“No brolo per me fiolo”

17/05/2023

È uscito da Officina Libraria un libro che mancava: le Lettere di Lorenzo Lotto, Corrispondenze per il coro intarsiato (288 pp. ill. col., € 35), curate da due amici di «Antinomie», Corrado Benigni e Mauro Zanchi. Come scrive Benigni,«Lotto non può certo definirsi, rispetto ad altri artisti del Rinascimento, uno scrittore a tutto tondo» quali furono invece l’Alberti, Michelangelo e il Vasari ma anche, in forme meno canoniche, Leonardo, Raffaello o lo stesso Bronzino. Le sue scritture sono di natura squisitamente pratica – più simili dunque al Libro mio del Pontormo – come il Libro di spese diverse e il Testamento, da tempo fonti essenziali alla ricerca filologica sull’artista. Tali sono pure le trentanove lettere da lui inviate fra il 1524 e il 1532 ai reggenti della Misericordia Maggiore di Bergamo, riguardanti i cartoni del coro di Santa Maria Maggiore (circa settanta disegni a tema biblico, poi tradotti a intarsio con una quindicina di essenze lignee da Giovan Francesco Capoferri e dalla sua bottega: tarsie e relativi «coperti», qui in parte riportati, da poco restaurati e tutti riprodotti nel volume). A Bergamo (città della quale una tradizione non più accreditata lo voleva originario) Lotto trascorse gli anni dal ’13 al ’25: un periodo in apparenza breve, considerati i suoi quasi ottant’anni di vita, ma in effetti unica parentesi di stabilità in un’esistenza sempre errabonda.

Eppure, malgrado la sua natura utilitaria, proprio come nel caso dell’atrabiliare diario del Pontormo, aggiunge Benigni che «per Lotto la scrittura è stata molto più di un semplice strumento di comunicazione funzionale, rivelando piuttosto un’attenzione particolare nella scelta dei vocaboli, nei registri, nella costruzione della frase; in una sola parola: nello stile della lingua, che di riflesso mette in luce i tratti della sua personalità, quel sentimento d’inquietudine – come tante volte è stato osservato – che percorre l’intera sua opera e la sua personalità»: «ne esce il profilo di un uomo sensibile e generoso, buono ma pignolo e pedante. Fondamentalmente un solitario, dunque, inafferrabile e per questo non mai pienamente compreso». «Solo senza fidel governo, et molto inquieto nela mente», annota non a caso l’artista a un certo punto del suo Testamento.

È questa la chiave in cui legge questi testi il saggio di Antonella Anedda che arricchisce la pubblicazione (insieme ad altri testi di Franco Cardini, Marco Carobbio, Enrico Maria Dal Pozzolo e Telmo Pievani; lo presentiamo qui per la cortesia dell’autrice e dei curatori), mettendoli in relazione alle scritture di poeti corregionali a venire che alle figure del Lotto hanno guardato idealmente (Franco Scataglini, da un verso del quale Anedda prende il suo titolo) o con più diretta ekphrasis (il Francesco Scarabicchi, scomparso due anni fa, di Con ogni mio saper e diligentia. Stanze per Lorenzo Lotto, Liberilibri 2013). E a noi pare lecito ricondurre anche la non marchigiana autrice di Historiae alla «balbuzie provvidenziale che azzera la scioltezza, il fluente discorso del potere», da lei letta nelle lettere del pittore, nella sua vicenda di sempre maggiore estraneità dal commercio con le istituzioni terrene e spirituali. Anche lei, a chi la legga, si presenta sempre «incrinata e tuttavia misteriosamente solida». Non c’è bisogno di nascere nello stesso posto, per scoprirsi consanguinei.

Andrea Cortellessa

I versi di Franco Scataglini, grande poeta marchigiano, potrebbero a distanza di secoli incunearsi in una delle trentanove lettere che Lorenzo Lotto scrisse alla Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo tra il 1524 e il 1532.

