È uscito presso l’editore Oligo (70 pp. ill. a col., € 15) Stradario sentimentale del Lago di Garda e del Monte Baldo di Francesco Permunian, con le immagini di Pino Mongiello. Per la cortesia degli autori e dell’editore, proponiamo una selezione dei testi e delle fotografie contenuti nel polito libello.
Pur stanco e sfinito a furia di leggere e rileggere questi miei appunti di “viaggio” – è dall’estate scorsa che m’intasano la scrivania – ciò nonostante io mi ostino a riesaminare ancora questo breve Stradario il quale, malgrado tutti gli sforzi per renderlo meno rapsodico e più razionale, non muta granché la sua natura intimamente svagata e frammentaria. E quindi oltremodo indigesta, va da sé, ai comuni lettori delle comuni guide turistiche. Trattandosi in questo caso non di un’ordinaria guida in stile Touring Club, bensì di una singolare mappa sentimentale allestita dal sottoscritto lungo le sponde del lago di Garda e sulle pendici del monte Baldo. Da quel consumato (e ormai disincantato) flâneur che m’illudo di essere, nel corso di tali vagabondaggi ho, ovviamente, le mie mete preferite. I miei angoli segreti. I miei luoghi dell’anima, per così dire, i quali cambiano e variano a seconda delle stagioni. O meglio, a seconda di quanto io stia rimuginando in quel determinato momento, dato che ogni angolo del Garda e del Baldo corrisponde nella mia mente a uno spunto narrativo.

Tutto insomma mi ispira in tale ambiente naturale, in cui io vivo e scrivo da più di quarant’anni. E dal quale peraltro non ho alcuna intenzione di andarmene, visto e considerato che qualunque distacco dalla mia quotidiana “ronda stradale” mi crea soltanto un senso di spaesamento misto a disagio e irritazione. Dal che ne consegue, piaccia o non piaccia, che il mio è un randagismo dai tratti decisamente domestici. Quasi un giro del mondo tra le stanze di casa. E questo in virtù del fatto che io sono, fondamentalmente, un animale del sottosuolo impegnato da anni in una quotidiana e folle escursione tra gli angoli della propria tana. Di quella grande tana che, da secoli e secoli, si dispiega tra le colline del Garda e le pendici del monte Baldo.
In un’epoca in cui, caduti i confini e le frontiere nazionali, tutti corrono dappertutto – e gli scaffali dei libri di viaggio aumentano a dismisura – ebbene, proprio per questo io non amo viaggiare, in quanto gli unici viaggi che mi appassionano sono quelli tra le pareti della mia mente. E nella mia mente grazie al cielo (ma soprattutto, grazie allo specchio del Garda) si rispecchia il mondo intero. Peregrinazioni e interminabili flâneries gardesane, dunque. Le quali si snodano, abitualmente, partendo di buon mattino da villa Brunati di Rivoltella nelle cui sale ho passato, in veste di bibliotecario, forse i miei anni migliori. Poi una rapida sosta a Sirmione nei pressi del castello scaligero dove, da callassiano incallito, non manco mai di rivolgere un pensiero a Maria Callas che, su tale penisola catulliana, vide nascere e sfiorire il suo amore per Giovanni Battista Meneghini. Indi faccio rotta verso Peschiera, superata la quale dopo un po’ arrivo al golfo di San Vigilio, uno degli angoli più suggestivi della costa veronese con villa Guarienti e il suo parco rinascimentale.

Una volta tornato sulla Gardesana, di solito mi fermo a prendere un caffè a Malcesine, il paese di cui Goethe parla con rimpianto nel suo Viaggio in Italia. Dopo di che oltrepasso il piccolo centro abitato di Torbole, dove Georg Trakl compose Canto di un merlo prigioniero, una delle sue liriche più autobiografiche (*) e quindi mi dirigo senza indugio verso Riva del Garda, nel cui golfo Kafka ambientò Il cacciatore Gracco: non so se mi spiego, ma vagabondando in quei paraggi sembra quasi di sfogliare un atlante della migliore letteratura europea!
Oscuro alito nella verde ramaglia.
Azzurri fiorellini aleggiano intorno al volto del
solitario, all’aureo passo dileguante
sotto l’olivo. Svolazza
con ebbra ala la notte.
Così sommessa umiltà sanguina, rugiada
che lentamente goccia da germogliante spino. Pietà
di irradianti braccia
cinge un cuore che si spezza.
[…]
(*) Georg Trakl, Le poesie, prefazione di Claudio Magris, introduzione di Margherita Caput e Maria Carolina Foi, traduzione di Vera degli Alberti e Eduard Innerkofler, Garzanti 1983, p. 275.

