C’è un mito intorno al pittore e poeta britannico Dante Gabriel Rossetti (1828-1882) secondo il quale egli avrebbe seppellito l’unica copia del manoscritto di poesie non ancora pubblicate nella tomba dell’allora moglie, Elizabeth Siddal, quando venne a mancare nel 1862. Un gesto di estremo amore o, forse, di somma follia. Questa raccolta di poesie erotiche, sensuali, ha toccato il corpo in putrefazione della moglie per sette lunghi anni, accogliendo vermi e insetti e regalando pezzi di carta a loro. Al settimo anno Rossetti avrebbe deciso di riesumare il manoscritto, probabilmente convinto da amici e agenti letterari a non raddoppiare la perdita con quel gesto. Aprendo la bara e dissotterrando il volume, questo ritornò a lui solo in parte: molte poesie rimasero illeggibili, alcune smangiucchiate, altre in polvere. Rossetti si mise meticolosamente a ricostruirle pezzo per pezzo, ricomponendo le parti mancanti dalla memoria e raccogliendo il tutto nel libro Poems, pubblicandolo nel 1870. Seppellire il proprio passato in spazi reconditi e poi riesumarlo, inventarlo di nuovo in altro modo, è un atto in parte macabro e in parte immaginifico, al centro di molte delle opere dell’artista americano Mike Kelley (1954-2012), che amava citare Rossetti.
Come la bara di Elizabeth Siddal, gli spazi del represso sono sempre stati un tema caro a Kelley, spazi di morte e di nuova vita, di oblio e invenzione. Mobile Homestead è un lavoro di arte pubblica che l’artista ha iniziato nel 2011, ma che è stato ultimato solo dopo la sua morte. Questa è forse una delle sue opere più iconiche, non a caso la sua ultima. Si tratta di una replica della casa dove l’artista è cresciuto, modello 1:1, bianca, tipica di una famiglia della classe operaia della periferia di Wayne, a ovest di Detroit, arredata per ospitare eventi, e che ora si trova nella collezione del MOCAD, Museum of Contemporary Art Detroit. Come ogni luogo della nostra infanzia, racchiude ciò che vorremmo dimenticare, ciò da cui scappiamo o da cui ci emancipiamo. A quarantasette anni l’artista tentò di comprare l’originale, che era stata nel frattempo venduta, ma quando questo risultò impossibile si mise a giocare con la sua copia. Ci riuscì così bene che a ben vedere la replica della casa è molto più dell’originale: ha uno spazio sotterraneo, privato e segreto, che ricalca la sua planimetria, a cui il pubblico non può accedere. Non è la visione idilliaca dello spazio domestico di cui ci ha tanto parlato Gaston Bachelard, ma un sottoscala che genera qualche strato di dimenticanza e non pochi pensieri. Un luogo recondito, labirintico, contenitore di ciò che è oppresso e soppresso, che si sente proprio sotto ai piedi.
All’inizio della sua attività artistica lo spazio del represso non era rappresentato dallo spazio stesso. In principio era il corpo. Il corpo era lo spazio che Mike Kelley usava incarnando sé stesso nelle innumerevoli performance non documentate realizzate tra gli anni ’70 e ’80 a Detroit, Los Angeles e New York. In queste performance, Kelley affrontava la ricomposizione e il ripristino della memoria attraverso movimenti, versi e gesti, usandosi come spazio perturbato e perturbante. Non bisogna aspettare quindi i lavori più conosciuti, come Educational Complex (1995) o Mobile Homestead, per avvertire la presenza del sottoscala. Gli spazi del rimosso erano in lui dagli anni ‘70: nei buchi del naso, orecchie e gola dai quali fuoriuscivano schiume, urla, soffi e sospiri, versi e versetti, tante parole ripetute. Era attraverso il corpo che la voce si faceva voce, la carne carne, il dolore dolore, il gioco gioco, la ripetizione ripetizione.

In principio c’era anche il corpo dello spettatore: il corpo a disagio, che fischiava, borbottava e se ne andava, come durante The Futurist Ballet (1973), una delle sue prime performance, forse neanche concepita come tale, un happening di letture erotiche e musica noise firmato con Destroy All Monsters.[1] Comunque era un corpo presente, caratteristica fondante degli happening (Allan Kaprow). “You had to be there”. Hic et nunc. Niente documentazione. Teatro. Tra chi guardava c’era anche l’artista Stephen Prina che, in un’intervista nel 2019, mi raccontò di aver visto Kelley performare a CalArts, a LACE (Los Angeles Contemporary Exhibitions) e da Rosamund Felsen Gallery. Una volta, vedendo che uno dei suoi eventi tardava a iniziare, si mise a cercare l’amico e lo trovò in bagno che stava vomitando. Ecco l’emblema dell’intensità con cui Kelley viveva quegli atti scenici. Uno dei pochi altri ricordi di Prina di quella performance, insieme all’assenza di un palco, alla presenza di innumerevoli oggetti, era un testo fitto che veniva recitato a memoria. Ancora una volta, nel retroscena di quel ricordo, riapparvero evacuazioni corporee, fuoriuscite, dissipazioni e inevitabili perdite.

