È uscito per le edizioni Studium La letteratura è ossessione. Tredici voci per Michele Mari, che riprende il numero dedicato allo scrittore dalla rivista omonima pubblicando gli atti del convegno Filologia e leggenda. L’opera di Michele Mari, tenutosi alla Biblioteca Nazionale di Roma nell’ottobre del 2019. Il volume è dedicato alla memoria di Luca Serianni (30 ottobre 1947-21 luglio 1922) la cui pubblicazione, in quella sede, fu tra le sue ultime. Ai materiali della rivista il nuovo volume aggiunge inediti di Mari, un dialogo con l’autore, una testimonianza di Irene Salvatori sul suo incontro con Witold Gombrowicz e nuovi saggi scritti per l’occasione, fra i quali quello di Roberta Coglitore: che proponiamo ai lettori di «Antinomie» per la cortesia dei curatori e dell’autrice.
Non c’è nulla di più personale di un sogno, nulla che chiuda di più un essere nella più irrimediabile solitudine, nulla che resista di più a una partecipazione. Nella realtà tutto si prova in comune. Il sogno al contrario è un’avventura che il sognatore ha vissuto da solo e di cui lui solo può ricordarsi: mondo separato, impermeabile, che esclude il minimo controllo.
Roger Caillois
I desideri e i sogni appartengono alla scienza quanto all’arte e alla poesia, e questo non è affatto un male.
Siri Hustvedt
Sogni comuni
Nel 2017 l’opera di Gianfranco Baruchello è al centro di due esposizioni: una prima, Greenhouse, al Palazzo Belgioioso a Milano, traccia una riflessione di vita sullo spazio, sulle forme e sul territorio e affronta «la zona grigia, cruda ma onirica, tra il sé e l’altro»[1], e una seconda, al Raven Row di Londra, dal titolo Gianfranco Baruchello: Incidents of Lesser Account, ne riassume la carriera «con opere realizzate a partire dal 1959, tra cui grandi tele iniziali, dipinti su fogli acrilici stratificati e su alluminio, assemblaggi in scatola e una selezione di film e video»[2].
Nello stesso anno Michele Mari pubblica Leggenda privata, una narrazione autobiografica corredata da alcune fotografie di famiglia e dedicata principalmente alla relazione con i propri genitori, cui lo scrittore riconduce la scaturigine della propria «doppiezza congenita»[3]. Per raccontarsi Mari inventa una narrazione fantastica, ovvero un dialogo del narratore-protagonista con i suoi demoni, una sorta di trasfigurazione mostruosa dei suoi genitori, che fa da cornice ai frammenti degli episodi inconfessabili dell’infanzia e dell’adolescenza.
Sempre nello stesso anno l’artista e lo scrittore decidono di mandare alle stampe un volume intitolato Sogni, composto di due sezioni: una prima contiene trentasei frammenti di Mari, stampati su carta usomano gialla, dal titolo Oniroschediasmi[4] e una seconda raccoglie sessantaquattro riproduzioni dei disegni di Baruchello, su carta patinata avorio, intitolata In Store. Come si legge in alcuni resoconti sull’opera[5], i due autori si sono incontrati per discutere sul tema comune e, senza alcun dubbio, Sogni è il frutto maturo della collaborazione di due scrittori-artisti o disegnatori-letterati[6].
Apparentemente potrebbe sembrare che il volume consista, come nella consuetudine dei cataloghi d’arte, della prefazione di uno scrittore che accompagna la riproduzione delle opere di un artista, invece si tratta di un vero libro d’artista, peraltro frutto della collaborazione tra due autori, entrambi dotati di un doppio talento, dove le due sezioni dialogano alla pari. Lo dimostra la completa assenza di un paratesto eloquente in tal senso: nessuna prefazione, nessuna postfazione a indicare modi di lettura e direzioni di interpretazione, né da parte degli autori né di un tertium.
Il titolo del volume, unico elemento del paratesto che accomuna le due parti, è esplicito. Sogni sono quelli raccontati da Michele Mari nella prima parte, violando il rigido ordine alfabetico della copertina, e Sogni sono quelli disegnati da Baruchello nella seconda parte, la più estesa.
In entrambe le sezioni le due arti collaborano e interagiscono allo stesso livello, seppure secondo modalità differenti. Si potrebbe dire che nella prima parte è dominante, ma non esclusiva, la scrittura, così come nella seconda lo stesso potrebbe dirsi del disegno. In effetti la collaborazione tra le due forme espressive è fortemente ribadita in entrambe le sezioni. Per fare solo un esempio: vi sono disegni enfaticamente trascritti in parole nella prima sezione, così come le parole e le frasi inscritte nelle tavole della seconda sono essenziali alla composizione dei disegni.
Eppure tra le due parti del volume, tra loro ben distinte e demarcate, si ritrovano molti echi e corrispondenze, sia per la condivisione di una costellazione di motivi comuni, già affrontati individualmente dai due autori in opere precedenti, sia per la modalità di fare arte di entrambi. Infatti, scrivere sui propri sogni e sulla funzione del sogno in generale, come fa Mari nella prima parte, aiuta sicuramente il lettore/osservatore a comprendere i disegni onirici della seconda parte, così come la dimensione di miniaturizzazione dei disegni e delle legende, sparsi negli enormi spazi bianchi delle pagine di Baruchello, è utile a capire la necessità della scrittura per frammenti e l’accumulazione di dettagli nella narrazione della prima parte.
Entrambi gli autori dimostrano una grande ampiezza di prospettive sul sogno, sulla sua natura e sulle funzioni, un incessante interrogarsi sugli snodi principali, sulle varianti e invarianti, sulle modalità di rappresentazione, sulla sua collocazione a partire ovviamente dalla visione in soggettiva che il sogno impone, come esperienza personale e a volte difficilmente comunicabile.
Se, in linea con le altre prove d’artista di Baruchello, nei disegni di In Store è impossibile trovare un’unica via d’uscita o un’interpretazione lineare, per la difficoltà di contenere tutto – reale, immaginazione e sogni – in un unico disegno e, al contempo, per indurre il fruitore a fare un’esperienza artistica intensa e complessa, allo stesso modo nel trattato per frammenti di Mari sono più gli interrogativi posti che i dubbi risolti, affinché anche la lettura delle pagine sul sogno diventi un’esperienza da elaborare e non soltanto una forma assertiva di conforto, consolazione o divertimento.
L’obiettivo della mia analisi consiste nell’evidenziare il contributo di Mari al libro d’artista, mettendo in risalto le assonanze tra le due sezioni sia dal punto di vista dei motivi comuni, sia dal punto di vista delle pratiche artistiche. Per dimostrare che il doppio talento di entrambi è la piattaforma comune e indispensabile per la realizzazione del libro d’artista inizierò ad analizzare le due parti separatamente.

I sogni di Mari
Si tratta di trentasei frammenti scritti, quasi in forma di diario, tra il «21 marzo [19***]» e il 31 maggio e dunque, nonostante l’indicazione imprecisa dell’anno, sono retrodatati rispetto all’effettivo incontro dei due autori per scegliere i disegni e discutere dell’impresa. L’obiettivo di questi frammenti è raccontare i propri sogni nel tentativo di fare una teoria del sogno, sebbene strutturata in base alle questioni aperte anziché alle sue soluzioni. Ogni frammento propone un aspetto della natura, delle modalità del sogno, delle sue letture e trascrizioni, molto spesso a partire da posizioni eccentriche e paradossali, che facilitano la messa in discussione della materia. Sono riportati gli interrogativi alimentati dalle fantasie di un qualunque sognatore e anche di chi è interessato a studiare il sogno perché filosofo, psicologo o neuroscienziato, o anche scrittore o artista. Per porre i suoi quesiti Mari mette in campo la propria personale esperienza di sognatore e trascrittore di sogni e anche quella di scrittore e disegnatore, consapevole che l’esperienza artistico-letteraria sia strettamente confinante con l’onirico.
