Negli ultimi anni ho lavorato a un commento delle Avventure di Pinocchio. Nell’annotare i suoi 36 capitoli mi sono potuto avvalere di studi importanti, che da quaranta anni almeno ne hanno chiarito i principali aspetti, da quelli della lingua e dello stile a quelli che riguardano il rapporto dell’autore con la scrittura fiabistica o col sistema editoriale scolastico, e così via. Nel mio commento, ho però pensato di utilizzare come supporti interpretativi anche alcune tra le soluzioni artistiche individuate da quanti hanno ripreso le imprese del burattino di Collodi e lo hanno illustrato, lo hanno portato in scena, o lo hanno adattato al grande o al piccolo schermo, in particolare attingendo alle intuizioni di Jakovitti, Carmelo Bene, Luigi Comencini, o recentissimamente Antonio Latella e Matteo Garrone.
Collocando nella stessa nota una frase di Giorgio Manganelli, un riscontro puntuale di Fedinando Tempesti o Daniela Marcheschi, e un riferimento alla macchina vocale di Carmelo, mi è sembrato non soltanto di poter mostrare la vitalità – nel nostro contemporaneo – di una figura e di un’opera dell’ultimo Ottocento, ma anche di poter indicare come negli ultimi cinque o sei decenni gli artisti e gli studiosi abbiano fatto emergere delle coordinate culturali che collegano Le avventure di Pinocchio a un’epoca precedente, un’epoca pre-moderna. Artisti e studiosi hanno contribuito a mio avviso a evidenziare la peculiare genealogia del capolavoro collodiano: guardando da dopo (rispetto alla pubblicazione del libro), hanno mostrato in quel che c’era prima qualcosa che c’era “ancor prima”.
È così emersa la convivenza di elementi culturali, formali e ideologici che vanno considerate dentro “durate” differenti, con le dinamiche di breve e di medio periodo (rispettivamente gli esiti post-unitari in Italia e i principi dell’educazione borghese) che subiscono l’interferenza di strutture di lungo periodo, su cui agiscono ragioni antropologiche profonde o parentele con dimensioni storiche in apparenza superate. Sicché, riprendendo le considerazioni di Francesco Orlando sulla letteratura fantastica, potremmo riconoscere in Pinocchio la presenza di un «superato».
Certo, non c’è dubbio che il fascino novecentesco del personaggio collodiano abbia riguardato soprattutto le logiche di animazione dell’inanimato, come mostra, per limitarmi a un solo esempio, il volume curato da Katia Pizzi nel 2012 per una fortunata collana della Routledge, significativamente intitolato Pinocchio, Puppets and Modernity. The Mechanical Body. Ma proprio il fascino della marionetta, il suo radicamento – insieme alla bambola – in tutte le civiltà umane, è prova che la temporalità non risponde alla amministrazione burocratica di una storiografia unilaterale: è a causa del cubismo, scrisse Carl Einstein nel 1915, che abbiamo imparato a capire la Negroplastik; è grazie agli sviluppi della automazione che ci si è soffermati a guardare con attenzione all’antico, bambinesco teatro delle marionette.
Così, se è vero che il «burattino» di Collodi è stato trascinato avanti, nella storia della ricezione, verso l’automazione e il mondo meccanico dell’industria, o addirittura verso l’androide, come mostra A.I.,il celebre film che Steven Spielberg, su idea e progetto di Stanley Kubrick, ha realizzato nel 2001, è altrettanto vero che questo stesso interesse per il testo collodiano ne ha fatto emergere altri motivi culturali, un differente spessore storico. Sollecitato da una recensione apparsa qualche settimana fa sul Portale della Treccani, ho pensato che fosse opportuno suggerire un attraversamento almeno parziale di questa dinamica per mostrare la natura “pre-moderna” del capolavoro collodiano, quel che potremmo chiamare il nachleben che lo abita.
