Gianni Dessì, i fantasmi dell’opera

Gianni Dessì ha scelto il titolo “TuttoPieno”, scrive Giovanni Careri, in contrapposizione al vuoto asettico del «white cube della galleria e del museo contemporaneo, fuori dal corso del tempo e a distanza da ogni forma di vita che non sia quella, predeterminata, dell’esperienza dell’arte». In effetti non si riesce a immaginare uno spazio, forse, che più di questo brulichi di segni.

La grande collezione dei Gessi, iniziata a fine Ottocento, oggi ne annovera milleduecento in minuziosa serie cronologica. Nel 1935 viene trasferita nella nuova e rutilante Città Universitaria: il 21 aprile di quell’anno, alla vigilia dell’invasione dell’Etiopia, la sua scenografia metafisica trova coronamento nell’icona centrale, da Marcello Piacentini affidata al più geniale discepolo di de Chirico, Arturo Martini. Athena ovvero la Minerva, che il mito vuole nata «armata dalla testa di Giove», vi si presenta in effetti corazzata e in armi; e all’inaugurazione il Duce in divisa afferma il legame indissolubile fra istruzione e militarismo (libro e moschetto, certo).

L’opera a Martini costerà l’epurazione che nel ’47 gli disintegrerà i nervi conducendolo a morte prematura: ma già tre anni prima, discorrendo con Gino Scarpa, l’aveva definita «bella, ma maledetta». Quelle braccia alzate e quegli occhi sbarrati gli apparivano profezie insolenti della catastrofe in corso. Non so se sapeva che gli studenti della «Sapienza» da allora si vietano di guardarla negli occhi, quella sua maledetta Minerva-Medusa, il giorno degli esami. A dispetto del mio sprezzante razionalismo d’allora, mi astenevo dal farlo anch’io: quando due volte al giorno, per una decina d’anni, sfilavo a mia volta nel piazzale ominoso. Ogni volta meditando su quel terrore atavico e sulle scritte cubitali che sulla facciata del Rettorato, a lettering inequivocabilmente fascio, concionano sull’historia magistra vitæ. Mi chiedo quale lezione impartisca, la storia, ai ventenni che da quasi un secolo ormai percorrono questi viali.   

Certo non ha paura della storia uno come Dessì. Non conosco artista più di lui appassionato alla tradizione artistica della quale sa sviscerare tutti gli aspetti materiali, dalle tecniche ai supporti, certo senza trascurare i contesti sociali e i sostrati culturali. Ma per lui, si capisce, senza una precisa cognizione dei primi non avrebbero spessore i secondi: di questa enciclopedia il suo sperimentalismo tecnico, onnivago e prensile, si nutre con la massima naturalezza. Anche in questo, forse, consiste l’atteggiamento «manieristico» che gli ha riconosciuto il suo maggior interprete, Lóránd Hegyi. I suoi sempre più frequenti autoritratti secondo Hegyi «rivelano paure, disperazioni, processi di autoanalisi, incapacità del parlare e perdita del potere su se stessi». Li vediamo impegnati in richieste, conversazioni, dispute, comunque presi in processi di interlocuzione, sospesi in un mondo davvero interlocutorio. Non è un caso che si trovi a suo agio in questo limbo di spettri didattici che è il Museo dei Gessi: lui, che dubita di ogni postulato, non si perita però di affermare punti di vista mai banali. Allora, in occasione di questa così allusiva ricapitolazione del suo percorso, gli ho chiesto di ripetere davanti al registratore una delle sue lezioni conviviali, per me sempre così nutrienti. Ma stavolta su un artista che (forse!) conosce meglio degli altri: sé stesso.

ANDREA CORTELLESSA: Ci troviamo nell’atrio maestoso della facoltà di Lettere della «Sapienza», sulle rampe delle scale che salendo portano ai piani superiori ma, scendendo, sprofondano nell’ipogeo dove è collocato il Museo dei Gessi. Da qui si vede, alla sommità del soffitto, un tuo primo lavoro che pare vegliare un po’ su tutto il resto, collocato com’è al vertice dell’edificio. Una specie di fessura…

GIANNI DESSÌ: … è una forma geometrica ovaloide tagliata a metà. Se vuoi, sì, una fessura che si apre…

C. … la serratura di tutto…

D. … oppure una bocca. È come se in qualche modo la forma iniziasse articolandosi a parlare. Ne avevo fatta un’altra simile a Parigi, all’Istituto italiano di cultura quando c’era Giovanni Careri, nel 1994. In quel caso non c’era la tromba di una scala ma il fronte del muro cieco che delimitava il giardino dell’Hôtel de Galliffet. Qui mi piaceva invece la fuga in alto dei piani per trovare il limite del soffitto; l’idea è quella di una proiezione indefinita verso l’alto.

C. Dato che nel sotterraneo dell’edificio si colloca la Gipsoteca, che simboleggia il passato, l’arcaico, l’originario (collocato in basso, come da vulgata freudiana e junghiana), posto così in alto questo lavoro potrebbe invece alludere al futuro?

D. Sai, non riesco a pensare in questi termini… quello delle origini è un fantasma, un’inconsistenza. I gessi sono simulacri, non la cosa stessa. Sono fantasmi. Quella forma lì in alto è semplicemente un limite.

