Nell’Annunciazione di Francesco del Cossa, l’«anomalia della lumaca» che serpa sul bordo della costruzione prospettiva chiama «ad una conversione dello sguardo», per la quale in ciò che vediamo non vedremmo ciò che guardiamo; o, meglio, in ciò che vediamo non vediamo ciò che guardiamo, ciò per cui, nell’attesa di cui, noi stiamo guardando: «l’avvento dell’invisibile nella visione», il dettaglio che – ha puntualizzato Daniel Arasse – fa sì che la rappresentazione si disarticoli, si dislochi, si annienti. È seguendo il portato di una tale iconografia analitica che sarebbe possibile dare espressione a ciò che Delacroix definisce «la silencieuse puissance de la peinture», ovvero a quell’elemento non verbale che connota ogni opera d’arte, e che ne mette in questione, per conseguenza, il suo statuto ontologico, in ragione dell’equivalenza secondo la quale l’essere che può venir compreso coincide con il linguaggio. A cospetto d’un manufatto artistico sarebbe allora necessario chiedersi se non sia l’«inesistente» a doversi intendere – ha scritto Gabriele Guercio sul margine dei Tutto di Giovanni Anselmo (testo ora raccolto in Antidestino. Quattro esempi dell’arte italiana) – come «l’indistruttibile garante del pensiero dell’infinito che affiora nelle menti degli esseri senzienti e cogitanti»: di quella pura immanenza che si lascia accostare al pensiero di un infinito cantoriano, un infinito attuale e non meramente potenziale.

È attorno a questo tentativo di dare un nome a quell’inesistente che alona le opere d’arte e che, come già mostravano le pagine di Opere d’arte e nuovi inizi (Quodlibet 2022), non è una mancanza o una forma in cavo intagliata dal nostro inconscio, o dal nostro «implesso», quale capacità di sentire, reagire, fare, comprendere, ma il manifestarsi di un qualcosa privo d’antecedenti, che si sviluppa l’indagine di Guercio sui significati profondi delle opere di Michelangelo Pistoletto, Giovanni Anselmo, Francesco Matarrese e Gino De Dominicis. Le quali si troverebbero accomunate dal loro riuscire a mettere in discussione «lo status quo (artistico, storico-artistico, culturale o storico che sia), introducendo nel mondo desiderata, progetti e prospettive inedite. Ciò le fa apparire sottratte e inintelligibili rispetto a qualsivoglia ordine discorsivo, dominante o no, di cui non siano esse stesse le propulsive artefici. Nella loro stanziale finitezza, le opere evidenziano così l’infinito: l’implicita possibilità di un’eccedenza che le esime da qualsiasi relazione con il noto o l’acquisito».

È questo il caso della Signora di Warka di De Dominicis, la cui storicità destrutturata la renderebbe astante nel tempo e perciò partecipante di una immortalità che fa premio sull’impermanenza e sulla finitudine. In questa fotografia alterata da colori a olio che ritrae la sumerica Dama di Uruk, quanto si vorrebbe evocare non sarebbe altro che un tempo estraneo all’evoluzione e all’irreversibilità: una perennità tetragona a ogni entropia. Ancora, e sempre secondando il tentativo di mostrare l’infinito polisemico proprio d’ogni opera d’arte o, meglio, l’infinito che esprime la molteplicità mai riducibile ad unità alla quale l’opera d’arte fa segno, Guercio si sofferma sulle opere degli anni Sessanta realizzate da Pistoletto, ravvisando in esse un infinito che corrisponde all’impossibilità di eliminare un pensiero asintotico. Quel «non-tutto» che indica, secondo Lacan, l’assenza d’una ipostasi ultima, di una episteme finale, riaffiorerebbe nell’attività artistica di Pistoletto, nel momento in cui essa presenta l’unità non più come inflessibile, ma come «l’emblema dei molti allontanati dall’uno». Il suo «concedersi alla distanza» permetterebbe alle prove artistiche di Pistoletto di rendere evidente il loro fungere da soglia tra la propria origine e il loro destino. Ovvero il loro farsi «antidestino»: espressione di Malraux, nella quale Eugenio Montale vedeva «la liberazione dalle chiuse del determinismo, la libertà interiore che piega il fato e lo vince», e che Guercio recupera per affermare quella «renovatio mundi» che permeerebbe il patrimonio artistico nella misura in cui questo è potenzialità assoluta e insieme correlativo oggettivo di quella «stanzialità sottratta e intrisa di infinito», di quella «verità» che – scrive Guercio riferendosi alle Non-opere di Matarrese – è propria di «quel che non c’è».
Ogni opera non sarebbe in tal senso altro che il simbolo di uno sguardo cieco. Quasi che la sua immanenza non facesse che annunciare l’imminenza di una rivelazione che non si produce, e nella quale si sostanzierebbe l’estetico. Il quale non si estrinsecherebbe nel flusso della contemplazione sollecitato dal «levarsi» dell’opera (come scrivono i Goncourt riferendosi ai dipinti di Chardin) entro un campo di visione che circoscrive una struttura di rappresentazione. Piuttosto, esso tenderebbe ad imporsi mediante il riconoscimento che ogni opera reca con sé un eccesso di significato sul significante. Cosicché entrambi, significato e significante, assumerebbero una sostanziale autonomia, capace di assicurare a ciascuno di essi una significazione virtuale. In quest’ambito supposto, al quale sarebbe precluso di farsi tangibile, troverebbe dimora unicamente il commento, l’invenzione. La scrittura di Guercio ne sarebbe allegoria, simbolo, emblema, attraverso il suo effondersi sulle opere che elegge a oggetto della propria esegesi fino al punto da sovrapporre e far coincidere la loro Sinnesfülle, la loro infinita significanza, con il compito interminabile del commento. Eppure – osservava Foucault – c’è commento soltanto se al di sotto di ciò ch’esso s’impegna a decifrare permane l’opera primitiva la quale, nel fondare il commento, gli promette come ricompensa la propria scoperta finale: «Die Trübung, mag sie bald vergehn, / es bleibt die zarte Zeichung stehn», «Il vapore tra poco svanirà, / rimarrà il delicato disegno» (Celan-Mandel’štam, Mi è dato un corpo).
Gabriele Guercio
Antidestino. Quattro esempi dell’arte italiana 1965-1983
Cronopio, 2022
pp. 218, € 17
In copertina: Francesco Del Cossa, Annunciazione, 1470 (particolare)