Sulla strada di Lumini
Occuparsi del passato, il proprio e quello dei propri cari defunti,
è ciò che fantasmi e scrittori hanno in comune.
W.G. Sebald, “Tessiture di sogno”
Tutto ha avuto inizio in una tarda mattinata dell’estate scorsa allorché, mentre ero in vacanza sul monte Baldo, sono entrato nell’edicola di San Zeno di Montagna e mi è caduto l’occhio su un libro con la storia dei maestri e delle maestre che nel secolo scorso avevano insegnato in quel paese e nelle frazioni di Prada e di Lumini.[1]
Scorrendo l’elenco di coloro che avevano prestato servizio in quest’ultima località, ad un tratto mi sono imbattuto in una certa “Sandri di Caprino”, alias la maestra Ada Sandri che, effettivamente, a quell’epoca faceva la spola tra Lubiara e le Elementari di Lumini percorrendo, a piedi, dieci chilometri all’andata e altri dieci al ritorno. Nel pomeriggio di quello stesso giorno mi sono recato perciò a vedere quanto restava di quel vecchio edificio scolastico, trovandolo purtroppo in uno stato di assoluto e deplorevole degrado. Con niente, o quasi niente, che rimandasse al suo dignitoso passato: l’intonaco, in gran parte caduto o screpolato, lasciava intravedere i mattoni; grosse macchie di umidità e lunghe crepe sui muri; le finestre rotte e divelte; e poi erbacce e gramigna dappertutto, uno spettacolo avvilente che incuteva una tristezza infinita. Eppure, pensavo, in quelle aule ora desolatamente mute e deserte un tempo – quantomeno fino alla metà degli anni settanta del Novecento – erano risuonate le grida di centinaia di bambini, tant’è che osservando i gradini d’ingresso (tre gradini di un bel marmo di Verona) si potevano facilmente immaginare, e risentire, i passi perduti dei tanti scolari e docenti che erano entrati e usciti da quell’edificio … E, tendendo l’orecchio, forse percepire in lontananza l’eco della voce di quella giovane Sandri nata a Caprino il 28 dicembre del 1917 e spentasi a Desenzano del Garda il 3 aprile del 1982.
Diplomatasi a pieni voti a Verona nell’Istituto Magistrale “Seghetti” delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, Ada Sandri insegnò per qualche tempo a Lumini e poi in alcune frazioni del suo Comune di residenza, in particolare a Lubiara durante l’anno scolastico 1942-43 e quindi a Pazzon nel 1946-47. Dopo di che, sposatasi con il prof. Luigi Tempo sul finire degli anni Quaranta, seguì il marito a Bonavigo, un grosso centro della Bassa veronese dove nacquero le sue tre figlie – Beatrice, Cristina, Cecilia – per trasferirsi infine nel 1957 a Desenzano in cui concluse la sua carriera scolastica.
Dettaglio non secondario: quando Ada approdò sulle sponde bresciane del Garda, inizialmente venne destinata presso la sede scolastica di Calcinato. Dovette quindi fare la spola tra Desenzano e quel paese mentre stava ancora allattando Cecilia, la sua ultima nata… Allora non c’erano né bus né corriere di linea in quel tragitto, ragion per cui la giovane mamma si spostava anche grazie ai passaggi su qualche Lambretta di qualche collega.

Un piccolo libro d’ore
In definitiva questo è – o perlomeno vorrebbe essere – un piccolo libro d’ore, ore dileguate tra le nebbie di un tempo che sembra ormai remoto. Il tempo cioè della Scuola italiana nel Dopoguerra, dal quale tuttavia risale ancora qualche tenue barlume di luce. Qualche labile eppur tenace frammento di memoria.
Basta posare infatti lo sguardo sulla scuola di Lumini e osservarne attentamente gli originari gradini d’ingresso; oppure quelle toppe d’arancio rossastro che campeggiano sulla facciata la quale, sia pur corrosa dalle intemperie, rimanda però alla tinta primitiva che aveva al tempo del fascismo. Perché ficcare il naso tra le pietre di quel rudere? si domanderà qualcuno. Semplicemente perché è proprio là, tra i muri di quell’edificio, che Ada fece esperienza di ciò che significava fare la maestra in quei luoghi sperduti di montagna.
Una “missione”, secondo la retorica del tempo, per niente facile né scontata: è sufficiente, in proposito, dare una sbirciata a certe annotazioni fatte dalle insegnanti dell’epoca sui registri di classe.[2] Specie durante i mesi invernali: “La neve è caduta abbondantissima in questi giorni e ha rese impraticabili le strade della montagna. Pochissimi bambini si sono presentati alla scuola. Sono arrivati stanchi, bagnati, piangevano per il freddo e per le frequenti cadute. Io li ho accolti con un sorriso buono e ho cercato di renderli allegri e di far loro dimenticare i sacrifici e i dolori di questo crudo inverno. Certo non posso far scuola regolarmente, dato il gran numero di assenti, e questo fatto mi preoccupa e mi addolora perché temo di non poter svolgere completamente i programmi ministeriali” (dal registro di Anita P. insegnante presso la scuola Malcotta di Caprino Veronese). […]

Una stradina sinuosa e frondosa
Questo, a grandi linee, lo scenario socio culturale in cui Ada Sandri mosse i primi passi da insegnante, ben consapevoli che a tutt’oggi non sono poi molti i luoghi e gli oggetti ancora in grado di testimoniare la sua presenza. Per tale motivo, ripeto, occorre “interrogare” i marmi e le pietre di Lumini e la piazza sovrastata dall’antica chiesa dedicata a Sant’Eurosia. Quindi alzare lo sguardo al cielo per contemplare i prati circostanti e le colline punteggiate da macchie di castagni, in quanto solo a quel punto – se non si è proprio ciechi – ecco che d’incanto si apriranno davanti ai nostri occhi le prime pagine di quel libro d’ore di cui si diceva all’inizio. E che, giustamente, prende avvio a partire da quella frondosa e sinuosa strada che da Caprino Veronese sale fino alle prime case del borgo di Lumini.
Un percorso lungo il quale, sul finire degli anni Trenta, Ada incontrò per caso Luigi Tempo, un giovane ufficiale del Regio Esercito impegnato nelle grandi manovre militari che, giusto allora, si svolgevano alle pendici del monte Baldo. Il qual giovanotto divenne ben presto il suo fidanzato, un fidanzamento durato però quasi dieci anni (un’eternità per quei tempi!) per colpa dello scoppio del secondo conflitto mondiale: chissà quanti e quali pensieri occuparono la mente di Ada mentre saliva e scendeva lungo i tornanti di quella stradina, con il lago di Garda che di tanto in tanto appariva e scompariva all’orizzonte! So comunque per certo – in quanto lei stessa me lo raccontò – che l’incontro con Luigi avvenne per puro caso. Nel senso che un pomeriggio del 1938, mentre lei scendeva da Lumini diretta verso casa, a Lubiara, si trovò la strada sbarrata da un gregge di pecore che si abbeveravano a una fontana[3] ostruendo di fatto il passaggio. A far sloggiare in fretta e furia pecore e pastore, ci pensò tuttavia quel galante giovanotto in divisa di nome Luigi che, proprio in quel mentre, stava risalendo il monte con la sua compagnia di soldati.

Ancora due parole per concludere
Quando Flaubert si accinse a scrivere Un cuore semplice sentì il bisogno, improrogabile e impellente, di recarsi a Trouville-sur-Mer sulla costa normanna. E non per andare a fare un bagno in mare, si badi bene, bensì per sottoporsi a un necessario “bain de souvenirs”.
Tuffarsi nei ricordi del passato, in una sorta di rigenerante lavacro spirituale, questa la sua intenzione più o meno segreta. E più o meno consapevole, in quanto fu proprio là, lungo quella spiaggia, che da giovane Flaubert vide per la prima volta colei che poi divenne l’amore segreto di tutta la sua vita (si trattava di Élisa Foucault, moglie venticinquenne dell’editore musicale Schlésinger).
Sennonché da quel viaggio a Trouville, anziché rinfrancato, Flaubert ritornò letteralmente “abreuvé de tristesse”. Tutto preso e imbevuto, da capo a piedi, di quella struggente malinconia perennemente in agguato quando si va a rimestare tra le rovine della memoria. Sulle quali incombe, sempre e comunque, il velo mortale dell’oblio. Un velo che, per fortuna, non si è ancora posato sul capo di Ada Sandri, probabilmente per il fatto di essere sempre stata “una persona molto gentile con tutti, umile e semplice come sanno essere le persone migliori”.[4]
Nulla, si sa, è più arduo da definire di chi a prima vista appare semplice essendo, in realtà, quell’apparente semplicità l’indizio più certo di vera profondità. Come ho già accennato, dal matrimonio di Ada con Luigi nacquero tre figlie: Maria Beatrice (1951), Maria Cristina (1953), Maria Cecilia (1956) e, di conseguenza, Ada è stata la madre di quella ragazza dal nome dantesco che io ebbi la fortuna di sposare pochi mesi dopo averla conosciuta sui banchi dell’università di Padova.
Tutto accadde molti anni fa. Oggi entrambe, madre e figlia, se ne sono andate da tempo da questo mondo. Sono uscite di scena all’improvviso, quasi in punta di piedi, con la discrezione che le distingueva. E l’hanno fatto assieme, nella stessa primavera/estate del 1982, dapprima la madre e subito dopo la figlia. Eppure, sia pur a distanza di quasi mezzo secolo, io le ricordo entrambe – madre e figlia – avvolte nella stessa identica luce solare: Ada sulla strada di Lumini e Beatrice lungo quella di San Michele. Sembra quasi che da una sponda all’altra del Garda – una da quella veronese, l’altra da quella bresciana – quelle due care ombre si ostinino a mandarsi ancora un estremo e tenero saluto.
(*) Trattasi del dott. Giuseppe Sandri, fratello di Ada, per molti anni medico condotto di Costermano sul Garda.

[1] “La prima scuola elementare in questo paese è stata messa in piedi da don Benigno Toblini, un prete che proveniva da Malcesine. L’aveva realizzata sul lato destro guardando la chiesa, in alto, a ridosso del campanile. La scuola è rimasta in questo luogo fino a quando in epoca fascista, probabilmente negli anni ’20 o ’30, è stata costruita quella pubblica che secondo i miei informatori ha operato fino al 1975/76”. Cfr. Carlo Gaioni Scolaro, La mia scuola elementare prima, dopo e oltre, libro stampato in proprio a Corbetta (Mi) nel 2017. E così presentato da Alessandro Martinelli nell’introduzione: “… uno spaccato di quella che fu la Scuola da fine ottocento fino agli anni ottanta del secolo scorso. Tutto trova spazio in questo bel volume: i ricordi di maestre e scolari, i materiali utilizzati e le materie studiate, i temi, i dettati, poesie, preghiere e foto di classe. Addirittura le Scuole stesse sembrano raccontarsi, quelle dei paesi più grandi e le misere scuole delle frazioni sperdute, aule ricavate nel niente di quegli anni senza asfalto e automobili, di nevicate formidabili e di famiglie numerose costrette a volte a mandare i figli a famigli per farli sopravvivere alla fame, alle malattie e alla misera solitudine dell’uomo comune. E proprio l’insegnamento diede le basi di un’istruzione, prima nelle mani di curati di campagna e poi in quelle di giovani maestri e maestre, che, fra libri, inchiostro e pennini, avrebbe contribuito ad aiutare la nostra gente anche a difendersi nel mondo che di lì a poco l’avrebbe travolta con guerre e modernità, mutandone via via orizzonti e valori”. Un quadro, questo, che fa da sfondo anche alla vicenda di Ada Sandri, il cui percorso professionale è quello tipico di ogni insegnante al tempo del Ventennio fascista, quindi del secondo conflitto mondiale e infine del faticoso Dopoguerra. Una vicenda, in verità, comune a centinaia e migliaia di altre maestre italiane le quali, svolgendo il loro lavoro tra problemi e difficoltà di ogni genere, alla fine hanno scritto una grande pagina nella storia delle donne del secolo scorso.
[2] Per tali annotazioni sui registri di classe, si veda: Andare a scuola nel comune di Caprino dal 1900 al 1945, tesi di laurea di Paola Giacomazzi in Scienze dell’Educazione presso l’università di Verona, anno accademico 2003-2004.
[3] È la nota fontana, detta della “Sbolsa”, ubicata poco prima del bivio per Fintanorbole. È risaputo che fin dai tempi antichi le massaie di Lumini e dintorni erano solite recarsi a quella sorgente a causa della periodica carenza d’acqua in quei borghi di montagna.
[4] Da una confidenza di Giusi Messetti a Fabio Coltri (estate 2022): “Mia mamma ha conosciuto Ada quando abitava a Lubiara e spesso passava da Porcino. Mia nonna materna era la madrina di Ada, essendo la mamma di Ada vissuta vicino a mia nonna ai Bertocchi. Mia mamma ricorda che quando Ada si è sposata, mia nonna le ha portato un regalo (una scatola con dentro tutta una serie di materiali per la scrittura) e nel tragitto in bicicletta ha incontrato Alide, fidanzata con tuo suocero, (*) anche lei diretta a Lubiara, a casa dei Sandri. Fatto che a quel tempo costituiva una novità, e cioè che la fidanzata andasse a casa del fidanzato”.