Per le strade
Ancora per tutto l’Ottocento, e probabilmente ancora fino al secondo dopoguerra, i viaggiatori stranieri in Italia potevano ammirare non soltanto i capolavori dell’Arte, il genio di creatori e umanisti stretti a collaborare per l’onor e il decus delle città, ma anche le “fresche” movenze dell’arte popolare, le canzoni, i balli, il teatro. E tra questi, il teatro delle marionette. Nel 1818, per esempio, Wilhelm Müller descriveva l’arrivo del «casotto dei burattini» in una strada romana; e qualche anno dopo Waiblinger spiegava che il pubblico di questi spettacoli non era costituito solo da «scaricatori, calcinai, lustrascarpe e asinai», ma anche dei «più onorabili signori e dame», nonché da «intere famiglie insieme ai bambini». Assistendo alle schematiche vicende dei personaggi, «si fanno le proprie considerazioni, tutte ad alta voce e in pubblico, e si parla con le marionette come se si prendesse parte alla recita. Si fischia e si urla, si canta e si applaude, si rumoreggia e ci si schiarisce la gola in maniera orribile» (cit. in Dieter Richter, Pinocchio o il romanzo d’infanzia (1993), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, pp. 61-62).
Questo animato quadretto ci appare oggi come tipico della cultura di Antico regime almeno per come la conosciamo grazie agli studi sulla cultura popolare e sul rapporto tra oralità e scrittura avviati tempo fa da un grande maestro come Roger Chartier e in Italia fruttuosamente sviluppati da Infelise, Roggero e adesso Rospocher e altri. Ma per quanto riguarda il rapporto tra queste pratiche di lungo periodo e il personaggio di Pinocchio dobbiamo essere riconoscenti soprattutto a Fernando Tempesti, che già nel 1972 anteponeva a una sua edizione del romanzo una preziosissima introduzione in due parti. Nella prima, intitolata Chi era il Collodi, forniva quella che oggi chiamiamo una biografia intellettuale, piena di riscontri materiali e concreti assai puntuali. Nella seconda, Com’è fatto Pinocchio, si soffermava invece in modo particolareggiato sul rapporto del personaggio con «la maschera di Stenterello» (cfr. Carlo Collodi, Pinocchio, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 61). Era la prima volta che si restituiva all’opera di Collodi il suo respiro propriamente fiorentino e stradaiolo, e Tempesti avrebbe continuato per venti anni a precisare nel dettaglio la dimensione ambientale del testo, mostrando con precisione in che senso la “natura parlata” del testo risiedesse non in un generico municipalismo, ma in un radicamento culturale di matrice popolare, o insomma in una profonda natura folklorica.

L’edizione Tempesti reca il «finito di stampare» al marzo 1972. Pochi giorni dopo, nell’aprile 1972 venivano trasmessi i cinque episodi delle Avventure di Pinocchio, prodotto dalla RAI per la regia di Luigi Comencini e con un cast di primissimo livello, di cui facevano parte Nino Manfredi e Gina Lollobrigida, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, nonché Vittorio De Sica nella parte del giudice. La sceneggiatura, che Comencini aveva scritto insieme a una delle massime protagoniste dell’arte cinematografica italiana, Suso Cecchi D’Amico, compattava e sintetizzava diversi momenti del romanzo per adattarli alla narrazione televisiva, in una operazione che aveva una evidente vocazione interpretativa, giacché traduceva la fiaba in un registro stilistico che potremmo forse etichettare come “realismo magico”.
