Dove Kabakov?

05/06/2023

Il 27 maggio, a pochi mesi dal novantesimo compleanno, se n’è andato Ilya Kabakov: che con sua moglie Emilia aveva dato vita a uno dei più straordinari binomi artistici del nostro tempo. «Antinomie» lo ricorda proponendo ai suoi lettori il ricordo di Chiara Bertola (che nel 2003 curò alla Fondazione Querini Stampalia, allestendola nell’area espositiva al terzo piano, la mostra site specific dal titolo Where is our Place?), che modifica il testo incluso nel suo volume Conservare il futuro, da poco pubblicato presso Bruno e già presentato su «Antinomie».

Ilya insieme ad Emilia Kabakov sono maestri e amici, figure fondamentali nella mia vita non soltanto professionale. Due giorni fa mi ha chiamata Emilia per avvisarmi che Ilya se n’era andato. Quando un maestro ci lascia, ci si sente subito un po’ più soli sulla terra e dobbiamo ripassare e rivivere gli insegnamenti che ci hanno lasciato. Per l’uscita del libro, appena pubblicato con i Bruno editori di Venezia, che raccoglie 25 anni di progetti che ho curato alla Fondazione Querini Stampalia, ho ripercorso la straordinaria avventura che ho avuto la fortuna di vivere insieme a loro dal 1999.

Quella che ho intrecciato con loro è stata una lunga storia, che si è dipanata attraverso i periodi trascorsi insieme a Venezia, poi nella casa/studio di Mattituck a Long Island, e ancora a Palermo, dove con Paolo Falcone avevo allestito la complessa mostra Monument to a Lost Civilization nel 1999, e a Milano, all’Hangar Bicocca, in occasione della grande installazione The Happiest Man del 2012. Di sicuro, uno dei più incredibili progetti che ho avuto il privilegio di curare con loro è Where is our Place?, tagliato su misura per la Querini Stampalia nel 2003.

Con i Kabakov ci eravamo conosciuti durante la Biennale del 1993, quella molteplice e vitale edizione diretta da Achille Bonito Oliva, alla quale avevo avuto la fortuna di collaborare. Da quel momento, per me, tutto aveva avuto inizio. Achille mi aveva affidato l’organizzazione della mostra Slittamenti ai Cantieri delle Zitelle alla Giudecca. Ero l’unica collaboratrice a vivere a Venezia e sapevo come muovermi e relazionarmi in quella città fragile, una circostanza importante che mi consentiva ampio spazio di manovra su tutti i fronti. Ilya Kabakov rappresentava la Russia, con l’installazione The Red Pavilion. In quell’occasione avevo aiutato e supportato lui ed Emilia, trovando affidabili artigiani, assistenti, taxisti, ristoranti, cercando di corrispondere a ogni loro esigenza.

Ilya aveva trasformato lo storico padiglione russo in un edificio abbandonato: di fronte all’accesso aveva disposto rami sparsi, assi e altri materiali da costruzione; all’interno, abiti da lavoro, barattoli di vernice, stracci, spazzole, ammucchiati in una penombra polverosa che quasi scoraggiava il visitatore. Chi si avventurava nello stretto corridoio allestito in quell’ambiente era però attirato da una luce sul fondo, quella di una porta finestra che dava su un piccolo balcone. Da quel punto di vista si poteva scorgere, poco distante, un piccolo padiglione rosso, sfavillante e festoso, sulla cui sommità era stato collocato un altoparlante che divulgava allegri motivi di musica popolare sovietica degli anni Cinquanta. Non si capiva bene la relazione tra i due edifici: il piccolo padiglione, simbolo scintillante del regime sovietico, rappresentava un territorio scomparso, anch’esso residuo del passato, oppure era soltanto nascosto dietro alle spalle dell’edificio tradizionale, pronto a tornare nel luogo da dove era stato recentemente espulso? Nelle opere di Ilya il giudizio rimaneva sempre sospeso. Era stata questa la sua prima lezione per me: capire quanto difficile fosse emettere giudizi sulla storia, sul presente, sulle cose, perché tutto era sempre relativo. I giudizi, Kabakov, ha sempre preferito lasciarli aperti, piuttosto rilanciandoli sotto forma di domanda agli spettatori.

