The only way in which the majority of the known species can exist is by feeding off others, often in the most horrific way with complete indifference to the resultant suffering. In this Malthusian nightmare, a surplus of organisms, humans included, exist in order to sustain others.
Nature can be seen as organic molecules that are dispassionately passed on from one organism to another, sometimes when the first is dead, but often when it is alive, in a great flow of energy in an interconnected web of life .[1]
Assembramenti di disparate materie viventi (non si distinguono organi precisi, come un cuore o un polmone; in effetti, quelli che vediamo sono genericamente tessuti cellulari, escrescenze, polipi infiammati) che assumono forme del tutto incomprensibili. Se non fosse per la presenza di una incongrua salopette, che alcune di queste creature indossano, non sapremmo nemmeno qual è il sopra o il sotto, e il davanti e il dietro di queste perturbanti entità. Quasi tutte sono senza occhi, il primo e fondamentale appiglio biologico per capire se quello con cui abbiamo a che fare è un qualcuno o un qualcosa. Forse è proprio questa distinzione, che è metafisica prima che reale, che queste forme vogliono revocare in dubbio; perché forse è solo un pregiudizio che ci fa credere che una cosa sia radicalmente diversa da quella particolare cosa che è una cosa vivente. Sicuramente non sappiamo se sono animali o piante, forse neoplasie, biofilm ipertrofici, liquefazioni. Colori verdastri, esangui. È la pura vita, infetta e impensabile. Ché invece vorremmo sempre che il mondo fosse semplice, come quello che un tempo (il tempo in cui essere antropocentrici era così naturale da passare inosservato, e non era ancora una colpa che non riusciamo ad espiare) potevamo vedere in uno zoo. Forse è proprio per questo che li stanno chiudendo, perché non ci crede più nessuno a quella semplicità; era il tempo in cui ad ogni animale corrispondeva univocamente un bel nome scientifico, e al corpo, piacevolmente stravagante ma comunque riconoscibile, corrispondeva un ambiente (possibilmente in qualche foresta lontana) altrettanto definito. Di tutto questo le creature di Giaconia non sanno nulla, classificazione per species et genera, habitat, filogenesi, schemi tassonomici: c’è la vita, che si insinua dovunque, appiccicosa e infetta (vedendo questi materiali, in effetti, siamo sicuri che se potessimo anche odorarli puzzerebbero in modo insopportabile).

Ecco da dove viene, allora, la questione implicita del titolo parasite soufflé. I parassiti proliferano, prendono volume, infettano. La vita è gonfia, infiammata, maleodorante. Quella del parassita, in realtà, non è una condizione eccezionale, perché il parassita, al fondo, è un vivente che vive a spese di un altro vivente, mischiandosi e quasi confondendosi con lui[2]. In realtà questa definizione è ancora troppo stretta, perché se prendiamo in considerazione anche le entità non chiaramente viventi, come i virus[3], e quelle che non lo sono affatto, come i prioni[4], allora è difficile immaginare una qualche “forma di vita”, o di quasi vita, che in modo diretto o indiretto non sia parassitaria di altre forme di vita. Da questo punto di vista si assiste spesso, nel mondo biologico (umani inclusi, ovviamente, come la vicenda del Covid-19 sta mostrando), nel passaggio dal parassitismo (in cui l’organismo ospite viene sfruttato, talvolta fino alla morte, dal parassita) al mutualismo fra ospite e parassita, cioè ad una relazione in cui le specie coinvolte (che non sono necessariamente solo due[5]) traggono reciprocamente vantaggio dalla ‘convivenza’ e che finiscono per non essere più in grado di vivere isolatamente l’una dall’altra[6]. Si pensi al caso esemplare del rapporto della specie animale a cui appartiene chi scrive queste note, l’autondefinita specie Homo sapiens, e i virus che da sempre la hanno ‘infettata’[7]: «i virus hanno arricchito il genoma dell’ospite [noialtri umani] con residui virali funzionali, la cui quantità e diversità superano di gran lunga il totale dei geni dell’ospite»[8].