Le lettere di Lotto sono secche, riservate, consapevoli. Provano a spiegare alla committenza le condizioni, le difficoltà, di chiarire i sospetti, i fraintendimenti, di ricevere onestamente quanto gli spetta. Sono miti ma non umili. Il pittore che scrive conosce se stesso, si rattrista «per haver la mente molto travagliata da varie et strane perturbationi» ma è lucido quando non si sente apprezzato anzi maltrattato e non amato come avrebbe voluto: «Mal sono careciato da voi, anci svilito et vituperato e minaciato in le vostre lettere». «Mal careciato» è un’espressione da orfano ma anche se potessimo ascoltare i loro discorsi, da bestia accarezzata contropelo.

«No brolo per me fiolo» avrebbe potuto dire allora Lotto con la voce di Franco Scataglini. Il motivo non è solo geografico – nelle Marche, a Loreto, Lotto si ritira facendosi oblato – ma esistenziale: un senso di esclusione ma anche di indipendenza. C’è un no sotteso al progressivo ritiro dal mondo del suo tempo da parte di Lotto e un no davanti alla luce totale spesso trionfante del giovane Tiziano che pure ammira e che è ancora lontano dai rivoli di luce decomposta dell’Apollo e Marsia di Kroměříž.

No brolo. Nessun giardino allora, semmai un cortile, e in questo spazio una vita raccolta tradotta in un impuntarsi del linguaggio, una balbuzie provvidenziale che azzera la scioltezza, il fluente discorso del potere.

Lotto, l’escluso, o l’autoescluso, alla privazione e alle scarse carecie, oppone «gran faticha», una rassegnazione che a volte però si risveglia e ha una sfumatura di sarcasmo: «Se non vi ho satisfato, pacienza» dice ai suoi interlocutori. Le lettere documentano una realtà sociale inquieta, instabile dove l’artista deve anche avere doti di mercante e destreggiarsi tra offerte e rifiuti. Lotto lo sa e ne soffre, non è reverente, ma neppure arrogante e tanto poco calcolatore da avere problemi con un semplice affitto. La sua «honestate» subordina l’utile alla correttezza, il profitto non è fine a se stesso.

La fedeltà alla sua opera convive con la sprezzatura: «Fate agiungere o sminuire a qualche pictor de lì a piacimento pur ch’l mio disegno non sia alterato». Il verbo sminuire è indicativo come lo è l’«agiungere»; l’orgoglio si rivela nell’apparente indifferenza della frase «a piacimento». Raccomanda Moretto «senza ombra e gelosia sia»; ammira Tiziano, ma non lo imita. Gli interessa, questo è il punto che queste lettere ribadiscono, l’esposizione alla luce dei quadri, i materiali appunto da usare: «la vernice de ambra, li marcelli d’argento». La passione per i colori soprattutto per «l’endego», l’indaco, l’azzurro e per gli olii come quello fatto dalle noci si intreccia al fastidio: «Me trovo cossì fastidito» del dover scrivere persone che non sono immuni dal potere, confraternite, monaci, affittuari, e alla stanchezza: «Et Dio sa quanto sono stanco… dieci anni …pacienzia».

La stanchezza si tradurrà con il poi definitivo allontanamento dal Nord, da Venezia e da Bergamo. I fallimenti o almeno le frustrazioni non mancano. Nell’agosto 1550 ad Ancona, la lotteria per vendere sedici suoi quadri e trenta cartoni colorati che aveva preparato per le tarsie del coro di Santa Maria Maggiore a Bergamo vende pochissimo. Lo stesso concetto di lotteria e la stessa vicinanza con il nome Lotto, forse lo aveva stranito e rattristato più del dovuto? Non è forse la firma che inserisce nei quadri nei posti meno usuali, quasi invitando chi guarda a scoprirla seguendo una pista?