Mentre scrivo è il 2022 e da febbraio la Russia di Putin ha scatenato una feroce guerra contro l’Ucraina, il paese di origine dei Kabakov; Emilia ha commentato così i fatti in un’intervista al «Giornale dell’Arte»: «Il “Red Pavillon” era stato costruito nel 1993 per dimostrare che l’Unione Sovietica non è mai veramente scomparsa. Sì, all’epoca la perestrojka di Michail Gorbačëv era ancora in corso in Russia. Oggi si è scoperto che tutto ciò che la Russia è riuscita a costruire e a cambiare negli ultimi 30 anni è scomparso da un giorno all’altro, e tutto sta tornando allo stesso vecchio sistema di repressione.  Il mondo intero si è capovolto… Il “Red Pavillonè tornato».

Ho potuto immergermi ancora più profondamente nel mondo poetico dei Kabakov, e capire meglio le tematiche che lo sostanziavano, durante la grande installazione intitolata Monument to a Lost Civilization curata insieme a Paolo Falcone ai Cantieri della Zisa di Palermo nel 1999. Proprio in quell’occasione, eravamo riusciti a far tradurre per la prima volta in italiano i testi relativi alle 38 installazioni storiche dei Kabakov che componevano il progetto. L’opera era infatti un’installazione “totale”, formata a sua volta da installazioni che, dall’inizio degli anni Ottanta, avevano iniziato a raccontare la vita quotidiana di comuni persone sotto il regime sovietico stalinista. Ilya ripeteva sempre a me e a Paolo che l’intenzione sua e di Emilia era «mostrare l’infermo a chi vive nel paradiso». Un inferno che si poteva ricostruire attraverso le voci, le illusioni, le fantasie che risuonavano nelle stanze dei suoi Dieci personaggi (1981-1988, L’uomo che colleziona le opinioni degli altri; L’uomo che vola nello spazio dal suo appartamento; L’artista privo di talento; L’uomo che non butta mai niente; L’uomo che entra nella sua pittura; L’uomo basso; Il compositore; Il collezionista ecc.) e in tutte le altre complesse installazioni che raccontavano la doppia vita dell’«Homo Sovieticus»: quella falsa e illusoria della propaganda e quella difficile ma reale della quotidianità.

Quando ho iniziato a leggere le storie che descrivevano la vita dei Ten Characters e i loro stravaganti tentativi di fuga, mi sono ritrovata immersa in una straordinaria rete di discorsi, ricordi, denunce, racconti: soltanto in quel momento sono riuscita a capire che quel complesso intrico di parole che accompagnava le opere, ne costituiva l’elemento fondamentale, l’essenza profonda. Quelle storie, alla fine, riguardavano e toccavano anche noi, uomini e spettatori qualsiasi, che fuori dalla storia della Russia socialista potevamo comunque identificarci nelle ossessioni, nei vissuti, nelle illusioni dei suoi protagonisti. Ho compreso che qualunque storia venisse raccontata nelle installazioni dei Kabakov parlava sempre di tutti, assumeva una valenza universale. Questa è la grandezza della loro opera. Conoscerli, entrare nel loro mondo, iniziare a dialogare con loro, condividere temi e idee, costruire progetti insieme, ha costituito per me un percorso di formazione fondamentale. Era come se avessi ottenuto l’accesso a una privilegiata “scuola” per curatori: uno dei più importanti regali che il mondo dell’arte contemporanea mi avesse mai fatto.

Monument to a Lost Civilization fu dunque un’esperienza felice, in un tempo in cui i progetti espositivi ammettevano ancora la creatività e l’improvvisazione nella ricerca delle soluzioni organizzative. Ricordo che non si andava al ristorante ma, grazie a Paolo e ai suoi fedeli fornitori, ogni giorno alle quattordici appariva su assi improvvisati un banchetto inimmaginabile per colori e profumi di freschi cibi siciliani. Si trattava di una pausa importante, almeno quanto il tempo del lavoro, perché intorno a quella tavola precaria si creava un’intimità speciale che disponeva gli animi ai racconti e alla conoscenza reciproca.

Poi c’è stata Venezia. Quando hanno visitato per la prima volta la Fondazione Querini nel 1999, Ilya ed Emilia sono rimasti sorpresi di fronte a un luogo capace di cambiare storia, architettura e atmosfera a ogni piano: negli spazi della Fondazione, passato e contemporaneo erano già in relazione, un presupposto fondamentale per il loro intervento.