Paul Thek, Death of a Hippie (inside tomb), detail, 1967, Stable Gallery New York
Memore dell’opera tanto amata dell’artista Paul Thek, anche Kelley aveva abbandonato il minimalismo per entrare nella scultura fugace e corporea, con i piedi infangati nel proto-punk e pre-goth. Abbracciando il rimosso negativo della pop art e sottolineandone il lato disturbante, l’eredità aberrante della controcultura degli anni Sessanta.[2] Le figure occulte, la percezione alterata e gli spazi reconditi l’hanno sempre affascinato, tanto che l’artista aveva fantasticato e tentato di acquistare la mitologica Abbazia di Thelema, la casa di Aleister Crowley nei pressi di Cefalù, quando insieme a Emi Fontana aveva intrapreso un viaggio in Sicilia nel 2002. Forse anche per questo era in sintonia con Sun Ra; per la correlazione tra lo psichedelico, gli extraterrestri e l’afrofuturismo. Superata la prima fase performativa che lo metteva in scena in prima persona, Kelley riuscì a portare il corpo in molti dei suoi lavori e in tutte le sue forme: dall’annichilimento dell’individuo nella sua installazione video EAPR #1 (A Domestic Scene) (2000) al sadomasochismo alla Marquis de Sade del penultimo EAPR, #36 (Vice Anglais) (2011). Affrontando la ricostruzione di un passato dimenticato, il corpo per Kelley è sempre stato presente, pronto a sviscerare l’occulto, lo psichedelico e ciò che viene omesso (emblema dell’ossessione americana per la sindrome della falsa memoria), come tentativo di ricodificare i ricordi. Il corpo putrefatto lascia spazio, vanifica e non si ricorda, per poi re-immaginarsi e configurarsi in altro luogo.
Nei momenti in cui Kelley non si faceva spazio, l’artista lo indossava, giocando con tasche e scompartimenti. Nel suo video The Banana Man (1983) il personaggio televisivo di Captain Kangaroo tira fuori oggetti e tante banane dai suoi tasconi gialli rendendosi grottesco. Quasi a sottolineare l’ambivalenza delle cose che porta alla luce, i pezzi di vita che troviamo nascosti dopo tempo nelle tasche dei nostri cappotti. Gli oggetti e i pensieri riesumati dalle membrane cupe, dai buchi, dalle caverne, dalle tasche e dalla gola, e dagli altri depositi, diventano spazi di reminiscenze positive e negative. Come la prosa di Hoffmann, la tasca è associata a un luogo di scoperta (quando Nathaniel prende dalla tasca il telescopio di Coppola e vede per la prima volta la sua amante, Olympia, attraverso di esso) e di trauma (nella stessa tasca Nathaniel troverà ancora questo telescopio e ricorderà gli occhi di Olympia rovesciati).[3]
L’attivazione di questi oggetti è prima incanalata attraverso il performer: Kelley li toccava e li modificava (con il respiro, le orecchie e le mani), creando un rapporto quasi viscerale con essi, simile a quello che ha instaurato con la sua pianta nella performance The Parasite Lily (1980) che funge da moglie e compagna. Gli oggetti avevano diversi ruoli: fornivano il ritmo, come elementi sonori, e (a differenza degli oggetti minimalisti) erano performativi e rumorosi; come quelli all’interno delle performance Tube Music (1977), Perspectaphone (1978), Spirit Voices (1977-1979) e The Pole Dance (1977-1997). Essi diventavano dispositivi mnemonici, scenici, apparecchi acustici e, in un certo senso, testimoni della performance stessa.

C’è stato un momento in cui il rapporto dell’artista con gli scompartimenti è sfuggito dai confini del corpo e si è dislocato negli oggetti e, soprattutto, nello spazio architettonico: in un certo senso, l’architettura e lo spazio sostituiscono il corpo o si fanno corpo. Nella performance Plato’s Cave, Rothko’s Chapel and Lincoln’s profile (1985-86) un elemento dell’installazione, The Trajectory of Light in Plato’s Cave, era accessibile solo strisciando sotto il dipinto di una grotta ed entrando in un altro spazio. Kelley diventa uno speleologo e le persone con lui. Ci immagina come dei vermi che strisciano e sbirciano l’oscuro e l’inimmaginabile: un’indagine composta da presente e passato mescolati insieme e contaminati dalla loro reciproca influenza e deterioramento. Questo spazio è semi aperto, come il forno di Sylvia Plath. “I wanted to get across a subterranean feel of two kinds of depth, something akin to the relationship between the subconscious and the unconscious: a below meaning and an even further, inaccessible zone. Smallness, closeness, and darkness in architecture always evoke this kind of psychological effect.”[4]
A partire dagli spazi più piccoli delle nostre case, del nostro corpo e dei nostri vestiti, come tasche, armadi, guardaroba, cassapanche, tubi e gli angoli più nascosti, la memoria nel lavoro di Kelley è negoziata attraverso questa serie di costrutti fluidi: spazi corporali e architettonici che ci riconducono a qualcosa di cavernicolo e sotterraneo. Attraverso sé stesso, e solo guardando ai primi anni di lavori performativi carichi di nebbie e miasmi, Kelley ha chiaramente messo in discussione la natura, la forma e la funzione della memoria, in particolare collocandola nel rimosso viscerale, e mettendo in discussione il suo ruolo nell’educazione e nelle strutture istituzionali.