Tarsìa lignea nel coro di Santa Maria Maggiore, Bergamo

Di fatto progressivamente interviene una forma di «rason», di ragione che lo dissuade una volta per tutte dal voler essere chi non è. Le lettere scritte alla confraternita preparano una decisione che non è improvvisa, ma meditata. Testimoniano il peso di una relazione che Lotto percepisce sempre più ostile ma che si intreccia a uno stato mentale in cui la dimensione privata fa da cassa di risonanza a una storia politica difficile, a una fede agitata da dubbi e da presenze come quella luterana da cui si sente obbligato a prendere le distanze, ammalandosi di scrupoli, tormentandosi e ribadendo nelle lettere la sua cattolicità. Perfino le condizioni meteorologiche, le congiunzioni astrali annunciavano sventura. Il 1552 era stato flagellato da nubifragi, tempeste di neve, inondazioni. Il 1549 aveva segnato la fine delle pubblicazioni eterodosse a Venezia, il clima diventava sempre più repressivo. Lotto sente la vecchiaia avvolgerlo, il disagio cresce, le incombenze pratiche lo travolgono.

Nel settembre 1552 ottiene la possibilità di abitare in una casa messagli a disposizione dal governatore della Santa Casa, Gaspare de’ Dotti. Conosce già le Marche: Recanati, Jesi, Ancona. Le Marche sono, se non una cura, forse una tregua nella selvatichezza; il paesaggio poteva servirsi di un servo dell’arte come si considerava (si rifugia non a caso tra i serviti). Servire quello che (apparentemente) non serve e allo stesso tempo non incontrare la propria schiavitù è il compito più difficile. Il servire di Lotto, la fedeltà a se stesso è la fedeltà al suo occhio di pittore, lo stesso «ocio» chiamato in causa da Pier Vincenzo Mengaldo a proposito della poesia di Scataglini.

L’«ocio de pitor» di Lotto convive con la «faticha» di essere pittore e soprattutto scrittore. Lotto scrive a fatica e con fatica. Se le relazioni con il mondo fossero semplici e la sua mente non non fosse in malo agio si limiterebbe a sollecitare i compensi dovuti senza trasformare il bisogno economico in un fossato di sconforto. Nulla di nuovo, nulla che non appartenga alla vita, ma per lui attraversare questa terra è particolarmente doloroso, dilaniante. I rapporti logorano e si logorano, la sua «pacienza» – termine che rintocca continuamente e si infittisce nel tempo – è sempre sul punto di finire. «Pacienza» e patimento si intrecciano. Lotto non ama il suo tempo, forse perché troppo avanti nei tempi quando, per esempio, in Ritratto di giovinetto al Castello Sforzesco anticipa i colori del Riposo della fuga in Egitto del primo Caravaggio. Il risultato è che è sempre più misantropo. Resiste la passione della pittura. Le lettere si fanno sempre più desolate fino a che Lotto non comprende che l’unica committenza possibile per lui è quella divina inseguita attraverso una solitudine e un silenzio sempre più radicali, la spoliazione di tutto.

Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane con petrarchino, 1524-26, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano

Essere oblato, offerto in vita a Dio, presuppone l’oblio di sé. Dimenticarsi è – forse – la cura per riuscire definitivamente a dipingere in pace: per Lotto è questa la soluzione, forse la gioia. Le Marche con il loro paesaggio diventano una forma di restituzione a se stesso. Anna Banti definisce «tronca e rude» per l’orecchio di Lotto abituato «alle dolci cadenze della patria» la parlata delle Marche quando ha invece – lo dimostra tutta la sua poesia dalle poetesse di Fabriano in poi – una musica tutta sua, trasognata, piena di slittamenti e assenze. Forse Lotto cercava un suono da far risuonare in un luogo diverso, una luce marina presente ma non incombente. Le linee smussate delle colline, la contiguità tra alberi e acqua. Essere straniero rimuove quello che è inessenziale, può rendere liberi, costringe in ogni caso a tradurre e ad abitare spazi diversi a cui abituarsi di volta in volta. Lotto viaggia incalzato dall’inquietudine, dall’insofferenza. Dal 1549 al 1552 è ad Ancona, poi definitivamente a Loreto. Nel 1554 è oblato della Santa Casa: «a perpetua vita mia / donato me con ogni mia sustantia».