Ilya & Emilia Kabakov, Where is our place?, Fondazione Querini Stampalia onlus, Venezia 2003

Come in altre “installazioni totali” dei Kabakov, anche nel progetto proposto per Venezia non esisteva un vero e proprio oggetto artistico da mostrare; ci si incentrava su una domanda, rivolta allo spettatore, che focalizzava a partire dal titolo l’importanza e la necessità di una nuova coscienza critica ed etica. La domanda era: Where is our Place? Gli artisti mettevano dunque in questione il loro stesso posto nell’arte, ma anche, in generale, il posto e il ruolo degli artisti contemporanei sulla base del principio secondo cui tutto è relativo e soltanto la storia sarà in grado di determinare chi veramente avrà lasciato un segno.

L’installazione era estremamente complessa, giocando sui piani temporali e sul sottile confine tra realtà e illusione. Nell’installazione la coesistenza di tempi (presente, passato e futuro) e punti di vista era resa concreta: entrando, lo spettatore trovava all’altezza del proprio sguardo una serie di anonime fotografie sovietiche, accompagnate da poesie. Era questa la mostra di cui era testimone contemporaneo. In alto sulle pareti, però, egli poteva scorgere la parte inferiore di enormi cornici dorate: era l’altra mostra, quella di quadri del XIX secolo, di cui lui aveva una prospettiva limitata (come accade per tutto ciò che è passato). Quella mostra era invece fruibile dai due insoliti personaggi che si incontravano nelle sale del museo: un uomo e una donna giganteschi, abbigliati in modo ottocentesco, dei quali si potevano scorgere soltanto i piedi e intuire le dimensioni. Inevitabile l’effetto di spaesamento spaziale e temporale: mentre guardavi la mostra del tuo tempo, avevi di fianco un paio di gigantesche scarpe, appartenenti a due figure di fine Ottocento che guardavano un’opera a loro contemporanea.

disegno preparatorio per: Ilya & Emilia Kabakov, Where is our place?, Fondazione Querini Stampalia onlus, Venezia 2003

Tutto era relativo, sembrava avvisarci Kabakov, così come relativa era anche la nostra posizione nel mondo. Ma il senso di “relatività” non si limitava alla relazione tra passato e presente: se esisteva qualcosa di più grande rispetto a noi, doveva esserci naturalmente qualcosa di più piccolo. Ecco allora che, entrando nel Portego dello spazio espositivo, lungo i bordi in alcuni punti del pavimento si potevano scorgere delle feritoie protette da plexiglass. Avvicinandosi e accovacciandosi, in quegli interstizi era possibile osservare minuscoli paesaggi, con prati, colline, montagne che si perdevano all’orizzonte. Guardando con attenzione risultavano visibili anche automobili, animali, persone… insomma, un intero mondo microscopico coesistente con quello macroscopico dei giganti, a indicare la dimensione dell’immaginazione, del futuro.

Attraverso l’accostamento delle tre scale dimensionali e storiche i Kabakov proponevano un inusuale viaggio nel tempo e nello spazio, suggerendo anche una riflessione critica sull’arte contemporanea, il suo valore, la sua fruizione in relazione all’arte antica.

In quale modo dovevamo porci nei confronti dei giganti del passato? Qual era il nostro posto? Come doveva essere il nostro sguardo? Erano domande importanti, che mi chiamavano in causa in modo particolare per via del mio lavoro di curatrice in una fondazione storica come la Querini. In quel periodo ci si interrogava appunto sul rapporto tra il contemporaneo e la tradizione, su come far dialogare la collezione antica con le opere degli artisti contemporanei invitati, in modo che non si trattasse soltanto di una relazione estrinseca ma di un incontro vitale, creativo, fecondo di nuovi significati. Sapevamo bene che dichiarando la fine della tradizione, il postmoderno sembrava aver interrotto la possibilità di una relazione positiva e proficua con il passato; anzi, il passato era visto come un grande deposito culturale di immagini che di volta in volta venivano utilizzate come sfondi muti. Era di nuovo possibile ritornare a guardare in alto (seguendo la suggestione di Kabakov), e ridarci, attraverso l’arte, profondità e felicità riempiendo il vuoto prodotto dalla deriva postmoderna?

Quello che ci stavano indicando Ilya ed Emilia era che l’arte non poteva affermare sempre qualcosa di nuovo, ma nemmeno riavvolgersi nella tradizione, cristallizzandosi nella citazione dei classici. Occorreva invece riprendere il confronto con il tempo passato, portando a compimento quelle possibilità che il passato non aveva compiuto interamente ma che in qualche modo aveva intuito e iniziato a costruire. Era quello che avrei perseguito come curatrice, cercando di riconsiderare passato e presente in una prospettiva di relatività e di scambio davvero produttiva. Penso infatti che il compito di un’istituzione sia quello di aiutare il pubblico a modificare la propria percezione del tempo, in modo tale che il passato, alla luce del presente, possa ancora essere capace di generare significati nuovi.