Mari inizia col delineare il campo da investigare a partire da una doppia etimologia della parola sogno: in latino somnium, «dal significato deludente di sonnesco»[7], cioè apparentato al sonno, e Traum nelle lingue germaniche molto simile al Dream delle anglosassoni, termini che invece indicano inganno e illusione e che sono più apparentati con il trauma. Sin dalle prime battute dunque sono poste in rilievo l’incertezza e l’ambiguità dei termini e anche l’impossibilità di ritrovare un unico punto di vista sulla materia. Per affrontarne lo studio rigoroso Mari auspica una filologia del sogno, tuttora inesistente, che possa essere utile per la descrizione e la riutilizzazione del materiale onirico[8], con l’intento di costituire una sorta di Oniroteca dove conservare e inventariare i sogni. Nella filologia del sogno, immaginata da Mari, più che la dispositio o l’elocutio conterebbe in particolare l’inventio. Grande spazio quindi all’interrogazione sulle forme di apparizione delle immagini del sogno come espressione del sé, più che alla loro sintassi e presentazione. La narrazione e la scrittura del sogno vengono così considerate operazioni retoriche di secondo momento rispetto all’atto del sognare e in ogni caso hanno valore in prima battuta per chi sogna e poi trascrive, perché la scrittura onirica è innanzitutto una scrittura autobiografica che vale principalmente per sé, come una forma di invenzione e di creazione artistica personale, e come tale difficilmente comunicabile a chi non ha vissuto il sogno.
L’inventario del materiale onirico potrebbe costituire una prima soluzione alla comunicazione dei sogni e sarebbe possibile a partire dalla individuazione degli elementi di base e delle invarianti:
Come i cassetti pieni di caratteri tipografici mobili, come i font dei programmi di scrittura e di stampa elettronica, dovrebbero esistere dei repertori di forme oniriche, in modo che al risveglio, con economia e precisione, uno possa dire: “ecco il bastone da passeggio di quel signore era proprio come questo il D9-k300-5. Mentre il corrimano di quella scala potrebbe essere, anzi sicuramente è il GH-f980-2/int” in questo modo si potrebbero ricostruire i sogni come si trascrivono le partite di scacchi o la musica) (È noto che il musicista o lo scacchista, leggendo una trascrizione, sentono la musica e vedono la partita, sicché in qualche modo tutti i bravi sognatori di questo mondo potrebbero assistere agli altrui sogni trascritti e farli propri – Ma sarebbe un bene?)[9].
L’inventario potrebbe servire a rendere comunicabile il sogno, a renderlo interessante anche per chi non lo ha sognato. Per fare ciò andrebbe però chiarita la natura dei sogni, capire cioè se si tratta di una inventio, secondo un trattamento artistico semiautomatico, o un invenio, una dimensione oggettiva che trascende il sognatore, come attività del suo subconscio:
come dire, da una parte un trattamento artistico semiautomatico, dall’altra l’immodulabile sostanza del nostro subconscio: ma se del sogno noi siamo gli autori, non ne scende l’autorizzazione di quel medesimo arbitrio formale, nella cui alea si gioca la vera ipnotauromachia?[10].
Gli stimoli più interessanti sulla natura del sogno vengono, come sempre, dai casi limite. Tra gli spunti di riflessione che Mari offre al lettore troviamo alcuni interrogativi, per esempio: cosa sognano i ciechi? Il sogno è un’attività che dipende interamente dalla sola vista? In altri termini, si può sognare anche con le sole percezioni tattili, senza quelle visive? Oppure, altro caso limite, come sono i sogni dei gemelli: «si dice che sognino all’unisono. Se così fosse negherebbero in sogno la loro distinzione, dunque la cosiddetta realtà psichica ne verrebbe falsificata (a meno che nel sogno non si sognino in coppia)»[11].

Le interpretazioni sulla natura dei sogni e le teorie corrispondenti possono essere riassunte in quattro direzioni diverse che Mari immagina rappresentate da frecce vettoriali: verticale verso l’alto per Freud, secondo il quale i sogni vengono dall’inconscio e cioè dal basso, verticale verso il basso, per i mistici che li credono originati dal trascendente, oppure orizzontali rivolti verso destra se si ritiene che vengano dal passato, come energia psichica presente alimentata da frammenti di memoria, o al contrario, orizzontali verso sinistra, se si ritiene che vengano dal futuro, come fa l’oniromanzia. Mari dimostra così un’apertura nei confronti delle possibili interpretazioni, senza citare alcun teorico a eccezione di Freud, e al contempo nessun pregiudizio in particolare, anzi invita il lettore a interrogarsi sulle problematiche del sogno che si sanno avanzate dai filosofi, dagli psicologi o dai neuroscienziati.
Nonostante Mari, da teorico, problematizzi la teoria del sogno e si dimostri aperto a considerare le diverse questioni sulla sua natura, da scrittore egli afferma invece la centralità della narrazione del sogno, asservita a un’idea del tempo lineare, rappresentato in occidente da sinistra a destra, da un prima a un poi.
La lettura e la trascrizione successive non sono mai operazioni neutre. Il simbolismo dei sogni per Mari non è universale, dipende dalla cultura e dalla vita di chi sogna e di chi lo racconta, così come per qualsiasi altra forma di linguaggio e, si potrebbe aggiungere, di narrazione. Basti pensare alle sole differenze di generi nominali nelle diverse lingue e agli usi e alle trasformazioni nel lessico e nell’idioletto:
in ogni caso questa storia dei simboli mi ha sempre lasciato perplesso. Per la loro transitività, voglio dire. Un’ellisse è palesemente una vulva, ma è anche un occhio, è anche la mandorla-Cristo. Per Heidegger (famosa prolusione di Marburg), a motivo dei raggi, il sole era fallico (cfr. Iliade I: i raggi del sole sono le frecce di Apollo che sterminano i greci): ma in tedesco Sonne è femminile[12].
La macro-questione sulla quale Mari insiste maggiormente è naturalmente quella della trascrizione del sogno. Come si può tradurre l’esperienza personale del sogno? Quale forma espressiva lo rende comunicabile nella sua forma migliore? Se nella trascrizione le parole tendono a problematizzare, a porre domande, al contrario le immagini sono, a detta di Mari, assertive:
ecco le parole prima o poi virano alla domanda, si criticizzano. Non così le immagini, che si impongono e stanno. È la responsabilità del segno grafico, la sua determinazione. Nessun “non so che”, nel disegno[13].
In questa affermazione lo scrittore Mari e l’artista Baruchello non sembrano affatto concordare. Proprio l’arte di Baruchello in questo dissente, perché secondo l’artista si possono porre domande e interrogativi anche con i disegni, inventando forme d’arte che pongono al fruitore mille domande e mille enigmi, trappole e giochi. Ma su questo punto ritornerò nelle conclusioni.