Donare se stesso con ogni sostanza. Le lettere e le mancate risposte, le frustrazioni, lo scoramento davanti alla realtà delle committenze porteranno a questa donazione totale, esasperata anche dai problemi a farsi pagare che continueranno fino alle pagine del Libro delle spese quando scrive: «Adì … lujo 1553, hebbi condute le cose contrascritte de Roma comesse al magnifico cavalier Agustino Philago condute con sue robe li 5 pezi de quadri, la medaglia da beretta et anello de la corniola, ma non li 13 julij et baiocchi 8».

La decisione è definitiva ma non improvvisa: «le trattative colla Santa Casa chissà quanto durarono e magari per colpa del pittore che il peso dell’età portava a modi sempre più suscettibili, diffidenti, ansiosi» ricorda ancora Banti. Inoltre Lotto è orfano e scapolo, talmente solo da non avere altre pietre su cui posare la testa oltre Loreto. Vacilla tra predestinazione e fiducia nelle opere, è pieno di dubbi e conosce il rischio mentale che questo comporta. Un solo nome: Martin Lutero. Nelle lettere alla Congregazione della Misericordia Lotto ribadisce la sua ortodossia ma nel 1540 regala il ritratto di Lutero e di sua moglie Katharina von Bora al nipote Mario d’Arman, secondo la nota contenuta nel Libro di spese di Treviso. Un nicodemita? Probabilmente sì, anzi un dissimulatore onesto e geniale. Chissà cosa pensa davvero dei santi, visto che li raffigura con la faccia dei committenti.

A malapena l’io traspare tra i fogli del diario
Francesco Scarabicchi

Ecco un altro nome, vicino e fratello di Scataglini, marchigiano anche lui: Francesco Scarabicchi, ora anche lui scomparso, scrivere a posteriori di Lorenzo Lotto e dedicargli non solo saggi ma un canto-a-specchio, un libro di poesie che legge nel Libro delle spese, il registro che come usavano i mercanti utilizzava la partita doppia e su cui Lotto annotava il dare e avere dei suoi ultimi anni, come il rendiconto di una povertà prima subita e poi scelta. È una oblazione del sé che Scarabicchi perlustra in un doppio ritratto: riflessione su un pittore che guarda e di un poeta che riflette su una persona che guarda il soggetto e nello specchio la realtà. Scarabicchi sceglie come titolo una frase di Lotto «con ogni mio saper e diligentia» che condensa conoscenza e tecnica, pittura e poesia. Non si tratta di poesie che illustrano, ricorda Massimo Raffaeli nell’introduzione, ma di «un’assunzione su di sé» del destino di un pittore «solitario e febbrile». Di Lotto, le stanze di Scarabicchi decifrano il percorso che lo porterà a una terra non sua per trovare qualcosa da cui le cure di cui parla nelle lettere lo allontanavano. I testi di Scarabicchi scavano dietro e dentro i quadri, versi-talpa che smuovendo la terra delle parole e dei colori, del nero e della povertà rivelano la luce e le ombre, la disperazione e alla fine la ricerca e forse il raggiungimento di una pace. «Nel non avere luogo è il mio destino», viandante che non ha cammino, dice Scarabicchi non a caso traduttore di Machado.

Le lettere alla Congregazione della Misericordia sono vive per assenza di artificio e posa. Lotto non presenta una versione idealizzata di se stesso. Vanno usate come materiale del mondo mentale, servono a capire come da quella costrizione a scrivere, da quella necessità di precisare, da quel tono nascano i timbri, l’esattezza, la libertà creativa. Non è mai facile parlare della scrittura di un pittore come non è facile parlare della pittura per chi scrive. Il rischio è fare torto a entrambe. Una possibilità è fare attenzione ai materiali delle parole, dei colori, alla sintassi, alle architetture. Un varco mentale che conferma come l’ekphrasis non sia solo descrizione ma lasci sfuggire un dettaglio ulteriore, inserisca il suono oltre il silenzio, il crepitio della vita, un suono delle cose che sembra impossibile trovare in un quadro. Lotto è uno dei pochi nella cui opera sembra possibile sentire il frusciare degli alberi, un acciottolio di stoviglie, oggetti usuali, utilizzabili, familiari.