Manipolando le sequenze narrative del testo, i due sceneggiatori mettono in evidenza proprio il mondo del teatro. Lo fanno già i titoli di testa, in cui si vede un carro di campagna dirigersi verso il paesino dove vivono Mastro Ciliegia e Geppetto: è il carro che trasporta il teatro dei burattini. Nella ricostruzione di Comencini e Cecchi D’Amico, è proprio questo teatro ambulante a suggerire a Geppetto l’idea di «fabbricar[si] da [sé] un bel burattino di legno: ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali». Con questo burattino, come sappiamo, Geppetto vuole «girare il mondo, per buscar[si] un tozzo di pan e un bicchier di vino»: egli insomma si immagina, potremmo dire, un futuro da impresario teatrale, o almeno da manovratore di marionette. Sappiamo che le sue speranze saranno smentite. E tuttavia l’intuizione della coppia di sceneggiatori coglie appunto il legame del personaggio collodiano con quell’antica arte popolare del teatro di strada che ancora nell’Ottocento non era decaduta ed era anzi ben presente, oltre che in Sicilia (dove parzialmente sopravvive ancor oggi), in tutta la Penisola, e soprattutto in Toscana e nel Napoletano (cfr. Anna Carocci, Il poema che cammina. La letteratura cavalleresca nell’opera dei pupi, Palermo, Edizioni Museo Pasqualino, 2019)
La convergenza delle date credo sia significativa. Nel 1972, Tempesti spiega che il «fasto inventivo» del romanzo di Pinocchio deriva «dalla sua forma base, dal suo schema compositivo, insomma dalla sua struttura, che è felicemente elementare» e più precisamente che discende da quello «spettacolo popolare» tipicamente fiorentino, legato al personaggio di Stenterello, i cui grandi interpreti ottocenteschi erano stati Luigi Del Buono (morto nel 1832) e Amato Ricci (morto nel 1855). Nello stesso 1972, Comencini e Suso Cecchi D’Amico fissano nel più genericamente “italiano” teatro delle marionette la stessa matrice ideale del protagonista collodiano, marcandone sin dalle battute iniziali la consanguineità con le marionette di Mangiafoco, quegli attori e quelle attrici che lo stesso Collodi aveva definito come una «compagnia drammatico-vegetale» (cap. x).

A questo proposito mi sembra utile ricordare il brano in cui viene descritto l’ingresso del protagonista nel Gran Teatro dei Burattini. Siamo nel decimo capitolo del romanzo:
Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò una mezza rivoluzione.
Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.
Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.
La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e si trattavano d’ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due animali ragionevoli e due persone di questo mondo.
Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:
– Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!…
– È Pinocchio davvero! – grida Pulcinella.
– È proprio lui! – strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.
– È Pinocchio! è Pinocchio! – urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori dalle quinte. – È Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio!…
– Pinocchio, vieni quassù da me! – grida Arlecchino – vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno!
A questo affettuoso invito, Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lì schizza sul palcoscenico.
Non si tratta certo di un riferimento a quello che Tempesti ritiene sia il modello implicito dell’opera, cioè il teatro di Stenterello; e tuttavia è evidente che Collodi si compiace di rappresentare un intrattenimento popolare che doveva essere senza dubbio consueto («secondo il solito») per il suo lettore, giovane o meno che fosse. Ed è interessante che il «pubblico» della «platea» non sia per nulla composto da soli fanciulli. Come già avevano notato i viaggiatori tedeschi del s. XIX, anche Comencini propone in maniera icastica, esibendo il carattere popolare di questa occasione teatrale.

Nello stesso 1972 appare nella collana degli Oscar Mondadori una ristampa della seconda interpretazione fumettistica di Pinocchio che Benito Jacovitti aveva originariamente realizzato nel 1946-47. In questa edizione il testo collodiano è inserito “senza fumetto”, cioè viene variamente incorniciato nei riquadri che separano le vignette. Ne viene rafforzata l’integrazione testo/illustrazione, che esalta in questo caso la concitazione degli eventi. Ma soprattutto, per l’economia del nostro discorso, viene qui evidenziato il carattere adulto e interclassista del pubblico riunitosi nel «Gran Teatro dei Burattini», come mostrano i copricapi degli spettatori, tra i quali spiccano cappelli a cilindro, pagliette e berretti da operaio. Esilarante e superdensa era stata anche l’interpretazione di questa scena che lo stesso Jakovitti aveva offerto nel 1964 in un’altra edizione, a colori, poi destinata a un particolare successo commerciale.

