Lo studio, anche se non più in qualità di museion, rimane pur sempre un luogo della memoria, non tanto di oggetti, ma di forme, di tradizioni e tradimenti di forme. Per come abbiamo imparato a conoscerlo negli ultimi decenni è diventato il luogo in cui otium e negotium si fondono e confondono. Talvolta non vi è pratica artistica possibile senza studio, talaltra lo spazio fisso e chiuso dello studio viene disprezzato e accantonato; il suo statuto oscilla: da cella monastica a camera del principe, da Giorgio Morandi a Damien Hirst, fino al paragone che Anselm Kiefer porta tra lo studio d’artista e il CERN – luoghi dove si studia l’origine.
La mostra At the Studio presso la Collezione Giancarlo e Danna Olgiati a Lugano nasce dall’entusiasmo per quelle opere di recente acquisizione – fresche d’incontro e di fascino – che danno adito a una riflessione per immagini sullo studio d’artista. Prime fra tutte sono un quadro di Ilya Kabakov e un pannello musivo anonimo di fine Settecento; ottime chiavi d’accesso alla visione della mostra.

Dopo The Kabakovs and the Avant-Gardes del 2016, in cui Emilia e Ilya Kabakov furono il perno della mostra, uno dei Kabakov torna ad essere protagonista negli spazi Olgiati: At the studio variation nr. 3 di Ilya Kabakov (scomparso il 27 maggio scorso) è senz’altro il vessillo della nuova mostra. Il suo quadro, realizzato nel 2021, ci cala nella tradizione della grande pittura moderna, nei ritratti d’atelier, negli autoritratti nell’atto di dipingere. Penso all’Atelier del pittore di Courbet, all’Allegoria della Pittura di Vermeer, ma soprattutto è chiaro il debito verso Las Meninas di Velázquez. Nello studio stanno un anziano (Ilya Kabakov) e una bambina in primo piano, entrambi intenti a dipingere sotto una luce hopperiana, anche se priva di quella sospensione che in Hopper è peculiare; si tratta di un’immagine intima e famigliare, dal tono raccolto come nel pannello musivo non lontano in cui Maddalena legge una piccola Bibbia. Ma se guardiamo i quadri riprodotti nel dipinto di Kabakov, inizia un gioco di specchi in cui quadri di diversi tempi entrano in relazione senza un ordine apparente. Ecco la prima chiave.

Alle spalle del quadro di Kabakov, nella stessa sala, sono accostati Armoires dans une vallée di Giorgio De Chirico e il Dedalo di Alberto Savinio, dove lo spazio chiuso dello studio viene fin da subito messo in dubbio. Pietro Roccasalva sta loro difronte con sovrapposizioni di colore che si distinguono dalle velature rinascimentali, seppure ne seguano la tradizione.

Nel dipinto sta un barcaiolo: qui si apre un altro itinerario. Louise Bourgeois, Emilio Isgrò, Marisa Merz, Tatiana Trouvé. E in prossimità delle sculture di Fausto Melotti si è sorpresi di rivedere sottili aste e dischi di metallo, pare di averli visti poco prima nelle fotografie di Ugo Mulas – all’interno dell’itinerario della mostra, allora, è possibile che le fotografie di Mulas si facciano presagio delle sculture di Melotti? Le fotografie di Cy Twombly, invece, per una qualche analogia figurale, ci riportano in mente i due quadri di Savinio e De Chirico. Così, in pochi metri quadrati, si viene proiettati in avanti e indietro da somiglianze inaspettate.

A questo punto è chiaro che la boria dell’Atelier di Courbet e l’opulenza di Hirst sono escluse dalla mostra. Prova ulteriore ne è il rilievo in terracotta accanto alle fotografie di Twombly: si tratta della stanzetta di un violoncellista, modellata da Arturo Martini nel 1931. Se il quadro di Kabakov è il vessillo della mostra, allora il pannello musivo con Maddalena si rivela essere il piccolo ritratto nel taschino, il motivo per cui è necessario stendere il vessillo.

Ecco la seconda chiave. Il Violoncellista di Arturo Martini e la zuppiera fotografata da Franco Vimercati sono presenze dello stesso silenzio; lo stesso che viene dall’opera di Rachel Whiteread: a prima vista sembra una traduzione scultorea della pittura di Morandi – in tutto e per tutto ne richiama i toni tenui, la pazienza spessa, la discrezione, la compostezza e la composizione – pare proprio che anche Whiteread abbia lasciato che la polvere si depositasse; però non sono bottiglie, non ciotole, ma pieni dei vuoti, e non di case e scale, ma di scatolette da nulla, tanto insignificanti da indurci ad assumere la stessa quieta attenzione che la Maddalena nel mosaico ha sulle lettere della Bibbia.

La solitudo di cui parlava Petrarca, necessaria all’attività spirituale, non si trova in città se non in stanze dai muri spessi, se non sottoterra. In questo luogo, al chiuso della camera a lume di lampada, dove – come scrivevano i latini – si dà la miglior forma di isolamento, si stringono i nessi con gli altri tempi, gli altri studi, le altre opere. E nella mostra della Collezione Olgiati l’occhio rimbalza per tutto il Novecento, ma viene portato anche più oltre percorrendo itinerari inattesi.

Le opere sono legate le une alle altre non da un cerchio tematico come potrebbe avvenire in un museo, ma piuttosto dal diramarsi di un albero dove ogni snodo e foglia ci mostra un volto di quello che, in un modo o nell’altro, tocca la realtà dello studio. E se talvolta lo studio è scrigno di angoscia, di eccitazione, noia o desolazione, e spesso luogo prediletto dal solipsismo, in questa divagazione per immagini si è scelto lo studio come luogo intimo e raccolto, seguendo la tradizione delle celle e dei primi studioli del basso medioevo: ad ogni opera è concesso molto spazio, quasi non si volesse disturbarne le rispettive introversioni.

At the Studio
a cura di Danna Olgiati
con un saggio di Alberto Salvadori
Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Lugano
aperta fino all’11 giugno 2023
(dal venerdì alla domenica h.11.00-18.00, entrata libera)
In copertina: Franco Vimercati, Senza titolo (Zuppiera), 1991, fotografia s/n ai sali d’argento stampa vintage eseguita dall’artista; foto dell’installazione di Agostino Osio per Alto Piano © Collezione Olgiati