Esattamente come le immagini artistiche, quelle oniriche tendono alla rappresentazione dell’ideale perfetto, delle idee platoniche o nella mente di Dio. I sogni che si ripetono sono dunque continue approssimazioni dell’ideale e sostanza di base dell’espressione artistica:
Vorrei sognare dei culi belli, sodi, ma tanti: poi svegliarmi, e come Zeusi disegnare il culo perfetto (l’idea platonica del). Forse tutte le mie variazioni oniriche sulla casa sono approssimazioni a qualcosa che da qualche parte esiste, forse solo nella mente di Dio[14].
La ricerca iconografica delle forme perfette è stata la chimera di molti artisti, ma questa affermazione di Mari ha anche un tono autobiografico e familiare, perché la forma perfetta è stata l’ideale di alcuni progetti grafici dei suoi genitori, basti pensare alla serie dei disegni di elementi della natura del padre o alle semplificazioni fino all’essenziale per facilitare la comprensione dei bambini, nei libri della madre[15].
Un altro aspetto fondamentale è quello delle soglie, dei limiti, degli ambiti confinanti. Il sogno fa sicuramente parte della vita e la alimenta, e viceversa. Nell’alternanza e nella relazione con la vita si crea uno spazio per un’altra interrogazione: il sogno è passivo o attivo? permette di vivere o deriva dalla vita? Mi manipola o viene manipolato, si chiede lo scrittore:
restituisce una realtà psichica o la crea? (né si esclude il tertium di una restituzione ironica, correttiva, falsante). Insomma queste case, corrispondono a qualcosa di intimamente càsico che connota la mia vita psichica, o sono una risposta alternativa? Chi ne ha il copyright, io bambino, io addormentato, Le Corbusier, Piranesi? Le Madri? (qualsiasi piantina di casa io adesso disegni, anche la più arzigogolata, l’ho già sognata: sotto questo aspetto il sogno è il prius, e io volenteroso artigiano vengo dopo)[16].
La soglia tra sogno e vita ne alimenta un’altra, quella tra sogno e attività artistica, dove è davvero difficile stabilire il nesso e determinare quale è la causa e quale la conseguenza, cioè si disegna qualcosa perché lo si è immaginato o sognato prima o, viceversa, lo si sogna dopo averlo visto e vissuto:
la verità è che appena sveglio, dopo adeguata minzione e un paio di caffè, devo prendere una matita e disegnare qualcosa. È un bisogno fisico, come grattarsi. Per economia, poi, va da sé che la mia mano produca forme archetipiche ed elementari grafismi, una croce, una stella, una freccia, un cerchio, un quadrato, tutto qua, segni che nel venire alla luce tengono del timbro. Ma la prima volta che ho disegnato una stella (una a cinque punte, di quelle che si iscrivono in un pentagono capovolto) fu perché l’avevo idealmente vista, oppure la vidi solo dopo averla disegnata per cieca e sperimentale attività della mia mano? O le due cose insieme? (per ridurre a questo il problema dovremmo creare però una situazione-laboratorio che escluda per la cavia la possibilità di vedere una simile stella in un libro, su un manifesto, in televisione)[17].
La seconda soglia sensibile, quella con la rappresentazione artistica è quasi dissimulata: l’arte contagia i nostri sogni e ne influenza le forme, oppure il nostro gusto e il piacere estetico influenzano i nostri sogni? sogniamo ciò che ci piace di più o che è di moda?
L’arte dunque colonizza i nostri sogni, né più né meno del paesaggio, dell’urbanistica, degli arredi, del… (Ma il punto è ci si sogna munchiani perché Münch è di moda? Si può essere conformisti anche nei sogni? Tristissima ipotesi invero)[18].
Lo spazio dei sogni però non è il libero gioco delle associazioni, senza alcuna contrainte. Sebbene siano stati chiamati in causa dai movimenti artistici innovatori nel corso della storia, i sogni sono anche frutto di scuola, di un certo accademismo:
i sogni sono sempre stati cari alle avanguardie: nella loro asintatticità, nel loro analogismo e nella loro (presunta) libertà appaiono critici e rivoluzionari. L’orgia del surreale. La perturbatio. Questo prestigio oscura un aspetto, nel sogno, che non sottovaluterei: l’accademismo[19].
A sua volta l’accademismo delle scuole, soprattutto quelle artistiche, provoca delle conseguenze disastrose nei sogni degli stessi artisti, abili manipolatori di immagini e del linguaggio onirico:
Ridotta a sua volta a cosa sognabile, la sua sognante mitopoiesi diventerà la base per un sogno di materiali pre-sognati, dunque un sogno di secondo grado, dunque un sogno meno puro. (Questo a prescindere dal fatto che la scaltrezza tecnica dell’artista contaminerà il sogno anche a valle, nel momento della ricostruzione e della narrazione: come poteva Dumas evitare di rendere romanzesco il ricordo di un sogno?)[20].
Il tema dei sogni ricorrenti, quelli che si ripetono fino ad assomigliare alle idee platoniche e alle forme perfette, serve per introdurre innanzitutto il tema della casa, ossessione personale dei sogni di Mari, e, in seconda battuta, anche la rappresentazione del cervello, come produttore e/o spazio dei sogni. Sulla prima opzione Mari ritorna ripetutamente più volte, sulla seconda apre spiragli di luce interessanti.
Quale è la casa dei sogni di Mari? È una casa ideale che ha ridisegnato molte volte e che, trascritta, perde ogni suo tratto[21]. Se è vero che alcune volte i sogni di case si autodistruggono al risveglio perché sono abominevoli, è altrettanto necessaria una certa maestria per trascrivere i sogni, perché non sempre si è capaci di capire cosa stia sognando. Quelli che si ripetono in Mari sono sogni molto complicati e fatti di stanze su stanze infinite che «girano intorno»[22], dove non è facile capire le trasformazioni, quando cioè una grotta si trasforma in casa, o un vagone diventa una cantina: come è possibile individuare il momento esatto della costituzione della casa quando le soglie tra le immagini oniriche che si vivono nel sogno si disallineano continuamente?
Sulla seconda ipotesi, quella della rappresentazione del cervello come produttore di sogni, Mari avanza alcune questioni cruciali. I sogni potrebbero essere spiegati al loro grado zero. In questo caso si tratterebbe soltanto di scariche elettriche e tempeste neuronali, come sostengono i neuroscienziati che lasciano alla trascrizione personale del sognatore la responsabilità di rintracciare la fabula. Esattamente come facevano i Surrealisti, su una base scientifica verrebbe dunque aggiunta una forma artistica di narrazione o una traduzione delle scariche elettriche:
forse in sogno abbiamo solo scariche elettriche flussi molecolari, tempeste neuronali: e tutta la fabula la mettiamo al risveglio, nello sforzo di ricordare. Turbati, commossi da quelle informi percezioni primarie le irretiamo in una forma, non proprio una forma a caso ma la prima adatta che ci venga di fatto di trovare. Per disegnare un sogno dunque dovrei anticipare almeno di un infinitesimo di secondo il momento in cui la mia memoria pesca quella forma; inserirmi nella sottilissima rima fra l’informe notturno e il formando diurno (così con la scrittura automatica i Surrealisti: ma quale automatismo mai, se l’atto di scrivere anche un solo carattere comporta la volizione?)[23].