C. Un orizzonte?

D. Forse. Un cielo. Qui sotto incontriamo invece le parti del corpo: la mano, la testa, i piedi. Sono i nostri confini corporei. È anche qualcosa che ha una sua identità ma si apre per divenire un’altra cosa. Quelle delle metamorfosi e delle cose agenti sono mie ossessioni ricorrenti. Come quella della totalità.

C. Dimmi qualcosa sul titolo, allora, TuttoPieno. Il “tutto” nella modernità evoca l’idea wagneriana, e poi simbolista, che tutte le arti convergano in un solo linguaggio che si rivolge a tutti i sensi contemporaneamente. Tu in passato spesso hai guardato a maestri di questa concezione come Kandinskij, Schönberg o Pound.

D. Certo. Però nella modernità si è anche inseguito il vuoto: la tabula rasa, un deserto del senso dal quale ogni volta ripartire. A me pare che ormai questa illusione vada scemando e che ci tocchi adesso riguadagnare una posizione nello spazio, nel pieno di un esistere fatto di segni, di stratificazioni, di densità. Oggi ogni tentazione di leggerezza mi pare futile. Non dico nell’accezione di Calvino ma in quella ludica, ironica, di tanta cultura del nostro tempo.

C. Intendi la pienezza non solo in senso linguistico, mi pare, ma anche dell’identità soggettiva, tanto di chi crea che di chi guarda.

D. Sì. Ne ho abbastanza della leggerezza, dello svuotamento. È venuto il tempo della gravitas.

C. Torniamo ai Gessi in compagnia dei quali hai voluto allestire questa mostra. Dicevi prima che sono simulacri delle opere vere e proprie, fantasmi delle opere. In Salons c’è un bellissimo pezzo di Manganelli sulla Gipsoteca di Firenze, Il lento candore dell’universo,che la vede più o meno in questi termini («la grazia del gesso, del calco, del bianco morbido e torbido è appunto questa, la sua sterilità impervia; l’assenza di buio; la chiarità ingannevole dei suoi cunicoli; l’eterno, inconsumabile biancore, e quel suo modo protervo, ironico, un poco sinistro di non esistere»). A lui i fantasmi delle opere piacevano in fondo più delle opere stesse; ma in ogni caso, proprio in quanto fantasmi, a me pare che i Gessi rappresentino anzitutto dei modelli. Certo provengono da esemplari concreti della statuaria classica (nel Museo non mancano didascalie che localizzano con precisione data e collocazione delle opere cui si riferiscono), ma paiono prima di tutto alludere a degli archetipi. Che si rivestono di materia plastica nelle opere vere e proprie disseminate un po’ ovunque, Grecia Vaticano Germania… Sono insieme post-opere, dunque, ma anche pre-opere: “potenze”, diciamo, in senso filosofico. Per questo prima mi veniva in mente un’idea di futuro, oltre che di passato. Quello che manca in questo museo, paradossalmente, è proprio il presente o l’astanza – direbbe il filosofo – dell’arte. C’è il museo – la tassonomia che ordina gli oggetti – ma non ci sono gli oggetti. Tu come riempi lo spazio di questa assenza, di questa potenza?

D. Assumo la presenza dei fantasmi e tento di dar loro una lingua, un corpo, una necessità di esserci. Per questo parlo di pieno.

C. Siamo nel primo pomeriggio, l’ora di punta degli studenti. Facciamo esperienza di una pienezza anche in senso esistenziale.

D. Il contapersone all’ingresso registra tremila presenze quotidiane nello spazio della Gipsoteca, un’area utilizzata per lo studio collettivo, il coworking. I ragazzi camminano, si aggirano tra i fantasmi; e con ogni probabilità ne evocano altri, i propri.

C. Hai colto qualche reazione da parte loro?

D. Sono incuriositi, a volte fanno domande.

C. Anche perché non ci sono didascalie; questa è un’altra scelta forte.

D. Ci sono, un po’ nascoste, qua e là; le devi un po’ cercare. Mi pare che le presenze siano così forti che i titoli o le date dei lavori possano fungere da leitmotiv nascosto, mettano in relazione i percorsi, le parti con il contesto; ci consentono per esempio queste nostre chiacchiere. Ma la cosa in effetti è tutta là, evidente, esposta.  

C. La fessura al soffitto, di cui parlavamo prima, è perpendicolare al piano dell’edificio; è un asse centrale. Ma per scendere al Museo si deve per forza scegliere una delle due scale, quella di destra o quella di sinistra. Negli ammezzati sono collocati due grandi lavori che a tutti gli effetti introducono alla mostra, ma la divaricazione dei percorsi ci impone subito una scelta: fa di tutti noi visitatori degli Ercoli – inoperosi, per carità – al bivio. Nel braccio destro c’è una grande mano, in quello sinistro una testa, una testa che assomiglia abbastanza alla tua ed è anche insignita del tuo colore d’elezione e diciamo araldico, il giallo. Pare che tu alluda a una doppia ipotesi, a una doppia valenza del tuo lavoro o forse dell’arte in generale: da un lato la manualità, la corporeità nel senso fabbrile del termine; dall’altra la concettualità, la «cosa mentale» o, diciamo, la testualità. Sono entrambi connotati del lavoro tuo e della tua generazione, quella uscita verso la fine degli anni Settanta da una stagione di pura concettualità – lo svuotamento di cui sopra – che non voleva però aderire alla pura manualità, alla pura pittoricità per esempio della Transavanguardia. Le due cose compongono un unico insieme, un unico organismo: il corpo dell’opera.  