Questo significa che la stessa distinzione, apparentemente così scontata, fra “ospite”, cioè l’organismo infettato, e il “parassita”, ossia l’organismo infettante, non è affatto così netta. In realtà, come dice il valore enantiosemico di “ospite”, fra i due (o, come visto, i più) esiste una relazione particolarmente intricata; non solo il parassita sfrutta l’ospite, ma anche questo, a suo modo, ha spesso un tornaconto dall’essere infettato del primo. Si prenda il caso esemplare del fungo Matsutake (Tricholoma matsutake) le cui intricate vicende ecologiche sono raccontate nel libro dell’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing The Mushroom at the End of the World, un libro che siamo sicuri si trova nella ricca biblioteca di lavoro di Oscar Giaconia. Nel passo qui sotto Anna Tsing descrive, in particolare, come e dove cercare questo rarissimo fungo che cresce soprattutto nel sottobosco di antiche foreste devastate dallo sfruttamento industriale (un lavoro non dissimile da quello dell’artista che cerca dovunque, e soprattutto dove nessuno si aspetterebbe di trovarli, i materiali da assembrare – parassitare, appunto – nel suo lavoro):
Più che una classe di terreni, il raccoglitore analizza le linee di vita. Non si tratta di cercare un albero, bensì la storia che racconta l’area circostante. È improbabile che il Matsutake si trovi in luoghi fertili e ben irrigati; altri funghi cresceranno in quei luoghi. Se ci sono bacche nane, probabilmente il terreno è troppo umido. Se sono passati macchinari pesanti, questo significa morte per il fungo. Se gli animali hanno lasciato escrementi e tracce, questo è un luogo in cui cercare. Se l’umidità ha trovato un posto per nascondersi accanto a una roccia o a un tronco, anche questo è un bene. Nel sottobosco c’è una piccola pianta che dipende dal matsutake non solo per i minerali. Una piantina di Allotropa virgata forma una pianta rossa e bianca, ornata di fiori ma completamente priva di clorofilla che le permetterebbe di produrre il proprio cibo. Invece, la pianta drena gli zuccheri dal matsutake, che a sua volta li prende dagli alberi. […] Le linee di vita sono intrecciate: Allotropa virgata e il matsutake; il matsutake e i suoi alberi ospiti; gli alberi ospiti e le erbe, muschi, insetti, batteri del suolo e animali della foresta; i dossi e i raccoglitori di funghi[9].
In effetti i funghi sono entità viventi esemplari (non a caso compaiono spesso, in modo più o meno evidente, nei lavori di Oscar Giaconia): i funghi, infatti, sono privi della capacità biologica fondamentale della fotosintesi clorofilliana[10], e sono pertanto costretti a dipendere dall’ambiente vivente preesistente. In questo senso la vita di un fungo è – al di là dei diversi modi in cui si procura ciò di cui ha bisogno per vivere (saprotrofismo, parassitismo propriamente detto e simbiosi) – è una vita che, per vivere, sfrutta altra vita. È cioè una vita da parassita. Ma è un parassita, benché forse non in senso prettamente tecnico, anche il cercatore di funghi, che di che cosa vive, se non della vita del fungo? Ma siccome anche questo, a sua volta, vive della vita di (ex) boschi e altre entità viventi e non viventi, dov’è che comincia una vita che non sia una vita parassita rispetto ad altre vite? Il parassita, in fondo, non è altro che qualcuno/qualcosa che segue “life lines”. In questo senso l’essere – la vita non è che un modo dell’essere – è relazione.

Il mondo è una incredibilmente fitta trama multidimensionale di relazioni spazio-temporali. Un evento o una cosa è in relazione con altri eventi o altre cose, e allo stesso tempo è in relazione con altri eventi e altre cose che lo hanno preceduto nel tempo, e con gli altri che lo seguiranno in un tempo a venire. L’idea di fondo è semplice: non esistono entità isolate, esistono solo le relazioni, o meglio ancora all’inizio, sempre, c’è un campo relazionale. In realtà il pensiero relazionale è più radicale: non è che ci sono delle entità nel campo relazionale – come se le entità e gli eventi potessero esistere indipendentemente dal campo relazionale; piuttosto eventi e contatti fra eventi sono ‘ispessimenti’ locali del campo relazionale. Lo spazio-tempo non è una scatola che contiene le cose; al contrario le cose e gli eventi sono modi di darsi del campo relazionale. L’essere è relazione, sempre, ossia i termini della relazione – cioè gli oggetti connessi fra loro – vengono dopo la relazione. Non è che prima esistono l’entità A da una parte e l’entità B dall’altra parte che poi, eventualmente, entrano fra loro in rapporto. No, l’idea dell’essere come relazione sostiene che prima c’è il rapporto, poi vengono le entità che si rapportano attraverso quel rapporto (è il rapporto che istituisce A e B, non sono A e B che entrano fra loro in rapporto). In questo senso l’essere stesso diventa una sorta di parassita, perché come questo non esiste se non in relazione ad un altro vivente, così anche il primo non è altro che relazione. Ma così il parassita diventa una figura esemplare per pensare e vedere il mondo. Il parasite soufflé è allora una sorta di elogio di quelle entità che non hanno paura dei parassiti, essendo esse stesse parassiti.