C’è un altro nome che potrebbe stare nella costellazione di queste pagine: quello di Paolo Sarpi, più vecchio di Lotto (nasce nel 1552) anche lui Servo di Maria, altrettanto sconsolato nei suoi rapporti con la società tanto da parlare quasi esclusivamente per lettera con i suoi interlocutori.

A Venezia circolavano le idee di un altro Martin, il più conciliante Martin Butzer, una presenza con cui fare i conti e che è testimoniata nei quadri di un altro pittore veneziano, Jacopo Palma il Giovane, pronipote di Palma il Vecchio che aveva fatto in tempo a incrociare Lotto a Bergamo. Nonostante i buoni rapporti, pochi sono così lontani: i Palma attenti alle committenze, amati e ammirati sia dai ricchi borghesi che dai ricchi patrizi veneziani. Lotto invece sembra sempre sbagliare mira, è un solitario più a suo agio con gli assenti e i lontani; teme e patisce il mondo e soffre le conseguenze del suo stato. Dal suo essere incrinato e tuttavia misteriosamente solido, nascono capolavori che paradossalmente potenziano una loro segreta capacità comunicativa. Forse per questo Lotto a volte o spesso sembra parlare tanto ancora oggi come capisce subito Bernard Berenson[1].

Lorenzo Lotto, Madonna del Rosario, 1539, Palazzo comunale di Cingoli (Macerata)

Le trentanove lettere sono sconfortate ma con lampi di sarcasmo e ogni tanto di ilarità trattenuta. Dove finisce questa emozione se non nelle opere? In quei santi e sante dalle cui teste ci aspettiamo che escano le parole? In dialetto? L’ilarità si traduce anche attraverso la scelta di colori, nell’invenzione dei cerchi-bolle di sapone, geometriche e liriche della Madonna del rosario a Cingoli. I ritratti denunciano un’insofferenza che nasce per contagio di chi li guarda e li ritrae. Umori, mutamenti improvvisi. Gli stati d’animo cambiano in fretta come sanno i malinconici e possono non sorprendere: un cielo senza nuvole può essere più angosciante della pioggia, un temporale può portare sollievo. Ritratti come quello di Laura da Pola a Brera o Ritratto di uomo a Vienna prendono le distanze dal ritratto frontale, disobbediscono, si inclinano verso chi guarda o indietreggiano. Lo spazio è sghembo, gli occhi della persona ritratta non ci lasciano in pace, sembrano sempre sul punto di voler aggiungere qualcosa di importante: «Ehi, tu, avvicinati, spostati, entra con me in questo luogo».

Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane con lucerna, ca. 1506, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Se Lotto è indifferente alla competizione con i suoi contemporanei, non lo è verso la collocazione delle sue opere. Si preoccupa della luce, dell’esposizione, degli spostamenti; poi questa attenzione dopo il trasferimento nelle Marche si sfoca, forse anche con la progressiva perdita della vista. Lotto sente la fatica come un fato, ma a un destino di esclusione dai giardini artistici corrisponde il paesaggio libero, le piante, gli alberi, come i quattro cipressi a destra della Venere in un paese: corpo e viso infantili in primo piano, in una posa che scavalca la sensualità di Venere di Tiziano per raggiungere gli occhi sbarrati, il corpo semplificato non erotico di Olympia di Manet. Si potrebbero contare i cipressi nei quadri di Lotto come si potrebbero contare le bestie, fermarsi sul gatto nero spaventato dell’Annunciazione di Recanati (non è anche lui finito nella Olympia?), sullo scoiattolo che dorme come ha fatto Augusto Gentili nel suo studio sulla coppia di sposi nell’Hermitage[2].