D. Questa è la storia per grandi linee, sì, è così. Ed è il corpo dell’opera il soggetto vero e proprio! Questa personificazione. Poi ci sono tante altre avventure. Perché messa in questo modo pare che uno riesca a darsi uno scopo, a seguire un’idea, un pensiero già formato. In realtà il pensiero in arte si forma dando corpo a mancanze, a necessità; e lo si può fare solo facendo: scoprendo e trovando i nessi. Nel tempo.

C. Dunque la materia in sé è piena d’idee?

D. Ma certo, non c’è bisogno di scomodare idee illustri. La cosa c’è (c’è materialmente, voglio dire: non è una virtualità certificata da un atto notarile, come nell’arte concettuale dura e pura). C’è un fare e c’è la materia. A noi sta animarla, cioè da dentro scoprire l’energia che fa sì che quella cosa appunto sia, che non resti inerte. L’energia che l’artista trasferisce serve ad attivare, ad animare le cose; le fa parlare, accennare, divenire forma e farsi luogo. Divenire un pieno, appunto, anziché un vuoto. È la tematica antica dell’apparire, il Phanes, il rifulgente, il compiersi della cosa che s’impossessa di un’aura e se ne infischia di quanto possiamo dirne noi, il mondo dell’arte, i critici e gli stessi artisti!

C. La collezione del Museo presenta spesso riproduzioni di statue complete, ma altrettanto spesso frammenti, torsi, residui di qualcosa che c’era, nel suo intero, ma ora non c’è più. In questi casi mi viene in mente sempre una poesia di Rilke, il Torso arcaico di Apollo, un cui verso ha dato il titolo a un bel libro di Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita.Al Louvre il poeta osserva il torso del Dio mutilo della testa. Ma in questo modo tutto l’oggetto, tutto il corpo dell’opera gli appare costellato di occhi: occhi che ci guardano e ci intimano di cambiare la nostra vita, cioè – mi pare di capire – prendere coscienza, reversibilmente, della nostra incompletezza. C’è anche questo sentimento, nel tuo modo di guardare all’antico? I tuoi lavori proseguono, completano, adempiono?

D. L’arte letteralmente ci riguarda, restituisce uno sguardo e ci edifica ricreandoci. Ma è bene precisare che queste opere non sono nate pensando a un luogo come questo. Sono di diversi periodi, anche se tutte posteriori al 2000, e diverse sono state le occasioni che le hanno viste nascere. Però è significativo, mi pare, che siano state tutte concepite nello spazio architettonico vuoto, entrando nel quale si deve scoprirne la presenza fisica col suo peso, la sua gravitas. È stata la fase successiva a quei lavori che ho chiamato all’antica cameræ pictæ, dove era il colore, uno solo, ad abitare lo spazio sino a mutarne la percezione. Qui avviene l’opposto… lo spazio viene occupato e quasi gremito da una figura che a stento ne è contenuta e che, incrociando la pittura, in alcuni casi quasi si annulla nel gioco del bianco e nero. Qui, ora, nel luogo dove siamo tutto è diverso. Lo spazio è quasi già al colmo, incrocia altre presenze, altre storie che prevedono vissuti, ma la scommessa è che ogni scultura faccia di sé un luogo… una stazione, seguendo quella tradizione che vuole dare visione, figura, sintomo prima di tutto di un’idea dell’arte. Così un TuttoVuoto può prendere misura e diventare TuttoPieno.

C. Quali sono gli esemplari della tradizione che hanno più nutrito questa tua concezione?

D. Anzitutto i classici. Mantegna, Piero della Francesca. Nulla di naturalistico. Non si vuole sottolineare, men che meno celebrare l’esistente: ma fondarlo, trovare un punto di vista, un luogo per l’arte. E dunque un senso, una necessità. In tutti gli spazi in cui mi trovavo ad agire, fissavo sempre un elemento centrale che rinviava a un punto prospettico (la prospettiva esalta il punto di vista dell’osservatore, ma questo punto di vista non è diverso da quello di chi realizza l’opera). Mi piaceva anche che queste cameræ fossero percorribili solo dallo sguardo e dal colore e non accessibili. Questo dai primi anni Novanta sino al Duemila. Poi ho cominciato a pensare un po’ al rovescio di questa idea, mi sono interrogato sulla presenza, su chi potesse abitare davvero quel luogo del linguaggio. In realtà non posso saperlo, per questo li evoco.

C. Mi colpisce la tecnica di queste sculture – le chiamo così – dalla superficie irregolare. A lungo mi sono chiesto a cosa mi facessero pensare, poi leggendo le cose che ha scritto sul tuo «manierismo» Lóránd Hegyi mi sono ricordato del Colosso dell’Appennino di Giambologna alla Villa di Pratolino, in Toscana, la cui superficie oggi ci si presenta marezzata di muschi e licheni, circonfusa al paesaggio che la circonda, ma che già in origine si screziava di ghiaccioli e stalattiti…

D. Più che sculture vere e proprie, queste mie sono superfici che si torcono, si piegano, si sovrappongono, si accartocciano, si sviluppano. Sono pittura e disegno che si fanno volume grazie a una rete da pollaio sottostante, che poggia su strutture di legno e ferro per sostenersi. La trama metallica traspare poi in superficie attraverso la fibra d’agave e resina che la irrigidisce dando forma all’opera. Il volume e la grandezza, la proporzione sono importanti. Confini I misura due metri e cinquanta per un metro e venti e quando l’ho presentata per la prima volta alla Galleria dello Scudo di Verona, nel 2009, riempiva quasi totalmente lo spazio così come Confini III.