L’installazione proposta dai Kabakov, oltre che concettualmente complessa, ci sottoponeva una serie di problemi tecnici non indifferenti: era di dimensioni enormi, costosa e certamente sproporzionata per la piccola esperienza della Querini nella realizzazione di progetti site specific di arte contemporanea. Ero però affascinata da quel progetto e convinta che quello slancio apparentemente insostenibile fosse necessario per restituire alla Fondazione credibilità e visibilità. E non ero certo la sola a crederlo. Al mio fianco avevo tutte le persone stupende che vi lavoravano e gli artisti stessi, i quali si sono sentiti parte di un unico organismo, coinvolti da un obiettivo comune. Per l’occasione avevano attivato tutte le loro relazioni necessarie all’installazione: oltre agli sponsor ufficiali, era arrivato un aiuto fondamentale nella produzione materiale delle cose dalla comunità dei galleristi e dei collezionisti, i quali si erano presi in carico la costruzione delle varie parti previste nel disegno del progetto. Le mezze cornici di legno dorato, ad esempio, erano state prodotte in Toscana dagli artigiani della galleria Continua; le gambe dei giganti provenivano dal dipartimento di scenografia del Metropole di New York; dall’Inghilterra erano poi arrivati i falegnami di fiducia di Ilya, che grazie alla loro esperienza avevano costruito velocemente il pavimento da giustapporre a quello esistente. Il legno utilizzato era stato regalato dall’azienda svizzera di un collezionista amico. Mentre dalle finestre issavamo le scarpe dei giganti – non passavano attraverso le scale tanto erano enormi! –, Ilya dipingeva, su larghi tavoli preparati per lui, i pezzi dei grandi quadri che sarebbero sbucati in parte dal soffitto, decorandoli con figure e putti in stile Barocco/Rococò.

allestimento di: Ilya & Emilia Kabakov, Where is our place?, Fondazione Querini Stampalia onlus, Venezia 2003

Insomma, l’allestimento di Where is our Place? è stato lungo e complicato, costellato di incidenti grandi e piccoli che fortunatamente abbiamo sempre risolto con soluzioni creative e sostenibili. Ogni giorno ridefinivamo con Ilya le nuove indicazioni utili all’esecuzione materiale dell’installazione, fondamentali per non indebolire l’idea generale. Di solito erano micro variazioni estetiche, che risultavano però determinanti in relazione al senso del progetto; in altri casi si trattava di interventi più impegnativi. Ricordo in particolare due episodi da cui ho tratto insegnamento.

Dalle finestre del terzo piano della Querini si apriva uno dei più strepitosi panorami sui tetti di Venezia. Una mattina, arrivando in Fondazione, ho trovato Ilya seduto con il viso tra le mani. Era il segno di una «big katastroph»! Il motivo era il seguente: bisognava «coprire quel paesaggio fuori dalle finestre» perché «troppo forte! I visitatori non devono distrarsi». Non capivo. Era così potente quella vista… Emilia mi spiegò con pazienza che era fondamentale per chi accedeva a quello strano museo – dove passato e presente si manifestavano contemporaneamente – poter avvertire un cambio di atmosfera, come se si entrasse in una macchina del tempo. Era necessario immergersi totalmente in quel mondo, rompendo le connessioni con l’esterno, per quanto straordinario come il paesaggio di Venezia. Fortunatamente i Kabakov mi hanno suggerito la soluzione, che consisteva nel coprire con pezzi di nylon spesso tutte le finestre. Sarebbe stato sufficiente per attenuare e offuscare quella “ingombrante” visione.

In un’altra occasione, gli artisti mi hanno fatto notare che il grigio dello spazio espositivo non era esattamente quello a loro familiare degli ambienti burocratici sovietici. I muri di quelle istituzioni, mi raccontavano i Kabakov, erano infatti divisi in due parti, grigio e marrone separati da una linea blu tipica di tutti gli uffici: «la sola vista di quel muro è sufficiente per noi, a riportarci in quell’ambiente e a procurarci ogni volta una sensazione di malinconia e disillusione». Ho così compreso che per quegli artisti il colore dei muri aveva un significato metaforico fondamentale: con i grigi e i bruni ci facevano entrare direttamente nella steppa desolata del loro paese, mente attraverso il colore del soffitto (il grigio azzurro) ci facevano vedere il cielo, un’apertura, uno spazio insondabile; la linea azzurra diventava un orizzonte. L’ho capito e li ho seguiti, perché i Kabakov stavano cercando di rappresentare l’irrappresentabile, uno spazio dipinto in cui era evocato il disincanto, ma era anche assicurata la possibilità di un varco. Tutti i 400 mq dello spazio espositivo sono stati ridipinti secondo le loro indicazioni.    