Questo modo di intendere l’ontologia benché non sia una novità è tuttavia molto poco praticato, perché al contrario il modo di pensare e vedere prevalente – in particolare nella scienza pilota del nostro tempo, l’economia – si basa su un presupposto affatto contrario: prima c’è l’entità individuale, e solo in un secondo momento quest’entità può, ma non è necessario che lo faccia, entrare in relazione con altre entità. Se c’è qualcosa, tuttavia, che il tempo del virus ci ha fatto entrare bene in testa (c’è sempre un’epidemia dei pensieri accanto a quella dei corpi[11]) è proprio che l’essere è relazione. In effetti, che cos’è il virus se non il caso esemplare della relazione? Come abbiamo imparato tutti il virus ‘sopravvive’ (ammesso cioè che in qualche modo sia anch’esso vivo) solo infettando una cellula, ossia la vita del virus coincide con il processo infettivo. E che cos’è un’infezione se non il modo in cui un medico chiama quella che, da un punto di vista ontologico, non è altro che una relazione? Il caso del virus ci permette un’altra scoperta, che il racconto dell’essere come relazione spesso rimuove, sul presupposto che la relazione sia sempre reciproca e porti benefici a tutti quelli che ne prendono parte. Una scoperta, al contrario, che è affatto evidente nelle perturbanti immagini che Giaconia ci offre. Il virus spesso uccide i corpi con cui è entrato in relazione, cioè i corpi che – se vuole continuare a quasi vivere[12] – non può non infettare. L’essere è relazione non significa soltanto che non esiste un’entità senza relazioni (piuttosto, un’entità è l’insieme delle sue relazioni), significa anche che le relazioni non sono mai o quasi mai equilibrate. L’essere è relazione non vuol dire che l’essere è armonia e stabilità. Da questo punto di vista Il parassita, il libro del filosofo francese Michel Serres già nel 1980 proponeva un’ontologia costruita proprio a partire dalla figura affatto relazionale, ma intrinsecamente squilibrata, del parassita. Perché è parassita, semplicemente, ciò che vive a spese di altra vita:
parassitare significa: mangiare a fianco di. […] Lo scambio non ha luogo: non avrà mai luogo. L’abuso compare ben prima dell’uso: bisognerebbe dire abusi e costumi. Dotato di non so quale genio, colui che mangia accanto a, in breve mangia a spese di, rapidamente mangia sempre lo stesso, si installa; e lo stesso dona sempre, sino allo sfinimento, talvolta sino alla morte, drogato entro una sorta di fascino. Questi non è una preda, poiché offre e continua a donare. Non è una preda, è l’ospite. L’altro non è un predatore, e non ha smesso di essere parassita. Direste della tetta che è la preda del bimbo? È il suo quasi-abitacolo. Orbene, questa relazione è la semplicità assoluta, non può esservi nulla di più semplice e facile: va sempre nel medesimo verso. Lo stesso è l’ospite, lo stesso prende e mangia, senza mai vedere un ritorno. Vale per il pidocchio, così come per l’uomo[13].