C. Spesso nei tuoi lavori, e soprattutto qui, si affaccia questo gigantismo. Anche questo è un aspetto tutto sommato poco frequentato dalla scultura contemporanea. Viene in mente il famoso Indice di Costantino al Campidoglio.

D. È all’Accademia di Francia a Villa Medici, nel 2006, che metto a punto questa tecnica realizzando una figura colossale vista di spalle, con un grande cerchio nero che si stagliava sulla parete e in parte sulle spalle. Il nero passava dalla figura allo sfondo e così in qualche modo annullava il confine, il margine del disegno della figura e dello spazio. Si realizzava il paradosso di una virtualità puramente ottica che però si mostra in grado di mangiarsi la sostanza della cosa. Vedo questi lavori come cameræ pictæ rovesciate, dove pieno e vuoto si materializzano e dove la pittura interviene definendo un ulteriore luogo/spazio.

C. Questa scoperta della terza dimensione – il famoso Pieno – può anche dare un senso diverso alla tradizione platonica che evocavi prima. Un po’ come se il famoso uovo nella Pala di Brera di Piero della Francesca, invece che un ente ideale, un puro fuoco prospettico, si mostrasse quale oggetto che sta nel mondo: con tutte le irregolarità, le imperfezioni degli oggetti reali.

D. È possibile. Ma evito sempre di dare un’indicazione univoca, mi piace il gioco degli opposti: le ambivalenze fanno sì che il linguaggio non si definisca ma rimanga aperto. Quando vedo una porta mi viene sempre voglia di aprirla.

C. L’ambivalenza però ora dobbiamo scioglierla, e scendere da una delle due scale.

D. Allora scendiamo di qua. Ecco la mano. La manona, anzi: Confini I (2009).

C. Il suo dito, o ditone, indica un cerchio bianco, pieno, iscritto sul pavimento.

D. La Mano accenna a un movimento. Forse enumera, forse indica la necessità di camminare… come quando si accenna all’essere umano…

C.  … può anche essere un segno di vittoria rovesciato…

D. … può essere. Comunque in qualche modo indica, fa cenno, innesca un processo di metamorfosi. Cammina verso ciò che sarà. Il cerchio è la direzione, la figura. Tutta bianca; piena, perfetta.

C. Il gesto della mano potrebbe anche essere quello di Adamo che nella Cappella Sistina si protende verso Dio…

D. … forse anche questo… in generale è un grumo di materia che si trasforma in immagine. È essenziale la dinamica che si viene a creare fra la superficie ruvida e grezza della mano e l’immagine netta, assoluta, alla quale si rivolge.

C. È la prima cosa che mi ha colpito quando ti ho visto allestire la mostra. Questa ruvidezza pare rinviare all’attrito con la realtà, le circostanze, il tempo. Nulla di canoviano, nulla di sensuale in senso apollineo. È il rovescio simmetrico dell’immaginario che la modernità ha associato alla statuaria classica.

D. La materia non è portata al liscio, alla perdita di gravità, perché il disegno non la configura solamente ma la abita internamente, anche quando la sua struttura è infinitesimale. A me piace l’evidenza del suo formarsi. E così ne intravediamo le componenti, la conformazione: le travi di legno, le corde, la rete metallica, la fibra d’agave che dà alla superficie con la resina questa ruvidezza.

C. A proposito della colossalità di cui parlavamo prima, dicevi che uno dei primi lavori di questo genere è stato collocato in un luogo istituzionale come Villa Medici. L’Università «La Sapienza» è un luogo del sapere, certo, ma anche della monumentalità del sapere e della tradizione; ed è luogo fortemente connotato dalla Storia, dalla storia più problematica del Novecento italiano, dal Fascismo. È anche un discorso sul potere il tuo?

D. Ci troviamo per la precisione nella Facoltà di Lettere. E la lingua, il linguaggio sono forse la massima e più diretta espressione di potere, individuale e istituzionale. Tramite il linguaggio puoi fare richieste e vagliare quelle che ti vengono fatte, hai la possibilità di esprimerti e condizionare tutto quello che ti circonda. È già il massimo del potere, la sua massima espressione. Però a me non piace un’arte retorica, che celebri le magnifiche sorti dell’esistenza. Preferisco quella che sposa più il lato problematico; cerca di porre domande più che offrire risposte, o favorire estasi di appartenenza.

C. Ecco la Testa. Irriconoscibile ma abbastanza riconoscibile. Questa non è colossale, solo un po’ più grande del naturale. Il titolo è Nome e cognome (2015), non ci sono equivoci sul fatto che il tema del lavoro sia l’identità individuale.

D. Certo. Ma è un’identità appesa… dalla testa si diparte una rete di cavi di nylon trasparenti ma percepibili che la tengono ancorata al soffitto e la sospendono in alto. La testa è cava, con le spalle appena accennate… e da sotto sporge una sfera a sua volta sospesa. Il tutto assomiglia un po’ a una campana, con tanto di batacchio.

C. Quando studiavo qui, in effetti, alla fine di ogni ora di lezione suonava una campanella; non so se la facciano suonare ancora.

D. Qui invece il suono che evoca questa “campana” è la voce di questa Testa. Si parla di identità, sì, ma non è necessariamente la mia; quello che m’interessa è che ogni individuo può risuonare. E, essendo cavo, dare forma al suono.

