Wunderkammer (1599)


[1] Peter Sloterdijk, Sfere III – Schiume, Raffaella Cortina Editore, 2015, pag. 49.

[2] Sophiline Cheam-Shapiro, Met Museum kicked me out for praying to my ancestral Gods, articolo pubblicato su Hyperallergic, 21 marzo 2023.

[3] Nancy Scheper-Hughes, Ishi’s brain, Ishi’s ashes: Anthropology and genocide, pubblicato su Anthropology Today volume 17 numero 1, febbraio 2001.

[4] Tony Bennett, The birth of the museum: History, Theory, Politics, Routledge, 1995.

[5] Tony Bennett, The birth of the museum: History, Theory, Politics, Routledge, 1995, pag. 98 (traduzione mia).

Roberto Casti

Casti (Iglesias, 1992) è artista, musicista e scrittore. Vive e lavora tra Milano e Iglesias, in Sardegna. La sua ricerca artistica include diversi linguaggi tra i quali video, performance, installazione, pittura e suono. Con il progetto trans-disciplinare 'The Boys and Kifer', nato nel 2014 come band musicale fittizia, indaga nuovi metodi di comunità e convivenza attraverso la partecipazione di numerosi artisti, musicisti e teorici.
Ha collaborato e esposto in diversi spazi e istituzioni quali il MAN (Nuoro), il FRAC di Corte (Francia), Marsèlleria (Milano), PAV - Parco Arte Vivente (Torino), OGR - Officine Grandi Riparazioni (Torino) e l'Accademia di Belle Arti di Brera (Milano). Ha pubblicato articoli per Nero On Theory, Kabul magazine e ArtsLife. Nel 2023 ha partecipato alla pubblicazione di 'Soft Crash', libro collettivo prodotto dal MACRO di Roma.

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