Un’ontologia parassitaria è un’ontologia che parte allora sì dalla relazione, ma anche dall’ulteriore assunto secondo cui «l’abuso compare ben prima dell’uso». L’assioma di base è che il parassita mangia a fianco di qualcun altro. Prima c’è sempre un altro da parassitare. Un altro dentro cui il parassita si istalla. La vita, da questo punto di vista, è un immenso processo parassitario. Detto in altri termini, nessuno può dire di sé di non parassitare un’altra vita. Il caso del neonato rispetto al corpo materno è esemplare. La madre è l’ospite del parassita infans: «il feto è un parassita, […] lo resta un po’ dopo la nascita. Quanto tempo? Le valutazioni variano. Al limite, è meglio dire sempre. Lo svezzamento è solo locale»[14] (vista così molti comportamenti materni che ci sembrano del tutto innaturali acquistano un’altra, anche se non meno sinistra, luce. Chissà se Giaconia, in futuro, non affronterà il tema delle relazioni sessuali intese come relazioni di tipo parassitario; ammesso che non l’abbia già fatto). Un’altra conseguenza di questa ontologia parassitaria, e che il tempo del virus ha reso affatto evidente, è che il parassita non può non parassitare altra vita (vivere = parassitare?). Nella prospettiva antirelazionale, ad esempio quella terrorizzata dal rischio del contagio, quello del parassita è un caso limite che non deve essere generalizzato: una vita ‘normale’ non vive a spese di altra vita. La distinzione fra salute e malattia si basa sulla possibilità di isolare uno stato di vita normale, in cui le relazioni con l’esterno sono regolate e in linea di principio equilibrate, rispetto alle situazioni in cui questo stato di relativa armonia viene messo in crisi dall’irruzione di qualche elemento di disturbo. Che succede se ora la condizione normale è quella del parassita? Cioè la condizione di chi non può sopravvivere senza parassitare – cioè mangiare a fianco di – qualche altra vita? E questo significa che la relazione, in realtà, presuppone a sua volta sempre un inciampo, un disturbo che rende difficile la stessa relazione.
Ciò è generale. Non c’è mai silenzio, a rigore. Il rumore di fondo è sempre là. Se la salute si definisce attraverso il silenzio, la salute non esiste. La salute rimane la coppia messaggio-rumore. I sistemi funzionano perché non funzionano. Il non-funzionamento rimane essenziale per il funzionamento. E ciò può essere formalizzato. Siano date due posizioni e un canale. Esse scambiano, come si dice, messaggi. Se la relazione riesce, perfetta, ottimale, immediata, essa si annulla come relazione. Se essa è là, se esiste, è perché ha fallito. Essa è solo mediazione. La relazione è la non-relazione. Ed è ciò, il parassita. Il canale porta il flusso, ma non si può cancellare come canale e frena il flusso poco o molto. La comunicazione perfetta, riuscita, ottimale, non terrebbe più conto di alcuna mediazione. E il canale sparisce, nell’immediatezza. Non ci sarebbero più, da nessuna parte, spazi di trasformazione. Se ci sono canali, allora c’è rumore. Niente canale senza rumore. Il reale non è razionale. La relazione ottimale sarebbe la relazione nulla. Per definizione essa non esiste; se esiste, è inosservabile[15].
Ecco cos’è il parassita, la «non-relazione nella relazione». Senza «non-relazione», cioè senza il parassita, non c’è nemmeno la relazione. Il parassita diventa così la figura essenziale dell’ontologia relazionale, che altrimenti rischia di trasformarsi in una banalità – nessun’entità vive in isolamento rispetto alle altre entità. Certo che l’essere è relazionale, ma nel cuore dell’essere c’è un parassita non-relazionale (il parassita sfrutta), che mette in movimento la stessa relazione. La mette in movimento e soprattutto produce novità (ossia un inedito modo di darsi della non-relazione), ché altrimenti un mondo puramente e piattamente relazionale sarebbe un mondo sempre uguale a sé stesso: «quando una monade chiusa capisce una monade senza contatto con l’esterno, quando un sordo ascolta un muto, succede che producano insieme un vivente del tutto nuovo, che non è mai una ripetizione. Questa nascita è una prova»[16]. Un parassita mangia a fianco di. L’ospite prova a scacciarlo, ma raramente ci riesce, dopo un po’ – quando finisce la presunzione e comincia l’umile pazienza – deve inventarsi un modo per con-vivere con il nuovo arrivato, e, se possibile, deve provare a sua volta a parassitarlo. È in questa «prova», forse, che risiede la conseguenza più rilevante implicita nell’ontologia parassitaria di Michel Serres: non solo che non c’è nessuno che possa definire sé stesso non parassita di qualcun altro, e nemmeno che nel mondo non c’è una gerarchia assoluta fra ospiti e parassiti; in realtà “parassita” non è che un altro nome per cambiamento e innovazione: «che cos’è un parassita? Un operatore, una relazione. Questa freccia semplice intercetta. Essa intercetta i messaggi organici in un luogo del sistema vivente. Rumore, forse, linguaggio anche, vivente spesso. […] Che cos’è un parassita? Una deviazione, minima, all’inizio, e che può restarlo fino ad annullarsi, che può crescere fino a trasformare un ordine fisiologico in un nuovo ordine»[17].