C. Questa testa ha diritto di parola, è in grado di emettere suoni; però ha la bocca bloccata, gli occhi chiusi: è un po’ un torso anche questo. È più il residuo di un’immagine del passato o qualcosa che sta prendendo forma?

D. Sta prendendo forma. Non solo risuona ma è collegata a un sistema di forze, si rapporta con altro da sé. Per me la forma non definisce mai un concetto o un desiderio che appartenga a me soggettivamente, ma si apre sempre all’interrogazione, all’interlocuzione. Tra l’altro è di ceramica raku, se i fili che la sorreggono si spezzassero andrebbe in mille pezzi. Le cose non stanno là tanto per stare, ma per attivare una serie di relazioni, di rapporti, di analogie. Senza relazioni cadiamo nella miseria. Si può essere poveri, come nell’Arte Povera, ma non miseri. E oggi invece la miseria mi sembra affliggere tutti…

C. … la decorazione, lo spettacolo…

D. … cose irrelate, che vivono l’effimero del loro apparire, non riscaldano nessuno. Non ci provano neppure, a mutare la nostra vita!

C. E secondo te molta arte del nostro tempo…

D. … tre quarti.

C. Sei generoso: un quarto mi pare tanto!

D. Ma certo, un quarto di quello che vedo è di buona qualità. Mi sento profondamente fortunato di vivere ora e di essere nato nella seconda metà del Novecento, un tempo di grande forza espressiva.  

C. Prima hai citato dei grandi maestri della tradizione. Ma se devi fare dei nomi di artisti delle generazioni immediatamente precedenti alla tua?

D. Chi è arrivato alla fine della Seconda guerra mondiale ha avuto un primo grandissimo problema, quello di un nuovo inizio, di riformulare un’idea di orizzonte e di realtà. Hanno dovuto davvero attraversare un deserto pieno di rovine.

C. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Giacometti.

D. E con lui Fontana, la grande stagione americana… Ma vengono già un passo dopo. Tutto è stato fondato dalle prime Avanguardie, loro hanno posto per prime il piano sul quale costruire nuove relazioni. Anche l’Arte Povera ha dato un contributo straordinario, ha scoperto modi e materiali che sono divenuti parlanti, eloquenti. Noi tardivi abbiamo ereditato questa concretezza delle cose: la superficie come superficie, lo spazio come spazio, il peso come peso. Ora però bisogna riarticolare un percorso rendendolo permeabile e la pittura e la scultura possono adempierlo perché sono eminentemente sintetiche.

C. Pensando alla scultura delle Avanguardie mi vengono in mente tutti esempi connotati dalla tensione a una forma, che però presentano superfici molto levigate, compiute. Penso a Brâncuși, ad Arp, allo stesso Boccioni…

D. … c’era l’idea di una forma nuova, ancora da trovare, che fosse forma in sé e per sé. Brâncuși passa anni a levigare… cercava una luce iniziale.

C. Loro volevano fondare un linguaggio, tu invece lo vuoi adottare e rendere di nuovo pronunciabile.

D. Lo abbiamo. È il nostro paesaggio, è l’imprescindibile. Però questa eredità dobbiamo costantemente animarla, metterla sotto pressione per renderla parlante, significante e necessaria fino a giungere anche a ibridarla.

C. Siamo arrivati all’ingresso della Gipsoteca, alla base dell’edificio. E abbiamo messo i piedi per terra. Questi Piedi sono delle stesse proporzioni della Mano all’ammezzato?

D. Sono più grandi. Confini III (2009).

C. Qui tocchiamo davvero la superficie scabra della realtà.

D. Sono i filamenti d’agave a creare questo senso di secchezza, di ruvidità. Che può sembrare anche la struttura aggrovigliata dei tratteggi, dei grovigli che si fanno quando si disegna. Il disegno che è alla base dell’opera, il suo palinsesto, così in qualche modo emerge alla superficie. La rete da pollaio sottostante è fissata a strutture che fanno da supporto rigido; poi si stende la resina commista all’agave, che in dieci minuti secca e diventa questa superficie rigida e autoportante. Non è molto diverso da come alcuni popoli fanno i muri delle loro case: una pappatura di fango e paglia.

C. Bellissima parola, «pappatura»! Senti, la tua mostra non si svolge all’Odeion, un’aula ricavata all’interno della Gipsoteca che, come dice il nome, riproduce la struttura del teatro classico. Eppure, pensando ai Conversation pieces che spesso hai realizzato, mi pare inequivocabile la dimensione teatrale di tutto il tuo lavoro, in particolare di questo tuo dialogo con le forme dell’Antico.

D. Ci muoviamo su questa scena che è la nostra contemporaneità fingendo di non accorgerci di chi ci ha preceduto, coi quali invece dobbiamo entrare in relazione se non vogliamo rischiare la miseria che si diceva. Non possiamo schiacciare il nostro presente, la nostra lingua in un’orizzontalità; abbiamo l’obbligo del verticale e quindi del profondo, della storia. Stessa cosa, su scala macroscopica, se si osserva l’orizzonte del mondo. La fragilità che abbiamo scoperto nell’ecosistema, per esempio, è la stessa che si riscontra nel linguaggio. Non possiamo permetterci di immiserirlo. Altrimenti la temperatura sale, le maree crescono…

C. All’ingresso nell’ala sinistra dell’allestimento incontriamo questi tre Personaggi. Anche in questo caso, come in quasi tutti i lavori di TuttoPieno, il linguaggio della scultura incontra quello della pittura: il nero che faceva da sfondo dei Confini ora invece si proietta al centro dell’immagine, come fosse un’ombra proveniente da un altro luogo, da un qualche ente che al momento non vediamo ma che quell’ombra potrebbe proiettare, come la Statua Invisibile che minaccia la Bambina col Cerchio nel Mistero e malinconia di una strada di de Chirico.