Il sogno ha dunque una doppia vita: si manifesta durante il sonno ma continua a esistere in un’altra forma anche dopo il risveglio, nella sua elaborazione. Mari sostiene che non si può trascrivere un sogno senza poi analizzarlo, perché la tendenza è irrefrenabile, sia che la trascrizione avvenga attraverso le parole, sia con i disegni, e ciò avviene anche nel caso che il sogno contenga alcuni simboli o segni già densi di significato in sé:
qualsiasi trascrizione onirica, sia verbale sia figurativa, tende all’analisi. La cartografia è fatta di linee, nomi, di numeri (obiezione polemica: sì, ma se sono già nei miei sogni, quei segni? Se io sono un sognatore analitico? – Donde, poi, analisi dell’analisi). I numerini piccini. Un mio racconto di parecchi anni fa, Temperatura esterna, si chiudeva così: […][24].
Nelle trascrizioni verbali dei sogni si inventano spazi e tempi ad hoc, ma a cosa corrispondono esattamente? In quale dimensione si realizza questo spazio/tempo: nel cervello, nell’immaginazione, oppure è iscritto nel nostro corpo?
Quando scrivo più in là, intendo nel tempo del sogno o nel suo spazio? Se il sogno è un punctum, come dicono, se è res intensa senza extentio, entrambe le opzioni sono inesatte. E se invece il sogno avesse una sua estensione, ramificandosi lungo i seni, i lobi, e le pliche del nostro cervello?[25].
Mari si interroga a lungo sulla vita dei sogni, non soltanto come sognatore, artista o scrittore ma quasi come farebbe un neuroscienziato. Si chiede se i sogni hanno una loro continuità dopo il risveglio e oltre le interruzioni diurne e se bisogna individuarne una sequenza o immaginare una loro persistenza anche a distanza di giorni e di mesi. Inoltre se vanno conservati nella nostra memoria, quale funzione ha la narrazione verbale o la trascrizione sotto forma di disegno? Dove confluiscono le immagini oniriche una volta trascritte, dove si conservano tra un sogno e una sua ripetizione?
Trattasi di replica, o di continuazione? C’è una ratio, nel lasso della diffrazione? E soprattutto: durante tutto il mese trascorso, calcolando anche le veglie, quel sogno è rimasto sospeso, ha continuato a esistere in me da qualche parte? (e la consapevolezza che si trattasse della stessa casa, è un regalo della considerazione da sveglio, o era già nel sogno?). (Si dà, nei sogni, il “riassunto della puntata precedente”?)[26].
La summa del trattato è però susseguente all’osservazione di R***, dietro la quale potrebbe nascondersi la moglie dell’autore, che considera tutti i materiali preparatori per la pubblicazione un armamentario retorico, una sorta di lavoro preliminare per un progetto ancora da sviluppare. Mari ritiene che forse la raccolta delle annotazioni e dei disegni non sono altro che il prius e non il posterius di un vero lavoro teorico che si può realizzare soltanto nell’esperienza onirica, solo notte dopo notte:
fosse così, l’opus mi attende, o lo realizzo già notte dopo notte, sognando? Ipotesi a dir poco atroce: non essere le mie trascrizioni il precipitato analitico e inerte di un’energia che si scatena compiutamente la notte, ma sogni ad occhi aperti sulla cui base io poi nottetempo imbastisco dei sogni. Non il posterius queste carte ma il prius… (Perché “atroce” poi?)[27].
Detto altrimenti, le teorie sul sogno sono al servizio della pratica onirica personale e non viceversa. Il sogno è dunque un’esperienza in prima persona che si autoalimenta e forse può essere orientata. In questa direzione vanno anche i tentativi di indurre determinati sogni a partire da alcune azioni dimostrative svolte durante la veglia: collocare dei post-it sugli oggetti con l’indicazione esatta «questa notte ti sognerò», seppure con il risultato deludente «come se quelle velleitarie intenzioni avessero comunque intasato la macchina dei sogni»[28].

La conclusione del trattato sul sogno di Mari ha però una nota angosciante. Lungi dall’essere l’apoteosi della libertà e la panacea per gli artisti, il sogno è una prigionia, perché non può che essere fatto in prima persona, ed è sempre legato al proprio corpo. Si tratta di una forma di narrazione obbligata, necessariamente autobiografica e aderente alle percezioni sensoriali. Non esiste nel sogno la possibilità di sognarsi dall’esterno, in una persona diversa dalla prima singolare e questa costrizione nella scelta del narratore ne limita la libertà:
filmicamente parlando, si sogna quasi sempre in soggettiva. Nei sogni siamo il vettore che sposta il proprio sguardo, e ci sappiamo come guardanti. Non ricordo di essermi mai sognato in quanto guardato, se non da me stesso in uno specchio. Se questa è la norma, ne scende che il sogno è molto meno libero dell’arte: nessun autoritratto nel sogno, nessuna ironia, nessuna metempsicosi. Prigionieri di sé come non mai, altro che liberazione! Il classico distinguo Dante autore Dante personaggio non si dà; dunque: nessuno speco interiore ove condurre il balletto con se stessi, nessuna arguta mediazione complicazione, nessuna interpretazione solo l’espressione di sé allo stato grezzo, come un urlo, di cui le forme colorate del sogno non sono la dialettica interlocuzione, ma il coagulo[29].
L’angoscia culmina nel racconto di un sogno ricorrente, l’incubo che mette insieme la vita militare e la casa: quello della casamatta dentro la quale si trovano i compagni di classe che sono riusciti a evitare il servizio di leva, forse il periodo più odioso della vita dello scrittore[30], mentre il protagonista/sognatore è costretto ad azioni militari pericolose, come lo sbarco in Normandia. Nell’incubo l’angoscia finale viene generata dal polimorfismo della casa in continua trasformazione, che da propria diventa altrui e infine sconosciuta.
Le ultime battute del trattato sono invece affidate a un dialogo, in modo fantastico, tra il narratore e il sogno che dissimulano le soglie tra arte e vita, tra sonno e veglia e, potremmo aggiungere, anche tra le due sezioni del libro d’artista:
“Sognami” disse il sogno | “No” gli risposi | “Stolto; il tuo rifiuto è già parte di me | ”Ti rifiuterò fino a svegliarmi” | ”Ogni tuo no sarà oppio, per te” | “Verrà comunque il mattino” | ”anch’esso farà parte di me” | “Dovrò ben svegliarmi perdio!” | “Sempre in me, sempre in me” | “E tutti i risvegli e le veglie della mia vita?” | “È questa la tua vita” | “E quando morirò?” | “Allora comincerai a sognarmi davvero”[31].
Un’ultima notazione va rivolta alla componente grafica del trattato, per ritornare sulla questione del doppio talento dell’autore. Nell’ultimo frammento, nel dialogo in versi tra narratore e sogno – come in altre pagine del diario onirico – Mari fa ricorso a una indicazione tipografica particolare, utilizzando una scrittura che sostituisce un’immagine: «31 maggio [cancellato con un rigo orizzontale]». Mari inserisce cioè tra parentesi quadre l’indicazione verbale dell’atto di cancellazione, forse della didascalia del disegno che è stata eliminata, e fornisce così l’occasione al lettore di immaginare cosa è stato cancellato. Nelle pagine gialle le indicazioni verbali delle cancellature stanno al posto dei disegni omessi. E così siamo noi lettori a dover sognare il disegno che Mari avrebbe fatto della casamatta nel suo sogno finale «[disegno di una casamatta]» del 27 maggio, e anche di «[una trentina di disegni in bianco e nero e sei colorati]» alla data del 1 aprile, quando avrebbe dovuto disegnare le soglie tra una casa e un’altra, e in ultimo siamo noi lettori a dover immaginare la piantina e l’assonometria volumetrica della prima casa annotata il 26 marzo «[disegno(piantina)] [altro disegno (assonometria volumetrica)]».
Questo espediente richiede la partecipazione attiva del lettore e trasforma il quasi trattato sul sogno, in forma autobiografica, in un libro d’artista, anche nella sola prima parte. Le sostituzioni dei disegni con la scrittura simulano le cancellature artistiche, alla maniera di Emilio Isgrò, fatte le opportune differenze. Secondo la teoria della composizione delle forme miste, verbo-visive, la scrittura diventa una forma di cancellatura del disegno quando si sostituisce all’altra forma artistica o soltanto alla sua didascalia (una sorta di Bildlöschung ovveroannientamento/cancellazione dell’immagine[32]). Inutile qui ricordare inoltre il valore che la cancellatura e le omissioni hanno nella vita dei sogni e nella loro spiegazione psicoanalitica, come forma dei desideri inespressi e rimossi.
Sopravvive invece alle cancellature un unico disegno di Mari[33]: una freccia verticale rivolta verso l’alto con le alucce spioventi ramificate in altrettante frecce, una mise en abyme della freccia e della sua simbologia fallica, emblema dei disegni con cui il giovane Mari riempiva i quaderni universitari. L’unico disegno viene riprodotto con una duplice caratteristica: si tratta di un segno ricorrente nella vita dello scrittore, quindi un elemento cruciale del nucleo autobiografico, non a caso grafico, e inoltre è un segno che dimostra la sua straordinaria duttilità nella meta-costruzione in successivi livelli grafico-narrativi.

Mari riesce pertanto a fare confluire in poche pagine forme di scrittura diverse – trattatistica filosofica-psicologica-scientifica, narrazione autobiografica, racconto fantastico –, e anche ad alludere a forme artistiche che hanno trovato motivi di ispirazione nella scrittura dei sogni (avanguardisti e Surrealisti o un certo accademismo), oltre a far convivere spiegazioni scientifiche e letterario-artistiche.

I sogni di Baruchello
In una conversazione con Beppe Sebaste, Baruchello ha raccontato di possedere dieci scatoloni di sogni, descritti e disegnati, che conserva ormai come archivio, ma che sono stati fonte di ispirazione per le proprie opere[34].
In Store è infatti il titolo inglese della seconda parte del volume Sogni, a indicare che si tratta di una raccolta – in forma di deposito, archivio, memoria – dei disegni onirici di Baruchello dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Novanta.
L’assenza del paratesto, in particolare la mancanza di un elenco delle opere, corredate delle informazioni necessarie, come ci si aspetterebbe in un catalogo d’arte, sottrae al lettore un elemento cardine delle opere, la loro dimensione, e, al contrario, l’eliminazione del numero delle pagine nella seconda parte del volume, come è invece consuetudine in un catalogo d’arte, rende complicato l’orientamento.
Le pagine di carta bianca patinata della seconda parte riproducono un ritmo regolare e ripetono un’identica composizione: in alto, la riproduzione fotografica del disegno su fondo avorio e quasi sempre in formato orizzontale (unica eccezione Dobbiamo sempre dubitare) e, al centro in basso, il titolo in tondo, in italiano, francese, inglese o spagnolo, accompagnato talvolta dalla traduzione inglese in corsivo.
Inutile affidarsi ai soli titoli dei disegni per comprendere il senso dell’opera. Quasi sempre i titoli riprendono integralmente o in parte una delle numerose legende iscritte nel disegno e non sempre il titolo riesce a esaurire le indicazioni o le informazioni necessarie alla comprensione dell’intero disegno e di tutte le sue parti.
Nonostante non si conoscano le dimensioni effettive dei disegni e la riproduzione fotografica dei disegni li uniformi allo standard delle pagine del volume, è possibile individuare alcune invarianti. Innanzitutto la proporzione tra lo spazio bianco del fondo e le figure colorate è quasi sempre sbilanciata a favore del primo. Piccole figure miniaturizzate aleggiano su una campitura che assume una dimensione significativa e un’importanza cruciale e non di semplice sostrato. Gli spazi bianchi danno la possibilità di spaziare e di creare relazioni tra le diverse figure come in un atlante warburghiano, dove contano più le possibilità di creare infinite connessioni tra le parti che le singole immagini o anche le associazioni ricreate dal singolo lettore/osservatore. Inoltre nei cosiddetti Baruglifici[35] viene annullato il tradizionale valore topologico delle parti del foglio, ovvero del centro e dei margini. Non sempre il disegno occupa la parte centrale del foglio e gli spazi bianchi sono distribuiti in modo omogeneo. Allo stesso modo le figure disegnate non conservano le proporzioni reali, non sono sempre disposte in verticale e la loro collocazione non si inserisce in una successione di tipo narrativo, tra un prima e un poi facilmente leggibile, tutte caratteristiche che permettono di evocare facilmente il mondo onirico.
Nonostante la parola sogno compaia soltanto una volta nei titoli (Mot de passe. Sogno dell’alloro e del sasso di P. a Parigi), il montaggio delle figure nei disegni scelti da Baruchello simula la maniera del lavoro onirico con le sovrapposizioni, le condensazioni e gli spostamenti cui la vulgata psicoanalitica ci ha abituato, ma anche secondo le libere associazioni e i procedimenti anti-narrativi della neoavanguardia italiana, di cui Baruchello è stato l’artista di riferimento[36].
L’enciclopedia visiva di Baruchello procede secondo schemi «a-narrativi o meglio, eccentricamente narrativi», «isole prive di allineamento consequenziale» ma in grado di disporsi entro un «vocabolario» personale che organizzi il visibile secondo «le sue strane sintassi»[37]. Il montaggio delle figure prevede il riconoscimento di piani multipli nel disegno, libere associazioni logiche o enormi vuoti tra le figure, che solo in alcuni casi sono riempiti dalle didascalie.

La scrittura è infatti parte integrante del disegno: non solo per i lunghi titoli discorsivi, quasi spezzoni di frasi o di interi discorsi, ma anche per le legende, le didascalie o i versi che fanno parte del disegno, non come iscrizioni circondate da un riquadro, o disegnate su un cartiglio, ma come parte integrante del disegno a matita di Baruchello. Come i disegni miniaturizzati, anche le parole sono a volte illeggibili, per la loro ridotta dimensione, oltre che per l’uso del corsivo utilizzato. Ciò induce un obbligato rallentamento nella fruizione, la necessità di avvicinarsi al disegno per comprenderne gli elementi essenziali, un’esperienza estetica sicuramente non frettolosa ma, al contrario, capace di interrogare in profondità l’osservatore e indurlo a riflettere su temi cruciali.
Esattamente come nei sogni, gli elementi che concorrono alla figurazione de In Store sono eterogenei, disomogenei, sproporzionati nelle dimensioni; le azioni disegnate sono a volte concorrenti (A/A’=…> more of the same won’t do, Torna sotto le luci la mia attività di sciabolatore), altre sovrapponibili nel tempo o ripetibili nello spazio della pagina a formare una sequenza (L’AU della ditta, classico bischero-sensitivo ciclotimico a indirizzo ‘artistico’, Euridice’s hat). Molto spesso le figure rappresentano sia l’esterno che l’interno degli oggetti rappresentati, producendo una molteplicità di punti di vista sull’oggetto (Fissandolo a parete per un lato, non oscilla, una signora di mezza età vestita di grigio provvista di un poderoso apparato buccale). Soprattutto quando si tratta del disegno di corpi Baruchello indugia sulle loro sezioni o sui volumi (Mme Bertrand) e sulla rappresentazione degli strati interni o delle interiora (Manque de lubrification, Theoria motus corporum coelestium), preferendo raffigurare le viscere (Nessuna proposta, Dal palazzo degli intestini giunge l’eco scrosciante). Una serie è dedicata alla rappresentazione di teste senza corpo e multisfaccettate, con bocche e orifizi immaginari (Oreille-fissure, oreille-gauche, Babines crâiniennes, Tête sérieuse d’un homme souriant, Multitesta turbo si pone ai vertici della qualità, Riprende vecchi temi appena ( ) accennati, I fratelli Fürstenberg che percorrono ognuno 400.000 km all’anno, Villaggio da trent’anni nella stessa località detta Doramiveglia), altre volte si tratta della rappresentazione della mente o dell’inconscio (Parlamento delle paure). I luoghi raffigurati invece sono quelli esterni dei giardini, anch’essi sezionati nelle loro porzioni, con le relative legende informative (Langage à Schreber, Bellissimo il kepos, Management by wandering around) o ancora dei paesaggi naturali (La cui poetika, Potenti forze telluriche) o costruiti (Palazzetti da cielo a terra, Il vecchio stadio olimpico), o di singoli elementi della natura (Sei fasi di formazione di una nuvola nel cielo di Massalubrense), o in ultimo una serie di territori sconosciuti e di terre immaginarie (cfr. Eutopia garden. Giardinaggio mentale, Immaginare mete di viaggi, Nosoni ceceni all’attacco, Arcipelago parziale della soccida terziaria, Antartide della mente, Mappe-biscotto. Le 13 isole, Verso il nucleo)[38]. Vi sono titoli e disegni che fanno riferimento a fatti politici (Alcuni membri dell’operazione GLADIO colti in atteggiamento naturale, Dobbiamo sempre dubitare), così come nei disegni compaionoanche allusioni esplicite ad artisti (M. Duchamp) e a scrittori (P. Handke, E.A. Poe, S. de Beauvoir, A. Gramsci). Non mancano spunti sulla situazione esistenzialista dell’uomo contemporaneo (Waiting room) o quadri teorici sulla relazione tra pittura e scrittura (Mi pento a forfait, Non so immaginare quel che conosco), per terminare nell’ultima tavola con la questione cardine ovvero, quella della visione (Per calarsi nell’antico caos).
In In Store le forme artistiche della composizione verbo-visiva sono numerose: un’attenzione alla lessicalità visiva, un’integrazione dei due elementi – figure disegnate e parole scritte – sulla superficie della pagina, ma si va anche oltre, ipotizzando un’omologia di procedimento tra le due forme artistiche[39].
Tutti questi elementi concorrono a riaffermare la cosiddetta “funzione Baruchello”, quella che è stata individuata come azione catalizzatrice delle istanze innovatrici del movimento letterario della neoavanguardia negli anni Sessanta. Nonostante nel Gruppo ‘63 Baruchello sia stato considerato l’unico artista del movimento, le sue innovazioni artistiche costituirono la carica innovatrice della nuova letteratura italiana. Come spiega Chiara Portesine:
la pittura di Baruchello offriva a una Neoavanguardia in cerca di una de-territorializzazione del letterario alcune ipotesi di palingenesi formale, con una serie di suggestioni non di natura extradisciplinare, ma relative a modalità eccentriche di svolgimento della trama e di liquidazione del personaggio tradizionale. Le categorie fondative del letterario vengono radicalizzate assecondando le linee guida di uno sperimentalismo anti-lirico che, pur provenendo dall’ambito pittorico e disegnativo, consente un ripensamento delle logiche interne e specifiche del libro[40].
Baruchello utilizza la scrittura come uno dei suoi tanti procedimenti artistici: elementi come la sovrapposizione dei piani del disegno o il montaggio delle figure corrispondono all’assenza dei nessi causali nella narrazione o alla eliminazione dei personaggi, questi ultimi intesi come occasioni di introspezione psicologica. Le azioni rappresentate sono soltanto quelle cognitive indotte dai disegni nell’osservatore, nel suo procedimento conoscitivo carico di tutti gli interrogativi e gli enigmi da risolvere.
La capacità di muoversi in entrambi i campi artistici, non soltanto come perizia tecnica nel disegno e nella scrittura, ma come comprensione profonda delle possibilità artistiche dei due ambiti costituisce la base comune per la collaborazione tra un artista-scrittore come Baruchello e uno scrittore-grafico come Mari, piattaforma condivisa e indispensabile per la realizzazione di Sogni.

Due forme miste
Alle scritture di Baruchello Chiara Portesine dedica un’interessante e approfondita analisi. Accanto alla composizione verbo-visiva, categoria generica dove vige l’intromissione del linguistico di matrice duchampiana all’interno della superficie pittorica, esiste una scrittura tout court di Baruchello che va indagata nei suoi aspetti letterari.
Si possono individuare tre diverse modalità di scrittura nell’opera di Baruchello tra gli anni Sessanta e Settanta. Vi sono occasioni in cui l’artista segnala l’omologia tra il procedimento visivo e quello letterario: «enuncia la simbiosi tra pittura e scrittura nel descrivere i suoi manufatti artistici come se fossero libri in forma di quadro»[41]. La seconda modalità riguarda l’inserimento di frasi citazioni, parole sulla superficie dei suoi disegni:
la funzione di queste stringhe linguistiche è controversa; pur presentandosi figurativamente come didascalie o come commenti esplicativi dell’azione e del rapporto reciproco tra gli oggetti in sospensione, non sciolgono ma anzi complicano il lavoro di decrittazione dell’osservatore-lettore. La grafia minuta diventa spesso leggibile soltanto avvicinandosi a pochi centimetri dalla tela, e la comprensione grammaticale dei sintagmi non coincide, come si aspetterebbe il fruitore, con una chiarificazione degli elementi iconici[42].
L’ultimo caso è quello dei libri di scrittura romanzesca o para-romanzesca che riprendono alcune modalità del secondo caso, come per esempio «l’uso enfatico del maiuscolo, il plurilinguismo, la prosa matematizzante che ricalca l’impostazione dei teoremi dimostrativi, un comune bacino di fonti intertestuali (da Duchamp a Joyce)»[43]. Assai significativo è «il caso di Sentito vivere (1978), un libro di «quadri ‘a parole’ in cui l’artista “riscrive” i contenuti di alcuni oggetti artistici»[44].
Le conclusioni cui arriva Portesine nell’analisi del letterario in Baruchello sono esaurienti e molto utili anche per l’analisi di In Store, perché suggeriscono, utilizzando le stesse parole dell’artista, una lettura bilaterale delle composizioni verbo-visive, che costituisce anche la base di partenza di Sogni:
Le iscrizioni disseminate nei disegni non devono essere interpretate alla stregua di calligrammi o riempitivi ornamentali, ma piuttosto come affioramenti locali di un discorso sul linguaggio e sulla comunicazione verbale che attraversa e struttura i presupposti di qualsiasi esperienza artistica. Del resto, come sentenzia lo stesso Baruchello, «il quadro è una macchina da farsi leggere o una macchina per leggere» (Baruchello, 1978), e l’oggetto di questa decifrazione strabica rimane sempre e soltanto il reale[45].
È lo stesso Baruchello a fornire alcune indicazioni di lettura per la sua opera, che possono essere utili anche nel caso dell’analisi complessiva di Sogni[46]. L’artista ripete e ritornaossessivamente su alcune invarianti che costruiscono stratificazioni, una sorta di air de famille o di effetto palinsesto:
vi siete resi conto da un pezzo che si può cioè riscrivere continuamente lo stesso testo, dipingere continuamente lo stesso quadro finché tutte le pagine, tutti i dipinti messi uno accanto all’altro o uno sopra all’altro vengano a formare qualcosa di più della semplice somma delle singole quantità di organi, mucose, strumenti di tortura, brandelli di macchine, cortei con striscione eccetera che ne furono gli ingredienti di partenza. Ma intanto va bene così: riscrivere o ridisegnare daccapo il proprio museo delle ossessioni, ogni giorno, ogni volta che si vuole sulla scorta dell’ultimo umore o della più recente traccia onirica che ci/vi convenga[47].
Se per Baruchello i disegni che si ripetono nel palinsesto della sua opera costituiscono il museo delle ossessioni, di cui va fatta esperienza quotidiana, allo stesso modo per Mari le ossessioni e le ripetizioni formano l’assedio che i demoni assicurano ai suoi scrittori preferiti e anche a se stesso:
Scrittori al servizio della propria nevrosi, pronti ad assecondarla e a celebrarla: scrittori che hanno nell’ossessione non solo il tema principale (e insieme il metodo con cui anche la più semplice esperienza è assottigliata in pasta sfoglia verbale), ma l’ispirazione stessa, sì che nessuna interpretazione mi pare fuorviante come quella che ne riconduce l’opera a un intento salvifico, quasi la scrittura sia solo un surrogato della pratica psicoanalitica. Al contrario, è proprio scrivendo che essi finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano, finché, posseduti, essi diventano quegli stessi demoni[48].
Entrambi gli artisti utilizzano forme miste di pittura e scrittura. Baruchello ne fa addirittura un elemento chiave del suo gioco artistico, le scritture piccolissime così come i disegni minuti chiedono di avvicinarsi molto alla pagina, le legende servono per indicare una prospettiva dall’alto tipica delle planimetrie o delle assonometrie, oppure illudono di avvicinarsi a una spiegazione, di trovare la soluzione degli enigmi. Mari lo fa in alcune sue prove esemplari, variando le combinazioni possibili[49]: Filologia dell’anfibio con disegni e narrazione dello stesso autore; Asterusher, una scrittura autobiografica composta dalle citazioni dalle proprie opere precedenti e dalle fotografie di Francesco Pernigo; Leggenda privata, una confessione autobiografica con foto di famiglia o fatte ad hoc; Milano fantasma scrittura con illustrazioni a colori di Velasco Vitali; e in ultimo, La morte attende vittime, volume di raccolta dei propri disegni e fumetti che l’hanno accompagnato sin da bambino e che ha già in parte pubblicato trasponendo i capolavori della letteratura[50].
Forme miste già sperimentate singolarmente da entrambi gli autori e, in Sogni, ripresentate con una nuova messa in opera che spiazza il lettore e l’osservatore e li rilancia da una sezione all’altra, pone interrogativi profondi che restano aperti ma che vanno vissuti attraverso l’esperienza del gioco e dell’arte.
Le due arti si realizzano in forma biunivoca anche nel percorso dei due autori. Nella prima fase della sua opera Baruchello è l’artista del Gruppo 63 e grazie alla cosiddetta “funzione Baruchello” si individua una omologia di percorso tra la sua arte e la scrittura della neoavanguardia. Allo stesso modo Mari, seppure alla fine del suo percorso, ritrova l’importanza della doppia componente artistica e la pratica con maggiore distensione, mescolando grafica, disegno, fotografia nelle sue opere che assumono forme miste. Baruchello sin dall’inizio ispira gli scrittori e ne comprende le logiche interne più profonde proprio scardinandole, Mari ha sempre pensato e vissuto da artista senza farne pratica pubblica e solo negli ultimi anni esce fuori allo scoperto, manifestando esplicitamente anche la sua passione artistica.
Il doppio talento di entrambi gli autori di Sogni ha permesso di realizzare una forma mista tra scrittura e disegno, tra leggenda e legende, e tra due carriere che si sono intrecciate in questo libro d’artista che come tale resterà un unicum nelle loro vite.
[1] Si tratta della prima personale di Baruchello al Palazzo Belgioioso di Milano, organizzata dalla galleria Massimo De Carlo dal 26.01.2017 al 18.03.2017.
[2] L’esposizione di Baruchello a Londra, al Rawen Raw, dal 29.09. 2017 al 3 .12.2017, è stata curata da Luca Cerizza.
[3] La chiave di lettura principale di Leggenda privata è rivelata dallo stesso autore al suo intervistatore, Carlo Mazza Galanti: «In quel libro racconto della mia doppiezza congenita, dovuta all’incontro tra due patrimoni genetici, due mondi, due caratteri completamente diversi; essendo nato da due genitori che non dovevano incontrarsi, due genitori il cui amplesso è stato mostruoso, io stesso per definizione sono un mostro», Carlo Mazza Galanti (a cura di), Scuola di demoni Conversazioni con Michele Mari e Walter Siti, Minimum Fax, Roma 2019, pp. 58. Un’ulteriore declinazione della doppiezza di sé si ritrova nella trasfigurazione del mollusco e della conchiglia: «proprio perché viscido, molle e indifeso, il mollusco deve secernere i calcari che diventano una struttura bellissima e che sono la sua gloria, la sua forza. Per me sono i libri, la mia cultura, le mie sovrastrutture. Lo stesso può valere nei confronti delle pulsioni sessuali: più hai pulsioni sconvenienti, indecenti, più apparentemente all’esterno fai il petrarchista, il teorico d’amore. Anche quello che dicevo prima dei due Borges riguarda da vicino il tema del doppio: l’io che scrive e quello che viene raccontato», Ivi, p. 59.
[4] Il termine schediasma (dal greco σχεδίασμα: ciò che è fatto, scritto, detto estemporaneamente, con trascuratezza) era molto in voga tra ‘600 e ‘700 nel senso di improvvisazione, cosa estemporanea realizzata in fretta. Il testo Oniroschediasmi è stato ripubblicato e incluso nell’ultima raccolta di racconti di Mari, Le maestose rovine di Sferopoli (Einaudi, Torino 2021, pp. 120-140), modificandone radicalmente la lettura. Cfr. Carlo Mazza Galanti, Le variazioni di Sferopoli. Gli esercizi di stile dell’ultimo libro di Michele Mari, 29.09.2021; Riccardo Donati, Capriccio con figure e tracce di leggenda, «Antinomie», 31.10.2021.
[5] Cfr. Antonella Falco, I “Sogni” di Mari e Baruchello, «Nazione indiana», 08.05.2017; Andrea Cortellessa, Michele Mari, il ritorno del Demone, in «doppiozero», 28 giugno 2017, Id., Iconologia del demone. Michele Mari a parole e per immagini, «Studium», n. 1, 2021, pp. 37-63.
[6] Sul doppio talento cfr. Michele Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Raffaello Cortina editore, Milano 2012; Id., Al di là dei limiti della scrittura. Testo e immagine nel doppio talento, in M. Cometa, D. Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione, Quodlibet, Roma 2014, pp. 7-38.
[7] Michele Mari, Oniroschediasmi, in G. Baruchello, M. Mari, Sogni, Humboldt Books, Milano 2017, pp. 5-21, qui p. 12.
[8] Ivi,p. 14.
[9] Ivi, p. 20.
[10] Ivi, p. 11.
[11] Ivi, p. 16.
[12] Ivi, pp. 11-12.
[13] Ivi, p. 13.
[14] Ivi, p. 14.
[15] Nei due puzzle inseriti nella seconda versione di Asterusher, dopo l’uscita di Leggenda privata, i due puzzle dei genitori sono emblematici in tal senso: in quello del padre alle spalle sono rappresentati il becco d’anatra e la mela, mentre in quello della madre si vedono sugli scaffali i dorsi dei volumi: Il palloncino rosso, L’uovo e la gallina, La mela e la farfalla nelle diverse traduzioni. (Asterusher, 2019, pp. 108-109). Mi permetto di rimandare al mio: R. Coglitore, Un’autobiografia in forma di curriculum, «LEA», n. 8, 2019, pp. 353-371.
[16] Michele Mari, Oniroschediasmi, op. cit., p. 15.
[17] Ibidem.
[18] Ivi, p. 17.
[19] Ibidem.
[20] Ivi, p. 18.
[21] La casa dei sogni è al centro di molte opere di Mari, qui basti citare Verderame, Einaudi, Torino, 2007; Fantasmagonia, Einaudi, Torino, 2012; Asterusher. Autobiografia per feticci, Corraini edizioni, Mantova, 2015; Leggenda privata Einaudi, Torino, 2017.
[22] Michele Mari, Oniroschediasmi, op. cit., p. 9.
[23] Ivi, p. 16.
[24] Ivi, p. 18.
[25] Ivi, p. 19.
[26] Ivi, p. 18.
[27] Ivi, p. 10.
[28] Ivi, p. 20.
[29] Ivi, pp. 18-19.
[30] Cfr. Michele Mari, Filologia dell’anfibio, Bompiani, Milano, 1995 e ora Einaudi, Torino, 2019.
[31] Ivi, p. 19.
[32] Cfr. Michele Cometa, Roberta Coglitore (a cura di), Fototesti. Letteratura e cultura visuale, Roma Quodlibet, 2016; Giuseppe Carrara, Storie a vista. Retoriche e poetiche del fototesto, Milano, Mimesis, 2020.
[33] Michele Mari, Oniroschediasmi, op. cit., p. 11.
[34] B. Sebaste, Ogni cosa c’entra con ogni cosa. Conversazione con Gianfranco Baruchello : «Io ho lavorato molto sul sogno, ho dieci volumi di sogni descritti e disegnati e su quei gruppi di immagini tratte da sogni non ho più voglia di tornare. Ho fatto un sogno l’altra notte, parlavo con sei persone e di ognuna vedevo la faccia molto precisa; poi mi sono svegliato e mi sono chiesto come sia possibile che veda facce così precise e diverse di qualcuno che non so chi sia. Molti personaggi hanno una faccia così, un’immagine che non sai da dove viene», novembre 2010.
[35] Paolo Fabbri, Le formule e il fiume, in Id. (a cura di), Gianfranco Baruchello: flussi, pieghe, pensieri in bocca, Roma, 9 maggio- 29 giugno 2007, Skira, Milano, 2007, pp. 14-21, ora in https://www.paolofabbri.it/saggi/baruchello/
[36] È stato Umberto Eco a ribadire la funzione baruchelliana nelle manifestazioni di a-narratività del gruppo ’63 (Postille a Il nome della rosa, «Alfabeta», n. 49, giugno 1983). Cfr. Chiara Portesine, La “funzione-Baruchello” nella poesia della Neoavanguardia: il problema delle scritture, tra sintassi disegnativa e statuto del personaggio, «pianob. Arti e culture visive» 5.1, 2020, pp. 132-160.
[37] Tommaso Trini, Introduzione a Baruchello: tradizione orale e arte popolare in una pittura d’avanguardia, Galleria Schwarz, Milano, 1975 p. 20-21.
[38] Andrea Cortellessa sottolinea il principio cartografico, anzi planimetrico dell’immaginario che domina i disegni di Baruchello – quella che Manganelli chiamava euforia telescopica – e che giustificherebbe le immaginarie mete di viaggi, come suggerito dal tema degli atlanti visibili, nome della collana dove il volume è pubblicato. Cfr. Andrea Cortellessa, Gianfranco Baruchello, i paesaggi invisibili, «doppiozero», 5 marzo 2017.
[39] Cfr. Michele Cometa, La scrittura delle immagini, Raffello Cortina, Milano 2012.
[40] Chiara Portesine, op. cit., p. 150.
[41] Ivi, p. 151.
[42] Ivi, p. 152.
[43] Ivi, p. 153.
[44] Ivi, p. 154.
[45] Ivi, p. 156.
[46] Nell’opera di Baruchello l’architettura è spesso presente e, come sostiene Carla Subrizi, viene pensata come «una teoria dello spazio intimo e della memoria: i luoghi sono mentali, hanno origine nell’inconscio e nel sogno. Al centro delle stanze de L’altra casa, Baruchello colloca poi un tappeto («l’altra casa ha sette stanze con tappeti») che ritaglia uno spazio nello spazio, uno spazio simbolico all’interno dello spazio quotidiano» (Carla Subrizi, Verifica incerta, in A. Bonito Oliva, C. Subrizi (a cura di), Certe idee, catalogo della mostra, Roma 6 dicembre 2011- 4 marzo 2012, Electa Mondadori, Milano, 2011, p. 86). Per Baruchello la casa è la dimensione della memoria e dell’inconscio, è la rappresentazione dei luoghi dimenticati ma che permangono. Nell’opera di Baruchello ritroviamo modelli di casa nomade realizzate in forma tridimensionale Casa di canne e veli (1974-1975) o Casa in fil di ferro (1975-1982) e disegni sulla casa come per esempio la serie L’altra casa1 GRO, o L’altra casa2 HBL, L’altra casa3 REW o ancora Intorno ad alcuni aspetti del rapporto di Marcel Duchamp con lo spazio detto comunemente stanza (1979). L’abitare e la casa sono tappe importanti della sua riflessione che culmina nel volume del 1979 L’altra Casa.
[47] Gianfranco Baruchello, Sentito vivere, G7 Studio, Bologna, 1978.
[48] Michele Mari, I demoni e la pasta sfoglia, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 24.
[49] Mi permetto di rimandare al mio: Sguardo autobiografico e dispositivi iconotestuali in Michele Mari, «Arabeschi», 16, 2020, pp. 103-114.
[50] Michele Mari, Filologia dell’anfibio. Diario militare, Bompiani, Milano 1995, poi Laterza, Roma-Bari 2009 e ora Einaudi, Torino 2019; I sepolcri illustrati, Portofranco, Torino, 2000 e Il visconte dimezzato, «Il caffè illustrato», 2001-2004; con Velasco Vitali, Milano fantasma EDT, Milano 2008; con Francesco Pernigo, Asterusher. Autobiografia per feticci, Corraini eidizioni, Mantova 2015 e nuova edizione accresciuta 2019; Leggenda privata, Einaudi, Torino 2018, La morte attende vittime, Nero Books, Roma 2019.