Comprendiamo perché, allora, Oscar Giaconia insista nello sconcertarci e turbarci con le sue immagini inclassificabili. Vuole impedire non solo che ci limitiamo, di fronte ad esse, a dire frettolosamente “mi piace” o, se siamo troppo infastiditi, “non mi piace”; vuole evitare anche, e prima di tutto, che riusciamo a dare un nome a quello che vediamo, quel nome che significa tanto riconoscimento (“ah, ho capito, è un …”) quanto e soprattutto significa un incontro mancato, perché quello stesso nome attutisce fino ad annullare l’effetto del trauma che ogni incontro comporta. Giaconia non vuole che capiamo, vuole che ci lasciamo prendere dal gonfiore del parassita per sperimentare la potenza intollerabile del nuovo. Perché «il parassita è un eccitatore. Lungi dal trasformare un sistema, dal cambiare la sua natura, la sua forma, i suoi elementi, le sue relazioni e i suoi cammini […], ne fa, differenzialmente, cambiare lo stato. Lo inclina. Ne fa fluttuare l’equilibrio o la distribuzione energetica. Lo dopa. Lo irrita. L’infiamma. Questa inclinazione, spesso, non ha effetto. Può produrne, per concatenazione, per riproduzione, giganteschi. Immunità o crisi epidemica»[18]. A Giaconia non interessa scegliere una fra queste due possibilità (che ormai, peraltro, conosciamo fin troppo bene). Gli interessa piuttosto sostare, e incoraggiarci a sopportare di sostare, in quella disgiunzione, in un modo, tuttavia, che non sia esclusivo; non si tratta, cioè, né di desiderare l’immunità chiusa in sé che è sempre sul punto di cadere nella condizione asfittica della malattia autoimmune del corpo che si aggredisce da solo; non si tratta nemmeno, però, di desiderare la crisi epidemica che non significa altro che morte e distruzione. Si tratta allora di riuscire ad abitare nell’incertezza fra l’asfissiante chiusura immunitaria da un lato e l’indeterminata apertura – con tutti i rischi che comporta – verso il fuori minaccioso rappresentato dal parassita dall’altro. A Giaconia interessa una disgiunzione, cioè o immunità o crisi epidemica, che sia però incredibilmente anche inclusiva, ossia che riesca in qualche modo a tenere insieme i due termini disgiunti.
«Il mondo era il Lambda 771, della serie Q» scrive nel suo diario Mary, l’astronauta che ripercorre la sua vita avventurosa nelle Memorie di una astronauta, il capolavoro di Naomi Mitchison: su quel lontanissimo pianeta «gli abitanti erano evoluti da una primitiva forma radiale, un po’ come una stella di mare a cinque braccia, risultante a sua volta da una spirale. […] Bisognava mettersi carponi per poterli vedere, ma ne valeva la pena. Queste creature avevano chiaramente un alto e un basso, reso necessario dalla forza di gravità. Ma la struttura a raggi […] dominava completamente ogni processo mentale e psichico»[19]. Mary – come ogni artista – è una specialista della comunicazione, non nel senso che deve comunicare un contenuto determinato, quanto in quello molto più importante di provare stabilire una relazione con qualcosa di radicalmente estraneo, ossia con qualcosa che non ha alcuna intenzione di entrare in relazione con noi (ossia, che non ha alcun bisogno di comunicare con noi); per questo «non fu semplice stabilire un contatto con quelle entità a raggi»[20]. In questo caso, però, il problema sta tutto in noi, nel nostro bisogno di stabilire se qualcosa è A oppure B, se è amico o nemico, se è «immunità» o «crisi pandemica»: «il meccanismo della comunicazione, come certo saprete, permette di effettuare giudizi e azioni automatiche il più rapidamente possibile, sulla base della successione costante di a o b, della scelta fra a o b, con una tecnica semi-intuitiva che tutti abbiamo appreso»[21]. Si tratta appunto di una tecnica «semi-intuitiva», quindi di fatto inconscia, ossia di una tecnica che pensa al nostro posto, e che ci impedisce di immaginare un modo non binariamente esclusivo di pensare e di vedere: diversamente da noi, infatti, i radiati – in