D. E in fondo, anche se un po’ giganteschi, potrebbero essere davvero dei bambini. Il titolo Uno, due e tre (2004-2005) ricorda quel gioco che si faceva appunto da bambini…  

C. «Un, due, tre, stella!». Quando si sentiva la parola «stella» ti dovevi fermare o appariva qualcosa.

D. Al tre appariva qualcosa, sì. Arrivati vicini ci rendiamo conto che i tre personaggi stanno effettivamente conversando. Il primo lavoro di questo genere era stato esposto a Firenze; era un personaggio che guardava, tagliato da una forma nera che metteva in discussione la sua stessa terza dimensione. La pittura qui è un «velo fatto di niente», che si mostra però capace di mangiarsi il concreto.

C. Però solo una parte dei corpi è oscurata. Quindi la dialettica tra pittura e scultura resta aperta. Da un lato c’è questa illusorietà, questa menzogna storica, dall’altro questa concretezza.

D. Il lavoro di questo tipo esposto a Villa Medici s’intitolava Bianco e nero (2006). In un’aula nel Dipartimento di Storia, qui alla «Sapienza», ce n’è un altro collocato in permanenza che si chiama Controluce. È stato installato quest’anno perché a causa della Pandemia non abbiamo avuto la possibilità di realizzare iniziative collegate alla mia presenza, qui, come artista residente. La prima di una serie, speriamo.

C. Quasi nascoste fra i Gessi, incontriamo alcune opere di piccole dimensioni. Questa testa del 2012 ha per titolo Stefano.

D. È Stefano Scodanibbio, che ci ha lasciato quell’anno. È un ritratto della nostalgia… tutto sommato neanche tanto somigliante… è stata più la voglia… un desiderio… La sua testa è collocata su un cubo di Rubik perché, da quel gran combinatore di suoni che era, mi pareva il giusto luogo dove porlo… uno in grado di risolvere ogni tipo di problema.

C.  Tranne l’ultimo, purtroppo. Molti di questi lavori sono un po’ il rovescio delle sculture in parte dipinte di nero: sono in sostanza pitture con una parte in rilievo, spesso al centro.

D. Impiegano tutti tecniche diverse. C’è l’olio, la pittura, alcune gouaches sono su carta cinese; i neri di Tutto insieme (2021), però, sono dipinti su vetro segnando ma anche accecando lo spazio sottostante. Come appare nella pupilla dipinta nel quadro che campeggia al centro della composizione, unica parte del nostro corpo che abbia forma realmente geometrica.

C. In questa mostra la pittura è sempre in rilievo. Anche del tuo lavoro pittorico hai voluto evidenziare l’aspetto tridimensionale.

D. La pittura è materia. Il colore si combina al mio corpo della pittura. Anche la gouache, il medium più leggero e volatile, su carta sottile produce rughe, avvallamenti. Sono quelle che chiamo Sculture d’acqua, dove il colore non fa che evidenziare la materia che, diluita dall’acqua, reagisce depositandosi ai bordi disegnando isole, geografie.

C. Paola (2012) è il ritratto di quella che chiami «l’interprete ufficiale», Paola Bonani. Ed è attorniato da figure di atleti, guerrieri, personaggi che si esercitano con l’arco, tutti impegnati in qualche forma di esercizio. Subito prima Stefano ricorda un grande musicista che aveva un rapporto molto fisico col suo strumento, il contrabbasso; qui invece c’è un critico. L’arte del Novecento ci ha fatto conoscere tante facce di mecenati, galleristi, collezionisti… ma non è così comune che a venire ritratto sia un critico.

D. Paola è una persona con un grande senso della misura, che con discrezione esemplare ha indagato un po’ tutto il mio lavoro portandomi a riflettere su alcuni suoi aspetti che avevo abbandonato e dimenticato. L’idea del mio percorso che mi sono formato riflette anche il suo racconto, e ho voluto farle omaggio del suo sguardo con il mio.

C. Torniamo a quella dimensione della relazione, e diciamo pure in questo caso dell’ermeneutica con la sua «fusione di orizzonti», di cui si parlava prima. Anche Cecco (2011) è il ritratto di un amico, e qui torna la forma geometrica oscura proiettata sul volto.

D. Sono tutti ritratti di persone che mi hanno aiutato a fornirmi di uno sguardo sulle cose donandomi il loro, così contribuendo alla mia identità. Ho voluto a mia volta restituire quello sguardo.  

C. Sono fatti in ceramica raku, una tecnica giapponese di cui mi piacerebbe che mi parlassi.

D. In giapponese raku significa «caso». Si cuoce una terra secca, una creta messa a contatto diretto col fuoco. Nella ceramica è la temperatura che cuoce la materia; qui invece è la fiamma viva che interviene comportando appunto una certa imprevedibilità di reazione della materia che, laddove non ha ricevuto colore, inizia un processo di decadimento mentre dove c’è il colore si cristallizza indurendosi e quindi proteggendosi maggiormente all’usura del tempo. E questa mi sembra una metafora perfetta di ciò che avviene con il potere di sublimazione dell’arte. È il colore che protegge la materia, non dico che la eterni ma certo le dà uno statuto diverso.