Lorenzo Lotto, Annunciazione, ca. 1534, Museo civico Villa Colloredo Mels, Recanati

Le donne e gli uomini, gli animali e le piante di Lotto ci vengono letteralmente incontro disubbidendo alla lontananza, alla scala prospettica come nell’Elemosina di sant’Antonino quella balaustra con quella stoffa a picco da cui le elemosine vengono elargite per mano dei chierici. La folla dei pittori futuri è una schiera i cui nomi sconfinano: Goya, Daumier, appunto Manet e le cose si trasformano, la balaustra diventa un balcone, il tappeto orientale la tavola precubista della colazione di un gruppo di borghesi a Parigi in un giorno di festa.

Lorenzo Lotto, Elemosina di Sant’Antonino, 1540-42 (particolare), Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, Venezia

Nel 1554, l’8 settembre, giorno della Natività di Maria, Lotto si fa oblato alla Santa Casa di Loreto. Dona tutto, si spoglia di ogni oggetto, offre tutto, compresi i preziosi cammei, lascia parte dei suoi beni in dote a due orfane. La perdita è di suono-colore meno squillante, tormentata dalla luce che sta per essere inghiottita dal buio come quella dei capelli rossi di Lucifero nella Cacciata di Lucifero a Loreto.

È un presagio? Viene nominato «pittor della santa Casa» e ha quasi già perso la vista e la voce. Si avvolge sempre di più nella vecchiaia ma è già qualcosa di diverso come «’l vechissimo» cipresso della poesia omonima di Scataglini in El sol è «pieno d’uccelli e pigne».

Quando muore lo seppelliscono «al costume e usanza fratesca». Il suo materasso viene venduto dall’amministrazione della Santa Casa. È «un matarezzetto» si legge nella nota di vendita, un termine che sintetizza, in quel diminutivo, l’angustia di ogni biografia.

«Nascere mi condanna» aveva scritto Francesco Scarabicchi prestando la sua voce a Lotto «a un’eterna memoria del mio niente».

Lorenzo Lotto. Lettere
A cura di Corrado Benigni, Mauro Zanchi
Officina Libraria, 2023
pp. 288, 161 ill. a colori, € 35


[1] B. Berenson, Lorenzo Lotto [ed. or. 1895], ed. it. a cura di L. Vertova, Milano, Abscondita, 2008.

[2] A. Gentili, Lotto, Cariani e storie di scoiattoli, Roma, Bulzoni, 2000.

In copertina: Lorenzo Lotto, Commiato di Cristo dalla madre, 1521 (particolare), Gemäldegalerie, Berlino

Antonella Anedda

di origini sarde, è nata a Roma dove vive. Si è laureata in storia dell’arte moderna e ha conseguito un dottorato di ricerca a Oxford; un dottorato honoris causa le è stato conferito dall’Université Sorbonne IV; ha insegnato all’Università di Siena ed è professore a contratto presso l’Università della Svizzera Italiana di Lugano. Tra le sue raccolte di poesia: “Residenze invernali” (Crocetti 1992), “Notti di pace occidentale” (Donzelli 1999), “Il catalogo della gioia” (Donzelli 2003), “Dal balcone del corpo” (Mondadori 2007), “Salva con nome” (Mondadori 2012), “Historiae” (Einaudi 2018). In prosa ha pubblicato “Cosa sono gli anni” (Fazi 1997), “La luce delle cose. Immagini e parole nella notte” (Feltrinelli 2000), “La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi” (Donzelli 2009), “Isolatria. Viaggio nell’arcipelago della Maddalena” (Laterza 2013). Le sue traduzioni di poeti classici e moderni sono pubblicate in “Nomi distanti” (Empiria 1998). È tradotta in inglese, spagnolo, francese, tedesco.

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