Mike Kelley, Rose Hobart II, 2006, Wood, metal, carpet, acrylic paint, video projection and sound, 72 x 178 x 240 in., Installation view, Hauser & Wirth, Zurich, photo: Stefan Altenburger, courtesy Mike Kelley Foundation for the Arts and Hauser & Wirth
In occasione della mostra retrospettiva di Kelley all’Hangar Bicocca (Milano) nel 2013, Eternity is a Long Time, curata da Emi Fontana e Andrea Lissoni, mi sono accucciata all’interno dell’installazione Rose Hobart II (la dea hollywoodiana di Joseph Cornell che ha ispirato il suo primo film del 1939, intitolato Rose Hobart).[5] La struttura ricorda gli oggetti a forma di megafono della performance Perspectaphone (1978). Rose Hobart II era però più grande, mi conteneva. Si trattava di una serie di tunnel di legno immersi nell’oscurità, nei quali si strisciava per osservare la “volgare” cultura adolescenziale rappresentata dal film Porky’s di Bob Clark del 1981, con la colonna sonora sostituita da The Wild Bull di Morton Subotnick (1968). La sensazione era di essere spiata e al contempo di diventare una voyeur all’interno scena in cui Rose Hobart appare e fa la doccia, rappresentata lì al rallentatore, avanti e indietro, più e più volte. E mentre strisciavo e la guardavo, mi risuonava la famosa frase incisa sul dipinto di Kelley, Exploring (1985): “Crawl Worm!”[6] E una domanda: piegandoci per terra, scendendo il sottoscala, frugando nelle tasche, strisciando sui gomiti, riusciremo a far riemergere il recondito e riscattarci dal rimosso? Forse noi siamo la conseguenza di questa fame d’aria. Di questo strisciare sui gomiti, in cui Kelley ci rende vermi. È lì che si incarna il nostro io, con tutte le sue contraddizioni. Lontano da una visione clinica americana sulla sindrome della memoria repressa, ma forse più vicino al toccare con mano, al lerciume, alla carne e al corpo.
In copertina: Mike Kelley, Perspectaphone, 1978. Performance at LACE, Los Angeles, 1978. Courtesy of Mike Kelley Foundation for the Arts.
[1] Destroy All Monsters è il nome del gruppo fondato all’Università del Michigan (Ann Arbor) nel 1972, da Mike Kelley insieme ad artisti e musicisti, tra cui Jim Shaw, Kelley, Niagara e Cary Loren. Destroy All Monsters, come modus operandi, utilizzava strumenti e suoni non convenzionali e improvvisati, percussioni, elettronica primitiva e chitarre per legare estratti sonori al rumore. L’approccio performativo di Kelley, soprattutto nei primi lavori, trovava un forte equivalente verbale e visivo nei gruppi della musica noise.
[2] Mike Kelley, “Death and Transfiguration” in Mike Kelley, Foul Perfection: Essays and Criticism (Writing Art), ed. John C. Welchman (Cambridge: The MIT Press, 2003).
[3] “The Sandman” (German: Der Sandmann, 1816), E. T. A. Hoffmann.
[4]“Volevo trasmettere un pensiero sotterraneo con due tipologie di profondità, qualcosa di simile al rapporto tra subconscio e inconscio: un significato nascosto e una zona ancora più lontana, inaccessibile. La piccolezza, la vicinanza e l’oscurità nell’architettura evocano sempre questo tipo di effetto psicologico.” Mike Kelley in: John C. Welchman, “Sublevel (1998)”, in Mike Kelley, eds. Eva-Meyer-Hermann and Lisa Gabrielle Mark, Stedelijk Museum Amsterdam, (Munich, London, New York: Delmonico Books, Prestel, 2013), 216.
[5] ‘Hollywood Filmic Language, Stuttered: Caltiki The Immortal Monster And Rose Hobart’ in Mike Kelley, Foul Perfection: Essays and Criticism (Writing Art), ed. John C. Welchman, (Cambridge: The MIT Press, 2003).
[6] Mike Kelley, Exploring, dipinto all’interno dell’opera Plato’s Cave, Rothko’s Chapel, Lincoln’s Profile, 1985.