C. È qualcosa di simile a quella che nella scienza delle costruzioni si chiama coibentazione?

D. Non rivesto tutta la forma di colore, lascio in evidenza delle parti che fatalmente resteranno caduche. Mi pare che questa alterna onnipotenza delle sorti rifletta bene la nostra condizione. Il colore ci salva, o almeno in determinate condizioni ci può salvare.

C. Il colore è sempre lo stesso colore?

D. È sempre lo stesso colore.

C. Diciamo qualcosa allora di questo benedetto colore. Parliamo naturalmente del giallo.

D. Di norma mettiamo ai due estremi opposti il bianco e il nero. Ma il colore che sta più in alto, nella scala dell’evidenza, è il giallo. Non a caso sono gialli, per lo più, gli evidenziatori che impieghiamo scrivendo o disegnando. Da molto presto dunque ho assunto questo colore come il luogo principe della rivelazione della forma.

C. Quindi è un colore-luce?

D. Un colore-luce, sì, un colore dell’evidenza. Dal momento che per tanto tempo ho subito (e in qualche misura tuttora subisco) l’incanto del non-colore, cioè del nero, il giallo mi consente di andare oltre quest’assenza di luce nella materia. Fra questi due poli mi muovo continuamente.

C. Il giallo però, che in tanta tua pittura splende piuttosto affermativo per non dire glorioso, in questi tuoi lavori di scultura ci appare sempre contrastato, sporcato; non si presenta mai in forma assoluta.

D. È vero. Però al contempo in queste sporcature spuntano dei «lustri», metalli che si aggiungono alla pittura e producono riflessi cangianti che punteggiano la superficie della ceramica. Anche in pittura cerco sempre queste striature, cambiando verso alla pennellata; vibrazioni che consentono alla luce di riverberare diversamente. Così hai l’impressione che i corpi, le materie dipinte siano sostanziate di luce.

C. Trama a vista (2009) invece è una figura che proprio non riconosco, o spero di non conoscere mai. Se è un ritratto è un ritratto ideale o meglio anti-ideale, antigrazioso.

D.  È un capoccione ma anche un bambolotto. Un bamboccione.

C. Questi occhi prigionieri, coperti da una rete, questa bocca appena accennata, questo troneggiare su un piedistallo… e poi questo colore rosso vivo, a te poco consueto e forse ostile…

D. È la cera. Spesso i bronzisti usavano la cera rossa.

C. Ma è cera solidificata, vetrificata?

D. No, la cera ha di per sé consistenza e la presenza della colofonia la rende più dura, sì, più compatta. Ma resta cera.

C. Qui a parete invece abbiamo uno dei tuoi classici Conversation pieces.

D. In effetti potremmo considerare tali tutti i lavori che sono qui. Di questi quadri però ne ho fatti in tutto 19. Tutti della stessa misura e tutti con il nero e il bianco della tela. Questo, il XIX (2021), ha anche il nero dipinto direttamente sulla parete, a sottolinearne il luogo. Sono 19 perché è il mio numero fortunato, sono nato in quel giorno e poi 9 più 1 fa 10: una totalità.

C. Mentre in Uno, due e tre i personaggi erano anonimi e senza connotati di genere, qui pare di riconoscere una donna e un bambino. Poi c’è questo elemento che torna in tanti altri lavori, una specie di reticolo che aggetta dalla superficie.

D. Gadda lo chiamerebbe uno «gnommero»!

C. Un piccolo «gnommero»… quindi un piccolo enigma che residua all’interno della rappresentazione.

D. È il filo che ci tiene, o meglio che ci porta. Muovendo la materia sulla superficie, ogni gesto genera altri gesti. È questa la vera conversazione.

C. Nella Biblioteca di Trimalcione, il libro che di recente ha raccolto molti saggi letterari di Alfredo Giuliani fra i quali quelli da lui sempre più spesso dedicati, nei suoi ultimi anni, ai grandi testi filosofici e sapienziali dell’antichità, circola con insistenza un concetto di Giorgio Colli. Per il filosofo, e per il poeta, l’antico non è lo stucco neoclassico, il quale semmai è l’appropriazione che dell’antico ha fatto il moderno, o una certa forma di moderno; non ha nulla di levigato, non è «nobile semplicità e quieta grandezza». È viceversa l’irruzione – sempre improvvisa e spesso violenta – di qualcosa di immanente e «immediato», insieme del tutto evidente e assolutamente inspiegabile. In fondo l’Antico non si è mai allontanato da noi; è alla base dell’esistente e dunque è sempre presente. Questa sostanza sottile Giuliani la chiamava «enigma».

D. È fondamentale. Quel concetto di Phanes di cui ti parlavo all’inizio l’avevo trovato, tanto tempo fa, proprio negli scritti di Colli.Questa cosa l’ha spiegata molto bene anche Giorgio Agamben, distinguendo fra «originale» e «originario». A interessarci è solo quando ci conduce verso il momento primo da cui scaturisce.

C. Che però, in questa concezione, non è trascendente ma perfettamente immanente.

D. Aderente.

C. Non, come in tanto pensiero mistico, qualcosa sopra di noi, separato da noi, ma qualcosa che è dentro le cose stesse.

D. È la tradizione che ha ricostruito Emanuele Dattilo in quel libro meraviglioso che è Il dio sensibile.

C. Sono d’accordo, è un bellissimo libro. Siamo arrivati nell’ala opposta, quella destra dell’allestimento. E qui troviamo un viluppo, un po’ laocoontico dato il contesto ma anche abbastanza sessuato, fra due figure umane incomplete. Dice Careri che, insinuandosi nell’asetticità del Museo, Eros «provoca stupore e invita a quel trascendimento senza il quale la nostra vita si restringe e si riduce a poca cosa».

D. Intreccio (2007). Il tatto tiene fermo il tutto.

C. «Il tatto tiene fermo il tutto» mi pare una sintesi perfetta di tutto questo percorso. Qui abbiamo una figura che potrebbe essere umana ma anche plantigrade, un orso forse. Che tiene in mano un grosso viluppo, un altro intreccio.

D. È una linea che tornando su sé stessa forma un cerchio, la sfera.

C. Diversi cerchi sovrapposti. L’ultima tappa ci porta a questo bronzo che sta tra l’Ercole Farnese e un’Afrodite e s’intitola Solo (2007). Il braccio e la mano si fondono col volto, è un pensatore ma forse sta pensando troppo.

D. Si è chiuso in sé stesso!

C. Era inevitabile, forse, che la conclusione di questo percorso portasse in scena il materiale che per tradizione evoca il sogno di permanenza, di eternità che l’uomo ha voluto attribuire alle arti: il bronzo.

D. Però la forma in origine era fatta a sua volta di fibra d’agave e resina, poi ne è stato fatto un calco e solo a quel punto è diventata di bronzo.

C. La parola «intreccio», come prima lo «gnommero» gaddiano che ricordavi, evoca anche un’idea di narrazione: una dimensione, questa, alla quale spesso allude Hegyi nei suoi scritti su di te. Una narrazione è il racconto che mi stai facendo tu, di quello che è stato il tuo percorso, ma mi pare lo sia anche l’andamento che questo ha preso nel suo svolgersi. Un intreccio in cui si inseriscono suggestioni e materiali provenienti da direzioni e tradizioni diverse… Già nel ’93 dicevi in un’intervista che «bisogna superare ogni compiacimento per tutto ciò che è frammentario, perché l’arte costruisce attraverso un insieme di fili, una “trama” unitaria: è così che assume in sé la complessità che è nel mondo». Questo elemento che torna, questo reticolo, questo intreccio di fili d’agave, rinvia a una forma costitutivamente imperfetta che però proprio per la sua irregolarità ci si presenta porosa, inclusiva, attrattiva.

D. Ogni essere impone il suo soma: la sua bellezza, i suoi difetti. Non siamo noi a prendere la materia. È la materia che ci tocca, che ci prende.

C. Ci avviluppa, ci include, ci assimila. Mentre noi la assimiliamo. E forse è questa la natura dell’apprendere: un metabolismo reciproco. In fondo ci troviamo in un luogo dove si viene per imparare, e finché restiamo vivi ci resta sempre qualcosa da apprendere. Io sono venuto qui per impadronirmi dei tuoi segreti…

D. … non di tutti, però!

Gianni Dessì
TuttoPieno
a cura di Claudia Carlucci e Gaetano Lettieri
museo dell’Arte Classica dell’Università di Roma «La Sapienza»
3 aprile – 21 luglio 2023

L’intervista è stata registrata il 19 aprile; una versione più breve è apparsa su «Alias» il 28 maggio 2023

In copertina: Gianni Dessì, Paola, 2012. Tutte le fotografie che accompagnano l’articolo sono di Andrea Veneri.

Andrea Cortellessa

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

Gianni Dessì

nasce a Roma nel 1955, dove vive e lavora. Nel 1979 tiene la prima mostra personale alla Galleria Ugo Ferranti. Del 1984 espone alla mostra ‘Ateliers’ curata da Achille Bonito Oliva, in occasione della quale Dessì e gli altri artisti della Nuova Scuola Romana aprono al pubblico i loro studi nell’ex pastificio Cerere nel quartiere di San Lorenzo, luogo che diviene in quegli anni centro vitale per della cultura artistica nazionale e internazionale. Nel 2006 tiene un’importante retrospettiva al MACRO di Roma. Dalla sua iniziale collaborazione con il gruppo teatrale de “La Gaia Scienza” a metà degli anni Settanta, Dessì ha costantemente lavorato per il teatro realizzando, fra le altre, le scenografie per il ‘Parsifal’ di Wagner, con la regia di Peter Stein e la direzione musicale di Claudio Abbado al Festival di Salisburgo del 2002, la scenografia, le luci e i costumi per ‘Il cielo sulla terra’ di Stefano Scodanibbio, presentato nel 2006 a Stoccolma, nel 2008 le scene per l’opera di Bela Bartok ‘Il castello del duca Barbablù’ alla Scala di Milano e nel 2015 le scene e costumi per l’opera ‘Il suono giallo’ di Alessandro Solbiati, ispirato al testo originale di Vassilij Kandinsky. Dal 2016 al 2018 è stato presidente dell’Accademia Nazionale di San Luca di Roma. Nel 2021 è stato Artist in Residence del Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte (SARAS) dell’Università «La Sapienza» di Roma. Attualmente è Presidente dell’Accademia di Belle Arti di Macerata.

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