Come abbiamo visto, la proposta interpretativa di Tempesti, poi accettata nella sostanza da tutti i critici successivi, è stata formulata all’inizio degli anni Settanta. In realtà, Carmelo Bene aveva iniziato già dieci anni prima il suo avvicinamento al romanzo collodiano, cogliendone appunto la vocazione stradaiola e vagabonda che poi avrebbe sviluppato in maniera quasi spudorata. Di contro alla Italietta di fine Risorgimento, di contro a un generale indirizzo europeo di metà Ottocento verso la realizzazione di percorsi pedagogici che consentissero un più efficace controllo degli adolescenti (come spiegava in quegli stessi anni Foucault nel corso al Collège de France del 1974-1975 intitolato Gli anormali, Milano, Feltrinelli, 2000), Carmelo Bene ha letto nel celebre burattino una pulsione anomica le cui radici sono tanto folkloriche (lo dimostra la sua parentela con figure demoniche quali Arlequin e Pulcinella) quanto “borghesi” (giacché affondano nella cultura del cabaret e dell’avanspettacolo entre-deux-siècles: si pensi agli spettacoli Gregorio, del 1961, e Addio porco, del 1963: cfr. Armando Petrini, Carmelo Bene, Roma, Carocci, 2021).
Questo secondo côté del testo originario, quello direi più marcatamente pedagogico, non poteva che essere il naturale obiettivo polemico di un’operazione volta alla revisione aggressivamente parodica del processo risorgimentale. Lo stesso Tempesti, in una nota del 1972, ne avrebbe rimarcato la peculiare violenza “mimetica”, cioè corporea e attoriale, sviluppata contro l’istituzione nazional-familiare. Ma ai fini del riconoscimento del ruolo che l’interpretazione degli anni Sessanta-Settanta ha avuto nella individuazione di una genealogia pre-moderna di Pinocchio è senza dubbio più importante soffermarsi sull’altro versante dell’operazione di Carmelo Bene. Un aspetto tanto più sorprendente in un attore-autore così colto, sofisticato, rivoluzionario quale egli è stato, e che tuttavia così spesso ha attinto alle risorse del gesto pre-accademico e truffaldino, o insomma a quella teatralità istintuale, primitiva senza per questo essere meno artistica, la cui più chiara rappresentazione è il repertorio del Gatto e la Volpe (proprio quelli intorno ai quali Comencini avrebbe fatto ruotare tutta la prima parte della sua riduzione televisiva).
Avendo presenti le sue prime esecuzioni sceniche di Pinocchio, credo anzi si possa affermare che Carmelo Bene fa rifluire la prospezione “italiana” e borghese dentro la dimensione popolare. Lo mostra a mio avviso con chiarezza l’edizione radiofonica del suo Pinocchio registrata nel 1974 (come si vede, siamo sempre negli stessi anni), nella quale la scenetta in azione nel teatro dei burattini viene perfidamente individuata nella Piccola vedetta lombarda (impersonata da Irma Palazzo): De Amicis rifluisce nel folklore, e il Cuore post-unitario finisce col pompare non sangue ma linfa vegetale.
L’arte della parola
Al mondo di Stenterello Fernando Tempesti riconduce anche un aspetto assai peculiare della parola pinocchiesca. Se è vero che tipica di quella maschera è «l’abitudine di prodursi in “leggendari” riassunti, ricchi di falsa logica come quelli di Pinocchio» (cfr. Carlo Collodi, Pinocchio, ed. 1972 cit., p. 62).
A mero scopo di esemplificazione, riporto qui la prima delle sue tirate, che si può leggere nel cap. VII del romanzo:
Pinocchiuccio mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi?
– Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d’inferno e me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io avevo una gran fame, e allora il Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene: sei stato cattivo, e te lo meriti» e io gli dissi: «Bada, Grillo!…», e lui mi disse: «Tu sei un burattino e hai la testa di legno» e io gli tirai un manico di martello, e lui morì, ma la colpa fu sua, perché io non volevo ammazzarlo, prova ne sia che messi un tegamino sulla brace accesa del caldano, ma il pulcino scappò fuori e disse: «Arrivedella… e tanti saluti a casa.» E la fame cresceva sempre, motivo per cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi alla finestra mi disse: «Fatti sotto e para il cappello» e io con quella catinellata d’acqua sul capo, perché il chiedere un po’ di pane non è vergogna, non è vero? me ne tornai subito a casa, e perché avevo sempre una gran fame, messi i piedi sul caldano per rasciugarmi, e voi siete tornato, e me li sono trovati bruciati, e intanto la fame l’ho sempre e i piedi non li ho più! ih!… ih!… ih!… ih!…
In poche battute, Pinocchio spiega insomma che quanto gli è accaduto durante la separazione dal suo creatore è solo conseguenza della fame, vero e proprio mot-clé del brano e dell’opera tutta, che in ampia parte si potrebbe definire un “romanzo della fame”, degno di essere inserito nella famiglia picaresca.
Ma su questo in conclusione. Adesso mi piace ricordare che per la sua inventività linguistica, il discorso che ho riportato è stato spesso oggetto di analisi da parte degli studiosi (ricordo solo Fredi Chiappelli e Pier Vincenzo Mengaldo), che hanno segnalato l’effetto congiunto realizzato dalla costruzione paratattica (e … mi disse, e io gli dissi, e lui morì, etc. etc.) insieme alla costruzione “soggettiva” delle strutture causali («perché io non volevo ammazzarlo, prova ne sia […]», «motivo per cui», etc. etc.). Se Tempesti ha visto nell’allocuzione di Pinocchio la presenza di quella «cultura parlata» a suo avviso centrale nell’opera di Collodi, anche per la decisiva presenza della figura teatrale di Stenterello (cui ha aderito peraltro anche l’altra grande commentatrice di Pinocchio, Daniela Marcheschi; cfr. il suo commento ai «Meridiani» delle Opere di Collodi, pp. 948-49), possiamo qui riconoscere quella tendenza al bavardage a-sintattico e potenzialmente truffaldino che andrebbe ricondotto alla grande figura del vagabondo, così tipica del panorama italiano ed europeo della prima modernità.

Ancora una volta, l’incipit dell’adattamento Comencini-Suso Cecchi D’Amico mostra la pertinenza di questo collegamento. Il teatro ambulante, la misera astuzia dei personaggi impersonati da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, la stessa evidenza scenografica delle vie di campagna mostrano lo stretto rapporto intravisto dai due sceneggiatori tra la storia di Pinocchio e la performance di strada, assimilabile a quanto indicato sempre in quegli anni (era il 1973) da Piero Camporesi (cfr. Il libro dei vagabondi [1973], Milano, Garzanti, 2003).
Sullo stesso cammino, possiamo dire, si era incamminato qualche tempo prima Carmelo Bene, la cui concezione drammaturgica di Pinocchio era manifesta almeno sin dalla pubblicazione del suo primo libro, Pinocchio e Proposte per il teatro, apparso nel 1964. Se è vero che la sceneggiatura è una operazione di taglio e ricucitura sostanzialmente fedele al romanzo originale, è però anche vero che il testo propriamente pinocchiesco è preceduto da un prologo, assente nel romanzo ma esemplato sulla base di quella che nel testo di Bene è la scena settima della seconda parte, equivalente a quel capitolo xxxiii dell’originale collodiano dove si legge la magnifica allocuzione con cui il «Direttore» della «compagnia di pagliacci» invita il pubblico a partecipare allo spettacolo circense previsto per il pomeriggio. Ecco l’esordio e la conclusione del breve discorso come si trova in Collodi:
Miei rispettabili auditori! Non starò qui a farvi menzogna delle grandi difficoltà da me soppressate per comprendere e soggiogare questo mammifero, mentre pascolava liberamente di montagna in montagna nelle pianure della zona torrida. […]
Prima però di prendere cognato da voi, permettete, o signori, che io vi inviti al diurno spettacolo di domani sera: ma nell’apoteosi che il tempo piovoso minacciasse acqua, allora lo spettacolo, invece di domani sera, sarà posticipato a domattina, alle ore 11 antimeridiane del pomeriggio.
