Komm! Ins Offene, Freund!
Davanti a me, da alcuni mesi, una pigna di libri di cui Andrea Cortellessa mi ha fatto dono nell’arco degli ultimi due anni. In totale, così ad occhio, si tratterà di duemila e cinquecento pagine, forse più. Ogni pagina contiene decine di riferimenti ad autori, opere, aneddoti, pensieri critici. Il risultato, almeno su di me, è la paralisi. La sensazione di trovarmi di fronte a una sorta di diabolica (o angelica) macchina di pensiero o per il pensiero, roba che, in confronto, ChatGPT è un giochino per adolescenti o bambinoni mai cresciuti. Come scrivere, come rendere conto, di un simile lavoro, la cui ampiezza è pari alla sua profondità? È una domanda non retorica che mi pongo, perché mi ha sempre disgustato quella sorta di avarizia critica e umana che, soprattutto nel Belpaese, impedisce ai più di occuparsi dei propri contemporanei o, come in questo caso, dei propri compagni di strada, di coloro che, in modo spesso non detto, risuonano quotidianamente nei nostri pensieri e mettono in movimento, per consonanza o dissonanza, la nostra scrittura.
E, allora, con quali parole affrontare un corpus di scrittura che ha i tratti della monumentalità? Non certo, per quel che sono le mie conoscenze e capacità, facendone un’analisi dei contenuti. Proveniamo da formazioni, interessi, ambienti troppo distanti perché io possa esprimere un giudizio sul contenuto del suo lavoro critico. Non so dire se le sue ipotesi interpretative dell’opera di Manganelli o di Zanzotto siano filologicamente corrette o se portino gli specialisti di questi autori a riformulare giudizi, aprire nuove prospettive ermeneutiche, ecc., ecc. Lascio questo compito ai talmudisti universitari.

In realtà, al di là dei miei evidenti limiti, non mi interesserebbe nemmeno farlo. Non ho mai trovato interesse nella lettura della critica se non per lo studio di un metodo. Della critica mi sta a cuore esclusivamente l’osservazione delle procedure retoriche che portano a illuminazioni interpretative debordanti il soggetto del saggio. E, dunque, quel che mi è sempre interessato in Cortellessa, al di là dell’oggetto della sua ricerca (per limitarmi ai volumi davanti a me, due libri su Manganelli, una curatela degli scritti di De Chirico, una monografia e un saggio a specchio su Zanzotto, più cinque o sei libercoli di varia natura) è osservarlo, scrutarlo, studiarlo dall’altra sponda del tempo, a partire da una distanza – che a volte mi pare profonda, a volte meno – sull’idea stessa del ruolo della critica.
Lo osservo da anni in quella riserva artificiale protetta che è il mondo della critica odierna. Un mondo nel quale si può constatare, dopo essere stati investiti da una moltitudine di analisti giustificatori, più o meno, apologetici del nulla mercantile o di puritani contenutisti, come il versante migliore si ponga in quella che io chiamerei la stanca deriva dello sperimentalismo, cioè una modalità di approssimazione al fatto artistico, non importa quale ne sia il medium, capace di affrancarsi dalla sola comunicabilità, il cosa, per concentrarsi su un’altra trasmissibilità, il come. Andrea Cortellessa è, ai miei occhi, il miglior critico di lingua italiana di questa corrente.
In Cortellessa esiste, infatti, al di là dei suoi gusti letterari e artistici, una reale sperimentazione sul linguaggio critico che, come per il suo amato Manga, risponde a “una vocazione per l’eterodosso e l’eteroclito”. Sicuramente Cortellessa, come molti altri, si è forgiato nello studio ammirato della sperimentazione neo e post-avanguardista, senza, a mio avviso, mai aderirvi de facto, per ragioni biografiche, ma nemmeno, forse, in spirito, nonostante la sua prossimità a tanti suoi protagonisti. In ogni caso, che egli sia uno studioso del neo-avanguardismo o ne sia un anacronistico (in accezione didi-hubermaniana) rappresentante, al di là dei non pochi saggi che a quella tradizione ha dedicato, è dell’ordine dell’evidenza che ci sia qualcosa di quel modello culturale che, sfuggendo alla morsa dell’attrezzato filologismo del cattedratico, si è infiltrato, mutando però geneticamente, – e qui sta l’interessante – nella sua scrittura critica. Ne scaturisce una sorta di filologia fantastica – governata da un rincorrersi vorticoso di phantasmata critici – nella quale il libro è altrove. Nella mole sconfinata della sua produzione si può facilmente reperire un che di mimetico, ma allo stesso tempo anamorfico, rispetto al grande sperimentalismo novecentesco, in particolare agli esperimenti verbovisuali o iconotestuali che, in lui, si declinano in un certo barocchismo arbasiniano e un ingordo appetito per l’aneddotica, il tutto condito in salsa dai sapori post-continiani o post-longhiani, a seconda che il versante sia il verbo o l’icona, con venature anticapitaliste di lontana ascendenza francofortese (sicuramente, questa paletta è del tutto insufficiente per dar conto delle tracce dei cromatismi stilistici presenti nell’opera di Cortellessa).
Ma se c’è qualcosa che davvero colpisce nella sua scrittura – e personalmente ne resto sempre affascinato – è la capacità di moltiplicare i piani discorsivi, in una sorta di plissettamento della lingua, che sfocia in uno spaesamento (del lettore, non suo) percettivo e cognitivo. Cortellessa rende giustizia alla polisemia dell’arte guidando il proprio lettore in un labirinto di parole dove, alla fine del suo argomentare, sembra abbandonarlo. Pare di sentirlo bofonchiare: che il lettore si arrangi a cercare un’uscita oppure che vaghi per sempre nell’indecisione della via da prendere. Ma, a ben guardare, non è proprio così. Il suo gesto critico, pur nella sua sorprendente complessità, infatti, è la progettazione, e la costruzione, di un’architettura interpretativa. Architettura barocca, per molti versi; costruzione stilistica sofisticatissima che, ovviamente, secondo l’indicazione continiana, ben al di là dall’essere puro vezzo, delinea «il modo che un autore ha di conoscere le cose». Cortellessa – e con lui una coltre di, spesso, assai meno dotati sperimentatori – crea modelli interpretativi, progetta e costruisce a partire da principi interni ed esterni all’opera. In un certo senso, egli non fa che disegnare planimetrie, alzati, sezioni per permettere, a se stesso e al meno abile lettore, di entrare nell’opera.
Cortellessa, finto burbero critico, non abbandona nessuno, lascia sempre dietro di sé un filo d’Arianna o le briciole del pranzo pantagruelico cadute dalla tavola teorica da lui stesso imbandita. È proprio all’interno, tra una piega e l’altra, della sua scrittura critica, di tutto questo sapere panottico, così abbondante da risultare a volte accecante, che viene celata la chiave interpretativa per aprire la porta, apparentemente chiusa, dell’opera. L’opera viene messa in scena e lì esposta ai riflettori della luce critica. Si tratta di una scena assai complessa, costituita di quinte continuamente messe en abyme, che moltiplicano i piani di lettura. Ma il labirinto critico, in realtà, pur diramandosi in una vastità di percorsi, cela sempre in sé una serie di indizi, di mappe, che dovrebbero consentire, al lettore attento, di ritrovare la via d’uscita. Ma questo avviene davvero? O, in fondo, come nella biblioteca borgesiana, la porta d’uscita non fa che aprirsi su un nuovo labirinto testuale?

L’impressione, almeno di chi qui scrive e non smette di essere attratto da un simile labirinto, è che lo sperimentalismo, il come, diventi, in ultimo, una claustrofobica catacomba, nella quale il critico, sommerso da libri e immagini, crea un mondo perfettamente coerente ma chiuso su se stesso. La lingua sperimenta se stessa ma, in fondo, ha perso il contatto con il suo altro, con l’Altro. Si viene così a creare un discorso che, restando fedele all’idea che l’opera abbia celato in sé un significato codificato e codificabile, genera la propria Legge, indifferente al contenuto, e vi si sottomette. Così, tutto torna, ogni indecisione viene superata, ogni pezzo va al suo posto, e, alla luce diafana di questa Legge del sottosuolo, l’opera, denudata in scena, viene investita da una luminosità abbagliante che sembra rivelarne l’enigma. Il discorso critico assume, se così possiamo dire, forza di Legge ma, in questo modo, rischia sempre di perdere di vista la singolarità e la realtà inappropriabile del testo, del quadro, del movimento scenico, ecc. La sensazione è che il critico, tutto compreso nel suo slancio voluttuoso teso a svelare il segreto della rappresentazione, esca dal teatro, da lui progettato e animato, non con il corpo segreto dell’opera, ma solo con gli abiti di scena, ormai privi di vita. In fondo, è – in una anacronistica apoteosi novecentesca – il trionfo della parola critica, ma il mondo che fine ha fatto?
Forse, come io credo, il mondo è immobile e quasi invisibile appena dietro il labirinto cinetico o il cinelabirinto cortellessiano. Un labirinto, sorta di gioco di specchi, che, moltiplicando all’infinito i punti di vista, occulta il fuori dietro le immagini critiche. Il mondo, ovviamente, non può davvero scomparire e, infatti, è ancora lì (e come potrebbe non esserlo?), ma come intrappolato dal critico. Forse, come sembrerebbe logico, non è per nulla, come abbiamo ipotizzato, fuori del labirinto, ma rinchiuso nel suo cuore, nel suo punto più irraggiungibile, alla fine del reticolo inestricabile di specchi che il critico ha progettato. Se il mondo-minotauro viene rinchiuso dal critico illusionista nel labirinto, non è certo per risentimento verso di esso, ma semmai per proteggerlo da un eccesso di immediatezza interpretativa che rischia di svilirlo, di ridurlo a mera cosa tra le cose. Oppure, e anche questa ipotesi non è da escludere, il Minotauro è stato relegato, tramite l’affabulazione critica, a una leggendaria e labirintica esistenza proprio per proteggere il critico da quel fuori che, con la sua incoercibile forza estatica, rischia sempre di tornare a scompigliare le carte e a far alzare lo sguardo dalla pagina, imponendo di abbandonare il labirinto in direzione dell’aperto.

Le immagini che accompagnano il testo, compresa quella di copertina, sono frame, fotografie di scena e schizzi preparatori di Il gabinetto del Dottor Caligari (1920) di Robert Wiene. L’immagine di chiusura è l’ultimo frame di Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni.