Nel suo nuovo libro, Guido Guidi ci rivela, se ancora non lo avevamo capito, che il mostro ama il suo labirinto, per citare Charles Simic. Divagando intorno a quella che era stata la frase simbolo di Maradona, potremmo dire che non gli manca «la mano de Dios». Se chiediamo a uno scienziato cosa sia più straordinario – la mente o la mano – risponderà senza dubbio la mente. Questa straordinaria materia che ci portiamo nella testa è il sistema più complicato di cui siamo a conoscenza; è la forza misteriosa che sta dietro a tutte le grandi e piccole cose che abbiamo costruito e distrutto. La mano fa il suo lavoro in risposta alle direttive della mente e dei sensi e, nel regno dell’arte, il risultato è un oggetto fisico accessibile, qualcosa che può perfino sopravvivere al suo creatore. E infatti, se una volta c’era la mente dietro la mano, l’oggetto fisico è tutto ciò che rimane. Così è stato per Richard Benson: del quale ricordiamo la mano de Dios, appunto. È stato stampatore e storico della stampa, omaggiato e ritratto da Friedlander in uno dei sei libri presenti nel cofanettoThe Mind and the Hand (oltre al suo quelli di William Christenberry, William Eggleston, Walker Evans, John Szarkowski e Garry Winogrand).

Se vogliamo comprendere al meglio la natura del suo lavoro, non possiamo non ricordare che il ritratto di Benson realizzato da Friedlander è una delle immagini che Guidi mostra sempre ai suoi studenti. Benson, seduto in soggiorno, sta tra la porta chiusa (secondo Baudelaire una porta chiusa è sempre più interessante di una porta aperta; non a caso tenere la porta chiusa è fondamentale per chi lavora in camera oscura) e la porta finestra o semiaperta (il mondo); c’è l’orologio (di tempo è fatta materialmente una stampa fotografica); la sedia alle spalle dello stampatore è vuota (in attesa); la mano dell’’artigiano (de Dios) infine, centro nonché punctum dell’immagine, osservata dallo stesso Benson.

In Di sguincio Guidi tira fuori dal cilindro (non è la prima volta; chi negli ultimi quarant’anni abbia visitato mostre e libri conosce le sue divagazioni) il ceppo parallelo dall’inestinguibile archivio, le immagini da sempre inserite a pieno titolo nella sua ricerca, le immagini che affermano come in fotografia – quanto in poesia – occorra imparare a peccare (con rispetto). Nell’arte frequentata e insegnata da Guidi processuale è il rito: senz’altro definizione migliore di performance, perché relativa all’avanzamento graduale e organico del lavoro. Al contempo qui vi è una sorta di decompressione e spensieratezza fanciullesca o, almeno, in questo modo la percepisce l’autore. Sono istantanee in bianco e nero, di piccolo formato con flash posizionato all’inverso, senza cavalletto. La mano/mente afferra il sempre elusivo, allusivo – come chiamarlo? – le scariche di realtà che sono la storia, la filosofia e la poesia riconciliate, quando l’immagine tornerà a essere la coscienza del teatro. In tutta la sua opera, Guidi tratteggia da un lato il consueto disegno meditato con una Folding ottocentesca e relative lastre 20×25 (non qui), dall’altro alberga in lui l’esigenza di provare a vedere cosa accade tirando a caso, o quasi (quindi fingendo di tirare a caso). Rivolta e metafisica, non si dà grande poesia senza almeno il tentativo di costruire una delle due.

Di sguincio deriva dal francese guenchir, andare sghembo, senza tuttavia mai dimenticare il rigore formale che, anzi, proprio la libertà del mezzo utilizzato pare rigenerare a nuova forma. Di sguincio, appunto, è Guidi che cita Matisse: prima disegna a occhi ben aperti e poi li chiude per verificare la mano, la sapienza, il rigore, la memoria. Per vedere quello che succede. Come si dice la verità? A occhi aperti o chiusi? Realtà e immaginazione si sfiorano e si riconoscono, per infine approdare in un mondo non così dissimile dal proprio. Anche a colori, nel memorabile In Between Cities, tra le molteplici e dispendiose lastre Guidi aveva calibrato la sua forza in leggerezza formato 6/6, dal finestrino. (Da quando Guidi pubblica per Mack, i titoli dei libri – decisi dall’autore – sono diventati tutti italiani. Del resto si sa, all’estero, soprattutto gli anglosassoni, ci scelgono se neorealisti. Ma in questo caso, come non dare ragione all’editore.)

Fino agli anni Novanta, in Italia e non solo, si proponevano agli studenti problemi da risolvere, proprio come se Johannes Itten avesse chiesto di disegnare due limoni «appoggiati su un libro di un colore verde brillante». Gli studenti erano messi nella condizione di eseguire un compito, per capire solo alla fine dell’esercizio che ciò che sembrava facile non lo era affatto. Non sempre si può risolvere un esercizio – anche un esercizio autoimposto – in un tempo definito. Qualche volta, se sei fortunato, le cose che ti riguardano hanno l’opportunità di diventare chiare, nella loro interezza, solo nella terza fase dell’esistenza. Così, la decisione di essere un artista diventa – più che altro – una scommessa. Tra gli anni Cinquanta e Novanta del Novecento, poteva capitare di incontrare il tipo di insegnante che tirava fuori la storia della Realtà del limone, la Sachlichkeit, il mondo dell’oggettività, quella cosa per la quale si sarebbero dovute cercare le reali proprietà degli oggetti e dei materiali: la consistenza, la luminosità, la rotondità, il ritmo-in-variazioni della grana e le leggi della forma. Tutto riconduceva alla direzione già segnata da Paul Klee: l’intermezzo tra reale e invisibile, ciò che ci proietta nel laboratorio che abbiamo ereditato dal Bauhaus. Pronti alla domanda: definisci un dato spazio enfatizzando il suo carattere, la geometria. Da come si risolve la relazione con lo spazio, e non da ultimo la relazione con il punto di vista, si evidenziano il senso di insofferenza e di libertà; è da questo conflitto che emerge l’artista, partorito dalle sue stesse immagini, esposto sia dal punto di vista teorico che personale. Per definire questa interazione tra pubblico e privato, Guidi – durante l’altrettanto oramai consueta e processuale intervista, presente nel volume, allo storico della fotografia Antonello Frongia – cita Jim Dine: la fotografia mi ha permesso di accedere al mio inconscio in maniera molto diretta.

John Szarkowski scriveva che la fotografia evoca la realtà più di qualsiasi altra forma d’arte. A questo nello specifico non crediamo più, con il conforto di Lewis Baltz: che, nei suoi saggi e in un’ultima intervista a David Campany, diceva: «al MoMA John Szarkowski ha davvero promosso l’idea che la fotografia fosse qualcosa di speciale, insieme a una sensibilità nazionalista davvero sgradevole. Non ci ho mai creduto nemmeno per un secondo. Penso semplicemente che ci siano persone che non vogliono confrontarsi. Inoltre, non lo considero il mezzo principale del ventesimo secolo». Non capiremo mai cosa sia la fotografia finché non affrontiamo l’essenza del pensare che è altro dal pensare, parrebbe dire Guidi, altro dal volere. L’altro che il fotografo cerca di intrappolare. In ogni caso, forse la speranza perduta di un’intera epoca suggerisce che «la visione del fotografo ci convince(va) nella misura in cui il fotografo nasconde(va) la sua mano». Eccoci ancora alle mani. Ricordiamo le mani riprese – in un rigoroso formalismo e dettaglio – da Stieglitz, parte di un folto gruppo di oltre trecento fotografie, corpo della pittrice Georgia O’Keeffe: dal 1917, prima del loro matrimonio nel 1924, fino al 1937.

È quotidiana la lotta con i limiti che squadrano lo spazio e permettono di comprendere Di sguincio con la consapevolezza necessaria. Qualcosa che impedisce – a chi conosce bene Guidi – di definire il suo lavoro una vera trasgressione. Del resto una fotografia che specula è piena di specchi. Persino i suoi soggetti – amici, parenti, studenti – partecipano al personale mosaico, tutti parte di un’affettività necessaria all’autore, una lunga inesausta conversazione tra amici, non-più-allievi (lo stesso storico della fotografia che lo intervista è amico-fraterno dai suoi esordi universitari). Il libro è dedicato a un altro teorico e critico, riconosciuto – tra gli altri giovani – a Treviso e Venezia (sua città d’adozione culturale), nella consueta abilità di sguardo profondo (solo apparentemente trattenuto): Paolo Costantini, morto davvero troppo presto all’età di trentasei anni. Una corrispondenza d’intenti che si è allargata agli artisti statunitensi invitati a Linea di confine (gruppo di ricerca sorgivo e indimenticabile, progetto ormai concluso). E ora, in questa fase di ritorno (la storia della fotografia è proprio questo andare e tornare dall’Europa agli Stati Uniti), una nuova generazione (in fase, diciamolo pure, di consacrazione) bussa alla sua porta per fotografare/citare il garage di Guidi, omaggio definitivo, come per esempio in The Heart is a Sandwich di Jason Fulford.
Nel corso del tempo, tutti coloro che hanno interagito con Guidi hanno imparato a comprendere le sue infrazioni riconducibili in questo specifico caso, come lui stesso afferma, alla ripresa: all’avvicinamento, all’utilizzo sghembo del flash; in camera oscura, alla precisione formale della scuola che a partire dall’Ottocento si consacra fino a Edward Weston. Ciò che noi possiamo mutuare dai titoli delle non-finite Lezioni americane di Calvino: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, consistenza. Elementi fondanti per un uomo che tra i 28 e i 40 anni contrappone definitivamente il ruolo della fotografia a quello della pittura narrativa. Scriveva Szarkowski: «(il fotografo) non poteva mettere in scena la battaglia, come (faceva) Paolo Uccello riunendo elementi che erano stati separati nello spazio e nel tempo…». Le fotografie, cioè, non possono essere lette come storie. Citare fuori dal contesto è l’essenza del mestiere del fotografo. Inoltre, se l’inquadratura circonda due figure isolandole dalla folla in cui si trovano, crea una relazione che prima, fra quelle due figure, non esisteva.

Nel 1966 il mondo della fotografia era ben lontano da ciò che è diventato: musei dedicati, gallerie, programmi universitari, editori, collezionisti, valori di mercato. A metà degli anni Sessanta, Szarkowski ha pubblicato The Photographer’s Eye: libro – studiato da Guidi fin dalla prima edizione – dedicato a un piccolo ma crescente pubblico di appassionati di fotografia con lo scopo di specificare cosa la macchina fotografica faccia meglio e realizzi in modo distinto rispetto a tutte le altre forme d’arte. Szarkowski vi identifica le caratteristiche fondamentali e i problemi intrinseci al mezzo fotografico, in modo che «possano contribuire alla formulazione di un vocabolario e di una prospettiva critica più rispondenti ai fenomeni unici della fotografia». Nell’occhio del fotografo le regole illustrate sono chiare: The Thing Itself, The Detail (per esempio le mani: per esempio quelle affusolate e pallide di Cocteau immortalate da Berenice Abbott), The Frame, Time e Vantage Point rappresentano i punti cardinali che diventeranno le consolidate fondamenta, gli esercizi quotidiani di Guido Guidi. Ogni fotografia testimonia sia l’atto del fotografare, sia il gesto performativo istantaneo di chi reagisce al fatto, alla presenza irriverente del fotografo.

Quelle di Guidi sono infrazioni ideali (come la storiella di Breton che corregge la scrittura automatica in quanto non abbastanza automatica), operazioni casuali meccaniche, dal surrealismo alla tecnica Dada, come estrarre le parole da un cappello: nessun imbroglio, ma a differenza di un monaco buddista Guidi non è scevro dalle impurità del desiderio. Al pari del monaco, l’autore non dimentica mai di verificarne il senso, o meglio, se sia il caso o meno di accettare quella realtà, nella categoria dell’arte. Allora, comprendiamo la delicatezza e la crudeltà (nel senso del teatro) dell’autore, la storia del monaco buddista, pittore, raccontata nell’intervista, l’effetto dell’azione osservata nel 1963 a Venezia. Quella pittura giapponese Sumi-e in cui bastano pochi tratti di inchiostro nero tracciati con un pennello su un semplice foglio di carta bianca, errori che colgono l’essenza, la realtà cosi com’è quando poi (e in quel poi sta tutta la differenza) per accettarla, invece, è indispensabile lo spazio necessario a comprendere la verità. E quel tempo, senza dubbio, ci assomiglia: è il nostro quasi-ritratto, la storia della nostra vita, anche se in quel disegno non abbiamo idea di come siamo finiti.
Guido Guidi
Di sguincio 1969-81
Mack, 2023
pp. 144, € 55