Lavorando con i Kabakov ho rafforzato l’idea che il confine tra la realtà e l’immaginazione è sempre fragile e i ruoli dell’arte e della vita sono intercambiabili. Mi è apparso ancora più chiaro curando nel 2012 all’Hangar Bicocca di Milano la loro installazione The Happiest Man.

Si trattava anche in questo caso di un’“installazione totale”, che comprendeva elementi architettonici, pittorici, cinematografici, scenografici; uno spazio a sé stante all’interno dello spazio espositivo in cui lo spettatore si immergeva per rivivere, attraverso richiami visivi, sonori e ambientali, la realtà sovietica in cui gli artisti avevano vissuto. Entrando nella zona del “Cubo”, uno degli spazi espositivi dell’Hangar, di fatto si varcava l’ingresso di una vera e propria sala cinematografica: luci soffuse, file di poltrone di velluto rosso, uno schermo sul fondo su cui scorrevano pellicole della propaganda sovietica in cui si promuoveva un’utopia. Soltanto quando gli occhi si abituavano alla penombra, ci si accorgeva dell’esistenza di una casa. Era una vera, piccola casa arredata modestamente, ma completa di tutti i dettagli: qui viveva «Il più felice degli uomini», perché dalla finestra vedeva il paesaggio in perpetuo movimento dei film proiettati sullo schermo. L’opera era, di nuovo, una potente metafora al tempo stesso ironica e malinconica della ricerca di fuga dalla realtà: The Happiest Man trovava il suo angolo di felicità nell’illusorio mondo del cinema, capace di offrire evasione continua; una magia e un’illusione in cui anche lo spettatore poteva immergersi trasformandosi a sua volta nel «più felice degli uomini».

Trovo appuntato su un quaderno del 2000 il racconto di quando, insieme ai Kabakov, stavamo tornando da New York alla casa-studio di Long Island. In macchina eravamo Emilia ed io sedute dietro, Ilya davanti, Enric alla guida. I due uomini parlavano di esilio e di quanto fosse difficile entrare nell’abito di una nuova lingua. Quando Enric gli aveva domandato da quanto tempo era arrivato in America, Ilya gli aveva risposto «I never landed» (“non sono mai atterrato”): era – ed è ancora oggi – come uno dei suoi personaggi, che si salva trovando casa nell’immaginario o molto in alto nel cielo.

Ilya Kabakov al lavoro per Where is our place? nello studio grafico di Giorgio Camuffo, Venezia 2003

In copertina: Ilya & Emilia Kabakov, Palermo 1999. Copyright Shobha.

Chiara Bertola

è nata a Torino nel 1961. Vive e lavora a Venezia. È curatrice del progetto di arte contemporanea “Conservare il futuro” alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia dal 1999 a oggi (il volume omonimo è uscito da Bruno nel 2023). Ideatrice e curatrice del Premio Furla per giovani artisti italiani dal 2000 al 2015. Direttrice artistica dell'Hangar Bicocca di Milano dal 2009 al 2012. Presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia dal 1996 al 1998. Ha curato diverse mostre in Italia e all’estero tra cui quelle di Roman Opalka (Milano e Venezia, 2019), Mariateresa Sartori (2019), Paolo Icaro (2018), Giovanni Anselmo (2017), Elisabetta Di Maggio (2017), Jimmie Durham (2015), Haris Epaminonda (2014), Qiu Zhijie (2013), Gianikian-Ricci Lucchi (2012), Christian Boltansky (2011), Hans Peter Feldmann (2012), Ilya&Emilia Kabakov (1989, 2003, 2012), Surasi Kusolwong (2011), Michelangelo Pistoletto (2013, 2000), Marisa Merz (2011), Mona Hatoum (2009, 2014, 2015), Georges Adeagbo (2008, 2009), Remo Salvadori (2006), Kiki Smith (2005), Boris Mikhailov (2001), Giulio Paolini (2001), Lothar Baumgarten (2001), Joseph Kosuth (2000).

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