conseguenza della loro peculiare conformazione fisica – «non pensavano mai in termini di opposti»[22]. È proprio questa, se esiste, la visione-parassita, che non è altro che un modo di vedere in grado di cogliere contemporaneamente l’opposizione fra entità radicalmente diverse senza però escluderne nessuna: «così, dopo un certo periodo di scambio con i radiati, tutto mi diventò molto confuso. Se l’alternativa non è più la scelta di uno tra due, ma di due, tre o quattro tra cinque, l’azione risulta complicata»[23]. Il parassita confonde i pensieri perché costringe a non escludere le alternative. Il parassita non sta mai solo dentro o fuori, è sempre contemporaneamente dentro e fuori, amico e nemico, salvezza e pericolo. Ecco perché per i radiati del mondo Lambda 771, della serie Q, «era possibile fare scelte multiple, più o meno conflittuali fra loro, mai opposte una all’altra, senza provare nessun imbarazzo»[24]. Per questa stessa ragione i radiati «non conoscevano l’abitudine di darsi un nome come noi Terreni, e come siamo portati a credere che si faccia nella maggior parte degli altri mondi»[25]. Ecco cos’è, infine, il parassita, qualcosa che non ha nome, che anzi rifiuta di essere imprigionato dentro la gabbia identitaria di un nome. È qui, come fa l’astronauta Mary cercando di adattarsi allo strano mondo dei radiati, che ci porta Oscar Giaconia.
Oscar Giaconia. Parasite soufflé
Monitor, Roma
fino al 16 giugno 2023
In copertina: Oscar Giaconia, Parasite Soufflé, 2023 (detail); Courtesy OG STUDIO and Monitor Rome, Lisbon, Pereto; ph. Giorgio Benni
[1] Francois Durand, F., 2016, Nature, creation and morality: The case of parasites’, in “Theological Studies” 72(4), ISSN: (Online) 2072-8050.
[2] «Se si adotta una definizione ampia di parassitismo, come ad esempio la necessità di nutrirsi di animali viventi senza che l’ospite muoia, allora quasi il 50% delle specie animali conosciute può essere classificato come parassita» (Robert Poulin, Serge Morand, The diversity of parasites, in “The Quarterly Review of Biology”, 75(3), 2000, pp. 277-293, p. 278).
[3] Cfr. Luis Villarreal, Viruses and the Evolution of Life, ASM Press, Washington 2005.
[4] Cfr. Stanley Prusiner, Prions, in “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, 95(23), 1998, pp. 13363-13383.
[5] William Trager, Living Together. The Biology of Animal Parasitism, Plenum Press, New York 1986, p. 6, passim.
[6] Cfr. Amanda Gibson et al., The evolution of reduced antagonism—A role for host-parasite coevolution, in “Evolution”, 69(11), 2015, pp. 2820-2830.
[7] Cfr. Carrie Arnold, The non-human living inside of you; Sarah Williams, Humans may harbor more than 100 genes from other organisms; Guenther Witzany, How viruses made us humans, in Nathalie Gontier, Andy Lock, and Chris Sinha eds., The Oxford Handbook of Human Symbolic Evolution.
[8] Vladimir Blinov et al., Viral Component of the Human Genome, in “Molecular Biology”, 51(2), 2017, pp. 205–215, p. 212.
[9] Anna Lowenhaupt Tsing, The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, Princeton University Press, Princeton 2015, p. 243.
[10] Il processo biochimico fondamentale per la vita sulla terra attraverso cui piante verdi e altri organismi, in presenza di luce solare, producono sostanze organiche a partire dall’anidride carbonica atmosferica e dall’acqua.
[11] Cfr. Dan Sperber, Il contagio delle idee. Teoria naturalistica della cultura, Feltrinelli, Milano 1999.
[12] Luis Villarreal, Are viruses alive?, in “Scientific American”, 291(6), 2004, pp. 100-105.
[13] Michel Serres, Il parassita [1980], a cura di Gaspare Polizzi, Mimesis, Milano 2022, pp. 29-30.
[14] Ivi, pp. 273-274.
[15] Ivi, p. 109.
[16] Ivi, p. 157.
[17] Ivi, pp. 238-239.
[18] Ivi, p. 230.
[19] Naomi Mitchison, Memorie di una astronauta [1962], Mondadori Urania, Milano 1995, p. 21.
[20] Ivi, p. 23.
[21] Ivi, p. 27.
[22] Ibidem.
[23] Ivi, p. 28.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem.