Fra i milioni di italiani che hanno lasciato il paese di nascita nel Novecento, perché nati in un’Italia povera e violenta, c’era la famiglia Porchia; lasciavano la Calabria. Una madre e sette figli fecero il passo lungo; approdarono in Argentina, a Buenos Aires. Raggiunsero la musica del tango, al loro dramma esistenziale capitò la colonna sonora dalle note più struggenti della scala tonale, quella che compone le sonorità di un passo e del suo distacco.
Incamminiamoci così con alla mano una prima «voce» di Antonio Porchia: «Continuerò a eliminare le parole mediocri che ho messo nel mio tutto, anche se il mio tutto è senza parole». Antonio era il maggiore dei sette fratelli accasati con la madre nel quartiere Boca di Buenos Aires: la famiglia era di Conflenti, in provincia di Catanzaro; il padre era morto nel 1909, due anni dopo si misero in viaggio verso l’Argentina. A quattordici anni Antonio assistette la famiglia intera con vari lavori, visto che era il più grande.
Le righe perfette da lui scritte sono il battito profondo della sosta del linguaggio quando riflette profondamente: «Il profondo, visto con profondità, è superficie». Nacque a Conflenti il 13 novembre 1885, morì il 9 novembre 1968 a Buenos Aires, per le complicazioni di una caduta mentre potava un albero nel suo giardino. Don Antonio, come lo chiamavano gli amici, ci ha fatto un dono; parlare delle sue Voci è parlare di noi. Parlare del suo lavoro di profondità intorno alla parola mette in evidenza di come noi, menzogna, possiamo seminare verità.
Ecco una testimonianza del poeta Roberto Juarroz, uno dei suoi amici più intimi: «era un essere di un’umiltà esemplare, ma nello stesso tempo con qualcosa di incontrovertibile, di immodificabile, che ci fa pensare a quegli alberi centrali attorno ai quali gravita l’intero bosco. Don Antonio, come lo chiamavamo, era una prova vivente della profondità dell’essere, un luminoso esempio delle sue parole profonde e dei suoi gesti straordinariamente trasparenti».
Così, sorprendentemente, in Italia c’è qualcosa che anticipa. Raro, ma esiste. Sono nuove case editrici con nuovi curatori, mi sembra che abbiano un altro linguaggio, il linguaggio che per tradizione poteva attendere un paese come il nostro, il linguaggio dello «studio». Eccoci al solo libro scritto per un’intera vita da Antonio Porchia, Voci, edito da Argolibri, una di queste case editrici che filano attenzione e risvegliano la curiosità. L’edizione italiana si apre con una lettera indirizzata a Porchia da Alejandra Pizarnik. Ma più di questa lettera mi ha sorpreso la postfazione del curatore e traduttore Andrea Franzoni: quasi due paginette, per me già uno scritto che naturalmente ha in sé valore di «ricerca», di approfondimento intorno alla pelle del libro. Non faccio alcuna differenza tra l’allestimento di una mostra e l’allestimento di un libro, come anche la realizzazione di un film o i movimenti di una danza, sono la stessa cosa, senza parlare di un’architettura. Se cercavamo dov’era la campana nel film Andrej Rublev di Andrei Tarkovskij, l’abbiamo trovata: è il libro di 135 grammi dal titolo Voci dell’autore Antonio Porchia, edizioni Argolibri.

Le Voci di Porchia sono assordanti, stordiscono come i rintocchi di una campana. Come poterle seguire queste voci, si seguono e si ascoltano stando fermi. Come diceva Juarroz, è l’albero che tiene il bosco… e noi cosa teniamo più? Che meraviglia non poter tenere più niente, essere bugiardi fino al midollo, fin quando non ce lo estraggono per un esame fisiologico che mette paura.
Non c’è solo il finito o l’infinito, c’è anche il finito senza limiti. Vivere è vedere le cose intorno a noi, ascoltarne il percorso, la crescita, accorgersi che da qualche parte è caduta una foglia da un albero. Porchia ascoltava le voci di tutto: «Mi hanno insegnato a guadagnare tutto e a non perdere niente. Fortunatamente ho appreso, da solo, a perdere tutto».
Nel 1943 Antonio Porchia pubblica su consiglio di amici le sue prime Voci a spese dell’autore. Le mille copie restano invendute, Porchia ne fa dono a un’organizzazione di Biblioteche Popolari che arrivano in tutti i piccoli paesi argentini. Il primo interesse per le Voci viene dal mondo rurale, ne cominciano a trascrivere qualcuna, passano di mano in mano. Il secondo interesse viene da uno studioso e scrittore francese che soggiornava in Argentina, Roger Caillois, primo traduttore in francese: le Voci vengono pubblicate in Francia nel 1949 per le edizioni GLM. Lo scrittore Henry Miller inserisce il libro nella sua lista di cento libri per una biblioteca ideale. Immediatamente si vuole invitare Porchia a Parigi per un premio, Don Antonio fa sapere che «le distanze non hanno fatto niente, tutto è qui», evidentemente restando a casa, nel suo quartiere di Boca.
Nelle sue Voci nessun misticismo, nessuna astuzia, tutto è un nudo approfondimento sbalordito delle cose così come sono, quasi inesistenti. Il libro di Porchia approda sulle rive italiane, lui calabrese di origine, ha scritto molto di fiori, ecco una «voce» scelta: «Nel fiore caduto ho trovato il fiore più bello». In questa ascia di tempo dove vediamo brandelli di dolore attraversarci da tutte le parti, abitanti di un mondo malevolo, sono a Parigi, nell’allucinazione di come la brutalità possa in pochi attimi rilevare la bestia che soggiorna nell’uomo assopita, vedo come in un attimo si sveglia… è terribile. Bisogna essere a Parigi in questo tempo e leggere questa «voce» di Porchia: «L’umanità non sa più dove andare, perché non c’è più nessuno che la aspetta: nemmeno Dio».

Torno ai bei fiori caduti; come non pensare alla spiaggia di Cutro in Calabria, ai fiori ficcati sulla sabbia a riva in onore delle vittime del macabro naufragio di esseri umani impauriti. Il risveglio della bestia è la mano che tiene l’ascia e brandella il nostro tempo addolorato. Ma una mano esce dal mare, una mano posa l’ascia, una mano ci porge il fiore caduto, una mano ci porge le Voci di Antonio Porchia, il calabro argentino, come un talismano di contrario al sangue impantanato dei nostri giorni, come un risveglio, come sangue che riprenda il suo corso vitale, la meraviglia di una nuova amicizia.
Come si può essere ancora poeti, artisti, come si possono ancora costruire spettacoli… Antonio Porchia non si diceva poeta, il suo essere esemplare è tutto il nuovo che può indicarci uno dei cammini da intraprendere per curare il gesto del linguaggio che costruisce avvenire. Lo si è senza essere. Da questo libro siamo portati in un continuo svelamento di ciò che ci respira intorno, ogni minima cosa ci dona la sua meraviglia di essere senza chiederci, Don Antonio sapeva che scrivere non è scrivere bene, che fare non è fare bene, ma tutto è un inevitabile cascarci dentro, portando alla luce con le mani scabre dell’esistenza, brandelli di un «minuto presente».

Ancora una testimonianza di Roberto Juarroz: «con lui, noi abbiamo appreso come la solitudine può essere il contrario dell’isolamento, come anche la condizione vertebrale di un’opera». Anni fa quando scoprii l’opera di Antonio Porchia, proprio grazie al vertiginoso poeta che è Roberto Juarroz, colpevolmente non ancora edito in Italia, vivevo in un paesino del Sud della Francia, le sue Voci mi vennero incontro come briciole di voci lasciate lungo il cammino del suo tempo. Porchia, con questo solo libro che ha segnato l’intera sua vita, non ha fatto altro che posarci una bussola tra le mani, qualcosa che se ne abbiamo bisogno ci fa ritrovare il cammino, un cammino che forse stavamo perdendo, forse dubitando delle conseguenze dei nostri gesti. Queste briciole di voci sono state impastate da Porchia con il suo niente, un osservatorio trasparente. Rarissimo chi ci permette di vederci dentro in modo così chiaro, lontanissimo anni luce da qualsiasi nefandezza nata dal mestiere. Sempre Juarroz ci dice che le case dove abitava Porchia, con il tempo diventavano sempre più piccole, il «finito infinito» di cui accennavamo sopra. Tutto è infinito nelle parole di Porchia, perché tutto si tiene nel finito. In un’aureola non luminosa che circonda il nostro vivere nel presente.
Per chiudere: «Quando mi sembra che tutto esiste senza di me, come mi sembra tutto straordinario!»
Antonio Porchia
Voci
a cura di Andrea Franzoni, con una lettera di Alejandra Pizarnik
Argolibri 2023, pp. 140, 18 €
In copertina: Giuseppe Caccavale, Rilievo, 2022, acquerello su carta da spolvero