Kafka è di moda?

08/06/2023

Nel 1934, Günther Anders, una delle menti più lucide del Novecento, pronuncia, a Parigi, presso l’Institut d’Etudes Germaniques, una conferenza su Kafka. Anders, che certo non fu mai propenso al compromesso, tiene un discorso che lascia perplessa, se non disorientata, una platea, per lo più (a eccezione di Hannah Arendt e Walter Benjamin, rispettivamente, moglie e cugino di Anders), ignara di chi sia l’autore praghese al centro dei pensieri del filosofo tedesco.

Benché molti anni siano passati da allora, e molto diversa sia la nostra capacità di ricezione, è per noi possibile farci un’idea del tono dell’argomentazione di Anders leggendo il suo Kafka. Pro e contro, che proprio da quella conferenza ebbe origine. Si tratta di un’analisi illuminante e, allo stesso tempo, radicalmente critica dell’opera di uno degli autori più influenti del secolo scorso, un autore già in quegli anni al centro di attenzioni, talvolta isteriche, da parte dell’intellighenzia di lingua tedesca. Un’attenzione, quella degli intellettuali più avanzati di quegli anni, che accomunava apologeti come Max Brod, il grande amico di Kafka, sottili ermeneuti, come Gershom Scholem e Walter Benjamin, e spietati detrattori, per lo più disseminati in quella cultura reazionaria, se non esplicitamente filonazista, che vedeva nell’autore de La Metamorfosi una aberrante deriva giudaica della grande letteratura tedesca. Anders, inserendosi temerariamente all’interno di questo clima da arena, metteva in guardia, in modo preventivo, da quella che percepiva come “la minaccia incombente di una moda kafkiana”. Nessuno, forse nemmeno Benjamin, comprese sino in fondo, in quegli anni, il monito di Anders. Eppure, quella che, per certi versi, potrebbe sembrare una forma di snobismo da bastiancontrario seriale, di cui gli esempi non mancano nella storia recente e meno recente della cultura, si rivela un avvertimento a cui ogni autentico lettore di Kafka deve prestare attenzione, per non correre il rischio di cadere nel chiacchiericcio da pagina culturale o in quella sorta di svilimento salottiero della letteratura che riduce l’indecidibilità di un’opera, e a maggior ragione di quella kafkiana, a parola d’ordine, a ripetizione stereotipata o, per l’appunto, a posa, moda.

Se, da una parte, quindi, non si può che rallegrarsi dell’uscita in queste settimane di ben tre nuove ottime traduzioni dei romanzi kafkiani per i tipi del Saggiatore, come anche, presso Bompiani, di un’imprescindibile edizione critica, con testo tedesco a fronte, di tutti i romanzi e gli scritti pubblicati in vita dall’autore praghese e, non ultima per qualità, della presenza sui banchi delle librerie di una raccolta di saggi critici, a cura di Rocco Ronchi e Riccardo Panattoni, dall’altra, quando i processi di canonizzazione diventano la norma e l’esposizione mediatica assume i caratteri del fenomeno di costume, occorre sempre tornare a interrogarsi su come si possa o si debba, oggi, leggere un autore che era a tal punto schivo, a tal punto marginale rispetto al proprio tempo, da formulare la richiesta al suo esecutore testamentario di bruciare tutto quel che aveva lasciato nei cassetti, cioè la quasi totalità della sua opera. Chiaramente, anche questa domanda, in qualche modo, partecipa della “moda” (leggi della sterminata bibliografia e del cicaleccio giornalistico) che ha avvolto, fin quasi a farla scomparire, la singolare figura dell’autore de Il processo.

Kafka è diventato una sorta di abito buono per tutte le stagioni e per tutti i gusti. Da profeta di una nuova teologia ebraica a cabalista nichilista; da esegeta della disumanizzazione della società capitalista a investigatore dei sintomi dell’avvento dei totalitarismi; da innovatore spericolato di una scrittura distopica e fantastica a teorico di una letteratura al di là di ogni antropocentrismo (e questa lista potrebbe proseguire per, almeno, altre cinque pagine). Insomma, un Kafka prêt-à-porter e ormai divenuto un “classico” o, per dirla con Anders: Kafka, scrittore alla moda.

Quel che è certo è che questo Franz Kafka, questo Kafka per tutti e per nessuno, questo Kafka che surfeggia sulle copertine delle riviste e furoreggia nella superficialità dei meme social, è anche – e in questo anche la cifra di un’epoca – uno dei rari scrittori novecenteschi che non cessa di abitare le profondità di coloro che, in questo secolo di vita della sua opera, hanno cercato di confrontarsi, non solo con le nuove frontiere della scrittura, ma con i limiti del pensiero. Kafka è stato tra i pochi a inoltrarsi (e noi lo abbiamo seguito) nei territori più remoti e sconosciuti del nostro mondo. Non c’è stato nessuno che sia andato più in là. Sicuramente, c’è qualcuno che, nella scrittura, ha raggiunto picchi di raffinatezza maggiori dei suoi (come, ad esempio, Proust o Beckett o la Virginia Woolf de Le onde), ma nessuno si è scontrato e, probabilmente, sfracellato come lui contro il muro invisibile che separa il nostro tempo dal futuro.

Se c’è qualcosa che Kafka ci ha davvero mostrato è quanto non siamo in grado di vedere cosa, oggi, ci opprima e ci costringa a essere quel che siamo e a fare quello che facciamo. Un sentimento, sempre meno euforico, ci fa sentire tutti liberi, più liberi che mai, ma in fondo, in modo oscuro, percepiamo, anche grazie alla sua lettura, di essere esclusivamente liberi di obbedire a una Legge di cui non comprendiamo più, in alcun modo, il senso. Tutti, più o meno entusiasti o più o meno depressi, ci rispecchiamo nella sua opera, da lui abbandonata dentro la grande casa del Padre assente, del Padre la cui Legge è divenuta letteralmente incomprensibile. Viviamo in un’epoca di coazione a ripetere, di una libera coazione a ripetere. Ci destiniamo a gesti, pratiche, costumi di cui, nei rari momenti di lucidità, comprendiamo di non comprendere in alcun modo il senso. Viviamo, lavoriamo, scriviamo, moriamo senza avere la minima idea del perché. Tutto è sospeso nell’indecisione di un vuoto di senso che, se nel primo Novecento aveva i tratti angoscianti del crollo nichilistico del sistema valoriale di una civiltà, per noi assume quelli narcolettici di un sonnambulismo globalizzato senza meta.

Ma è proprio alla luce del suo reiterato tentativo di sottrarsi, pur senza mai davvero riuscirci, alla vigenza di questa Legge vuota che l’opera di Kafka proietta, senza possibilità di riparo, la sua ombra sul nostro tempo. La sua grandezza risiede esattamente nell’impossibilità di essere incasellata. È l’indecidibilità del “messaggio” celato nella sua scrittura a rendere Kafka il maggiore scrittore della contemporaneità, quello con cui tutti tornano a confrontarsi e che tutti, in un modo o nell’altro, devono cercare di superare per poter davvero scrivere e pensare. Si dirà che, in fondo, non c’è nulla di nuovo perché questo tentativo di superamento dei precursori è ciò con cui, da sempre, gli autori di ogni tempo hanno dovuto cimentarsi per liberarsi, usando i termini di una teoria ormai classica di Harold Bloom, dell’angoscia dell’influenza. Ma superare un ostacolo che ha nell’inafferrabilità e nell’invisibilità le sue caratteristiche principali è la cosa più complessa. Superare un autore che sfugge ogni volta si tenti di afferrarlo è un compito, probabilmente, inedito nella storia della letteratura e del pensiero. Kafka è ben più di un classico e ben più di un enigma; Kafka è l’indecisione che si fa parola, che si fa frase.

Josefine canta e noi con lei, anche se nessuno davvero capisce cosa canti. Capiamo solo che torna, ancora e ancora, a battere il ritmo di una frase che ci sottrae al silenzio regnante nella casa deserta del Padre. Cercare una frase nel silenzio, strappare una frase al silenzio, è forse questo che, da oltre cento anni, l’opera di Kafka ci mostra e ci invita a fare. Ed è, forse, per questa sua flebile ma indistruttibile forza vitale, custodita all’interno della sua scrittura inafferrabile, che Kafka torna, generazione dopo generazione, ad affascinare e inquietare. Certo il rischio che una tale frase si trasformarmi solo in uno slogan alla moda è sempre in agguato – come testimonia, per fermarmi alla mia piccola biografia, una maglietta, con stampato il volto del giovane Franz, a cui ero tanto affezionato e che mi spinse a leggere i suoi libri più per posa che per reale interesse (inutile aggiungere che mode più sofisticate, ma non meno poseuses dell’adolescente che fui, sono sempre presenti anche tra non più adolescenti intellettuali). Se questo rischio, questa riduzione di un pensiero senza identità a vuoto messaggio identitario è ancora, non solo possibile, ma quasi inevitabile, nell’epoca della spettacolarizzazione totale, è pur anche vero, come ha mostrato Benjamin, che ogni moda – se riesce a liberarsi dai luoghi comuni del pensiero dominante (e, non meno importante, dei processi di produzione dominanti, che tutto triturano) – “ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto dei tempi lontani” e può divenire quel “balzo di tigre nel passato” che libera, spezzando le catene di un tempo che si ripete sempre identico, un futuro ancora a venire.

Franz Kafka
Il processo
trad. di Valentina Tortelli
il Saggiatore, 2023
pp. 268, € 18

Franz Kafka
Il castello
trad. di Alessandra Iadicicco
il Saggiatore, 2023
pp. 390, € 21

Franz Kafka
Il disperso
trad. di Silvia Albesano
il Saggiatore, 2023
pp. 306, € 19

Franz Kafka
Tutti i romanzi, tutti i racconti e i testi pubblicati in vita
a cura di Mario Nervi
Bompiani, 2023
pp. 2336, € 65

Kafka:
a cura di Riccardo Panattoni e Rocco Ronchi
Mimesis edizioni, 2023
pp. 194, € 18

Federico Ferrari

(Milano, 1969). Insegna Filosofia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra i suoi ultimi libri: “L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine” (Johan & Levi, 2013), “L’anarca” (Mimesis, 2014; 2a ed. Sossella, 2023), “Oscillazioni” (SE, 2016), “Il silenzio dell'arte” (Sossella, 2021) e, con Jean-Luc Nancy, “Estasi” (Sossella, 2022).

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