Questa è invece l’interpretazione proposta da Carmelo nella versione definitiva consegnata alla Opere pubblicate per Bompiani nel 1995:
[…] Non vi starò qui a far menzogna delle sue primizie giovanili né delle difficoltà da me soppressate per comprenderlo ma procediamo da ciò e per non intrattenerci più a lungo io passo alla vera e legittima rappresentazione. Avanti signori avanti si va subito ad incominciare per maggior comodo e distruzione di tutte le persone che sono dilettanti.
[…] Spero che vogliate favorirmi anche doman l’altro sera al diurno serale trattenimento. Ma nell’apoteosi che il tempo piovoso minacciasse acqua allora invece di doman l’altro sera il trattenimento sarà posticipato a doman mattina.
Intanto passino dentro o signori e vogliateci accordare un benevolo compatimento per i nostri involontari errori. (Bene, Pinocchio, in Id., Opere, Milano, Bompiani, 2002, pp. 612-13)
Come si vede a colpo d’occhio, Bene si compiace di recuperare quella retorica truffaldina che Collodi ricavava a sua volta da una plurisecolare tradizione locale. Truffaldina e al tempo stesso semplice, diretta: del tipo che è stato detto per il Gatto e la Volpe, costretti da un «destino severo», come scrive Giorgio Manganelli nel 1977 (ma il progetto risaliva all’inizio di quel decennio), «ad avvisare la vittima con una serie di patenti menzogne, di contraddizioni, di lapsus», che li costringe a «derubare solo chi è fermamente deciso a farsi derubare» (Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Milano, Adelphi, 2002, p. 106).
Avendo questo confronto in mente sarà facile riconoscere lo stile e l’intenzione del Prologo scritto da Carmelo Bene (e assente in Collodi), dove leggiamo, tra le altre, le seguenti parole:
Rispettabile pubblico ed inclita guarnigione dell’uno e dell’altro sesso essendo di passaggio per questa illustre Metropolitana mi sono voluto procreare il bene il piacere l’onore e il vantaggio di presentarvi davanti agli occhi un noto burattino sconosciuto finora in questi paesi e del quale forse avrete veduto il compagno ma non il simile.
[…]
Parla la lingua dei cedri del Libano lingua che io bene intendo parlo ma non capisco e nella supposizione che neppure le signorie loro la intendano lo faremo ragionare nel forestiero idioma dei suoi paesi.
[…]
Non vi starò qui a far menzogna di quanto sia ampia la sua capacità cerebrale io solo e null’altro lo sa. Io solo o signori che seguendo il sistema di Galles ho anotomizzato la sua testa e vi ho trovato una piccola cartagine ossea sporgente in dentro che la stessa facoltà medicea di Parigi riconosce essere quello il Bulbo Occocchio della matematica solida e della geometria liquida.
[…]
Spero che vogliate favorirmi anche doman l’altro sera al diurno serale trattenimento. Ma nell’apoteosi che il tempo piovoso minacciasse acqua allora invece di doman l’altro sera il trattenimento sarà posticipato a doman mattina […] (Bene, Pinocchio, cit., pp. 543-45)
Al di là del prelievo puntuale del «sistema di Galles», ricavata dal capitolo xxxiii del romanzo, non si fatica a ritrovare in queste battute la ripresa di lemmi (apoteosi per “ipotesi”), espressioni («non vi starò a far menzogna») e in generale tutto un tono da imbonitore da fiera o ciarlatano che Carmelo Bene trasferisce dall’interno dell’opera alla sua soglia d’esordio. L’applicazione di quella declinazione circense e stradaiola di cui dicevamo in precedenza all’intera vicenda del burattino dimostra non solo la sua capacità di anticipare una interpretazione dell’opera collodiana poi divenuta corrente, ma anche e soprattutto la sua intuizione di mettere in contatto la cultura alta con la cultura bassa, contaminando il repertorio del grande attore col trovarobato del guitto da fiera (cfr. Carmelo Bene, Proposte per il teatro, in Id., Opere, cit., p. 630).

Non sarà necessario provare la genealogia di questa grande performance verbale, quella che veniva chiamata – come ha mostrato Camporesi – l’ottava arte, di cui erano maestri truffatori, bianti, affrati, cagnabaldi, simulatores, e cerretani o insomma ciarlatani in viaggio sulle strade d’Europa. Mi limito, per puro gusto del delirio linguistico, a riportare un brano della celebre predica di frate Cipolla nel Decameron:
Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana, li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto più utili sono a altrui che a noi. […] Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando? Io capitai, passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni trovai assai […]: e quindi passai in terra d’Abruzzi […]; e poco più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e ’l vin nelle sacca: da’ quali alle montagne de’ bachi pervenni, dove tutte l’acque corrono alla ‘ngiù. (Dec. VI 10 37-41)
Come tutte le grandi performance, e al pari di quelle di Pinocchio, il discorso del frate meriterebbe un’analisi accurata. Mi basta notare che non vi è parte del mondo in cui non sorga il sole, e che in tutti i luoghi della Terra le acque scendono verso il basso. Se il pubblico di Cipolla interpreta l’espressione «in quelle parti dove apparisce il sole» come “verso Oriente” è perché un racconto di meraviglie non può che svolgersi in luoghi lontani, soprattutto a Est. E se uno comincia a entrare nella prospettiva dell’incantesimo verbale, allora non potrà che accogliere a bocca aperta la notizia di acque che «corrono alla ’ngiù». Qui però non ci interessa ricostruire il sistema di convinzioni, convenzioni e credenze che consente al pubblico di sintonizzarsi con questo tipo di oratore. Ci interessa invece notare che per quanto semplice, per quanto infantile lo si voglia considerare, il discorso di Pinocchio mostra un’antica parentela con la guitteria degli imbroglioni di strada: quelli che, in vario modo, Carmelo Bene, aristocratico sperimentatore, Luigi Comencini, curioso ricostruttore dell’etnologia toscana, e Fernando Tempesti, attento filologo collodiano, hanno contribuito a riconoscere come origine del grande personaggio collodiano.
La fame
Pinocchio è dunque personaggio di strada imparentato con gli antichi truffatori del medioevo e del Rinascimento, o insomma dell’epoca che oggi tendiamo a definire early modern. E se la storia di Pinocchio è una storia di attraversamenti, di cammino e di passaggio da una figura di riferimento a un’altra, se non proprio da un signore a un altro, allora il romanzo di Collodi mostra anche la sua affinità con la tradizione picaresca.
Basterebbe a dimostrarlo il brano che abbiamo già intravisto in precedenza, dove il burattino spiega che la sua nottataccia d’inferno è stata segnata da una serie di eventi la cui scaturigine è la fame. Con questa parola egli apre infatti il discorso (io avevo una gran fame), con questa commenta la prima serie di disavventure (la fame cresceva sempre), con questa segnala l’insuccesso della sortita all’esterno (avevo sempre una gran fame), con questa, infine, sintetizza la sua situazione attuale: la fame l’ho sempre e i piedi non li ho più!
Certo, alcuni dei personaggi che ho evocato, a partire dal Grillo, mostrano che la fame è anche un grande argomento della pedagogia postunitaria e borghese che pure trova ampio spazio in Collodi. Lo mostra per esempio il celeberrimo episodio delle tre pere che Geppetto regala a un affamato Pinocchio. O ancora lo si vede nel sadismo pedagogico della Fatina, che, dopo aver lasciato il burattino per una nottata sveglio e immobilizzato fuori della sua porta, gli fa recapitare un vassoio pieno di alimenti posticci: «il pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di alabastro, colorite, come se fossero vere» (cap. xxxix).
Ma l’altro versante, quello miserabile e creaturale, quello serio, è decisamente più pervasivo, e trova la sua matrice nella cultura pre-moderna e pre-borghese. Lo vediamo innanzitutto nella straordinaria quanto sintetica descrizione della casa di Geppetto, la quale non è solo «semplice», cioè limitata a pochi, utili oggetti, ma è “povera”: i mobili sono rotti o rovinati, il riscaldamento manca, il cibo scarseggia o è del tutto assente. Una pentola che bolliva allegramente: in questo modo semplice, e a suo modo gaio, si introduce il grande tema antropologico della fame. Le contrade in cui si svolge Pinocchio appartengono a quel Paese della fame di cui ha parlato Camporesi, cioè all’Italia medioevale e moderna, le cui propaggini di povertà estrema arrivano sino alla metà del sec. XX. Il protagonista, nonostante la sua natura vegetale, incrocerà più volte la mancanza di cibo: tra i tanti esempi possibili, mi soffermo ancora sul cap. VI, quando Pinocchio cerca qualcosa da mangiare dentro la casa di Geppetto, quand’ecco che sul monte della spazzatura, cioè nel luogo più reietto – secondo la tipica logica del contrasto narrativo – egli vede «qualche cosa di tondo e di bianco» che svetta sulla spazzatura: e l’incredulo Pinocchio mette finalmente a fuoco un uovo. La felicità per il ritrovamento si risolve in frenesia tattile: il burattino tocca e bacia con voluttà il suo uovo, per il quale, pur essendo in fondo povera cosa, fantastica infinite ricette, fino a scegliere la soluzione che gli permetta la soddisfazione più veloce. Tempesti ha sottolineato la gestualità del protagonista in questa scena ribadendo la sua tesi dell’origine teatrale del personaggio: e infatti non vi è dubbio che quello della fame è un grande tema del teatro popolare, dalla commedia plautina al teatro italiano del Rinascimento, e da Goldoni fino a Totò (per il tema dell’uovo si veda per esempio Totò cerca casa) e Dario Fo.

Se si tiene in mente questo straordinario capitolo, e semmai lo si affianca alle pagine successive, dove Pinocchio esce di casa affamato, in una notte tempestosa, per chiedere l’elemosina di un pezzo di pane; oppure se si ricorda il capitolo XIII, dove il Gatto e la Volpe approfittano della ingenuità del protagonista per godersi una grande abbuffata, o ancora il capitolo XXVIII, dove il mostruoso pescatore dai capelli verdi pensa di mangiarsi fritto il «pesce-burattino» che gli è capitato nella rete, allora ci si rende conto che la povertà e la fame sono centrali nell’opera di Collodi. E giustamente se ne sono accorti in vario modo gli artisti che l’hanno visualizzata. Tra tutti tornerò a ricordare la povertà diffusa nella quale Comencini ha immerso la storia di Collodi, aprendo la pista alla recente soluzione di Matteo Garrone (2019).

Mi fa allora piacere terminare questo attraversamento del capolavoro collodiano letto rispetto alla sua possibile genealogia (culturale più che letteraria, o meglio intertestuale più che derivativa), con il dettaglio di una delle scene che ho appena evocato. Siamo nel capitolo XIII, Pinocchio ha scelto di seguire il Gatto e la Volpe, e con loro è arrivato alla Osteria del Gambero Rosso. Qui,
Entrati nell’osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.
Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!
La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre, si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca.
Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccio di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo, col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un’indigestione anticipata di monete d’oro.
L’indigestione immaginaria di monete e l’abboffata alle spalle di un credulone sono le due facce speculari di un unico grande teatro, quello della fame. Quella che ha innervato per secoli la dorsale appenninica italiana, attraversando tutte le regioni d’Italia, senza escludere le isole, da Nord a Sud, da Est a Ovest. La fame e la parola dell’imbroglio stradaiolo: due delle grandi coordinate che mostrano come l’ombelico di Pinocchio, creatura vegetale ma non per questo meno affamata, sia strettamente collegato all’orizzonte culturale della prima modernità. Qualcosa che abbiamo imparato ad apprezzare soprattutto grazie allo sguardo, indipendente ma concordante, col quale nella seconda metà del Novecento studiosi e artisti hanno saputo guardare a questo grande e misterioso capolavoro.
