L’indisputabile capolavoro di Adolfo Wildt è il celebre busto di Mussolini, già riadattato dall’autore in varie versioni e materiali e perfezionato in via definitiva dai partigiani che il 25 aprile 1945 gli infersero tre colpi di piccone lasciando vistose fenditure sul bronzo inteso a rendere aere perennius il futuro responsabile della distruzione morale e materiale del suo paese. Fenditure che, dall’Olimpo posticcio in cui allignava ormai tra rovina e vergogna, lo reimmettono nella Storia da cui proveniva e in cui, lì sì, a sfregio suo e purtroppo anche di chi l’ha combattuto, è destinato a restare. Prima di quelle picconate, l’opera era incompleta.
Quasi impossibile, purtroppo, sostenere quanto sopra senza produrre un voluminoso dossier di pezze d’appoggio teoriche di cui si dovrà qui invece fare a meno. Non tanto per quel “capolavoro”, su cui si potrebbe tranquillamente sorvolare. Quanto per il fatto che, agli occhi del senso comune, il gesto dei partigiani occupa un posto variabile sulla scala che va dal vandalismo alla damnatio memoriae (pratica assai in auge al tempo dell’Impero Romano tanto caro al Nostro): un caso banalissimo di “uso”, avrebbe detto Umberto Eco. E, fatto più dirimente ancora, perché chi scrive non sa decidersi se quella completezza ottenuta a picconate penda più dalla parte dell’interpretazione o da quella della creazione propriamente detta, onde il busto definitivo di Wildt sarebbe quello sfregiato, e non certo per le banali associazioni con il Mussolini di Piazzale Loreto o con l’Italia in macerie che Colui Che Aveva Sempre Ragione ha lasciato in eredità ai suoi amministrati.
La prima opzione ha dalla sua molti mallevadori illustri. Diciamo, in grosso, l’intera ermeneutica moderna, ma anche la Scuola di Costanza, quella di Pareyson e di tanti altri. La seconda, invece, se ne va povera e nuda. Ad accomunare i fautori della prima c’è la convinzione, variamente motivata, che fruire di un’opera significa sostanzialmente “riempirne i buchi”, vuoi aggiungendovi conoscenze ulteriori sull’autore, la sua lingua, la sua epoca, vuoi mettendoci a diverso titolo del proprio (Bachtin, per esempio: il senso non si compie fino quando non è ricevuto dal fruitore, che nel farlo inevitabilmente lo trasforma, laddove “inevitabilmente” non coincide con uno sfiguramento o una cancellazione ma con il concreto incontro storico tra due coscienze). Per difendere la seconda, invece, non scenderebbe in campo, a dispetto del suo nome, nemmeno la Decostruzione, né certo ce la si può cavare via facili analogie col Dadaismo, i baffi alla Gioconda, o la circostanza che Wildt sia stato il maestro di Fontana, gran tagliatore e bucherellatore di tele. L’idea che l’opera (in questo unico caso? O è possibile ricavarne un paradigma? Ecco il problema) si completi, e non solo si interpreti, in qualche modo svisandola, sfondandola, aprendo e non colmando lacune, non ha forse dalla sua nemmeno il detto sempre un po’ insondabile di Benjamin, “la critica è mortificazione delle opere”, giacché anche lì pur sempre di critica si tratta.
Inutile attardarsi oltre. A chiunque legge sarà palese ormai che si intende qui seguire la seconda via. Che non è poi una via, dal momento che nemmeno un abbozzo di sentiero è mai stato tracciato. Tre indizi arbitrariamente limitati a tre ci faranno da bussola. Il primo è l’opera e il coinvolgimento passionale. Chi ha detto che dev’essere solo di ordine amoroso? Il secondo, molto più latitudinario, il rapporto tra opera, essere e violenza. Non sono forse quelle picconate un gesto che porta all’essere, che letteralmente fa venire alla presenza un’opera più bella di quella che Wildt aveva progettato ed eseguito? Infine, il nesso tra arte e Storia, non inteso semplicemente come studio del contesto di creazione o di ricezione, ma come rapporto di forza tra due istanze che, teste Adorno, non possono fare a meno l’una dell’altra non benché ma proprio perché non possono fare a meno di lottare tra di loro. Il busto perfezionato dal piccone brandito da chi, se potesse, lo userebbe sul modello, è un esempio perfetto dell’atteggiamento che sempre bisognerebbe ponderare l’eventualità di assumere, in ermeneutica e in estetica, almeno per chi crede che infinitamente più fruttuoso è vedere, come diceva Peter Szondi, la storia nelle opere d’arte, piuttosto che le opere d’arte nella storia.
Odio, violenza, Storia, e un atto di creazione ulteriore, di creazione dopo la creazione, non passibile di restauro che non sia un pudibondo ripristino. E che se spinto fino in fondo – ma è chiaro che quel giorno i partigiani avevano anche altro da fare – sarebbe diventato a rigore un atto di de-creazione, di distruzione pura e semplice. Caso ha voluto invece che il bronzo abbia resistito. Che compiti più urgenti chiamavano. Che l’opera, chi scrive ignora colpevolmente attraverso quali vie, sia giunta fino a noi invece di essere gettata via o rifusa come “rovinata”, e ci appaia oggi più ricca di quella concepita dal suo autore.
Ratio facilis è che ancora partecipiamo di quell’odio. A un fascista non farà lo stesso effetto. Al massimo se ne gioverà per far la vittima. Chi scrive pensa invece che quello fosse il giusto atto da fare, politicamente ed esteticamente – non si dice artisticamente perché ciò comporterebbe infinite dispute sul concetto di intenzione, in quanto è sempre possibile godere alla vista di un oggetto naturale o anche di manufatto di cui è difficile determinare il Kunstwollen, vedi ad esempio le rovine, mentre è impossibile chiamare artistico un manufatto laddove questo non sia palesemente scaturito da una techne impiegata secondo volontà, conscia o inconscia in questo caso non importa. Da cui il problema: il busto ammalorato del Duce ci si offre oggi come oggetto di contemplazione disinteressata, che in Kant vuol dire propriamente indifferente, per i propri interessi vitali, all’esistenza o alla non esistenza dell’oggetto? Se fosse il busto di un altro, lo troveremmo bello lo stesso? Come tenersi lontano, poi, dalle secche della psicologia? Lo avresti fatto, tu, un gesto del genere? Anche a volersi inibire ogni impossibile identificazione con chi lo ha compiuto – anni di distruzione, crudeltà, innocenti sacrificati, compagni rastrellati, torturati, uccisi – cosa avrebbe prevalso, l’artelatria di matrice storicista onde si conserva tutto, tanto più che il busto era già bello, o la convinzione che non ci siano zone franche, e che nulla resta fuori dal Polemos padre di ogni cosa, si tratti di un’opera ben realizzata o del corpo di un grande filosofo come Gentile?
Trattandosi di secche, non resta che tenersene lontano. Anche perché quello che qui interessa è la descrizione più esatta possibile del processo che ha portato quell’opera, o quella versione dell’opera, davanti ai nostri occhi. Qualcuno ha compiuto un atto esteticamente intenzionato (esaltare un dittatore, dotandolo di una forza quintessenziale che il modello non ha mai avuto e non avrebbe mai potuto avere), mettendo in quell’atto atto tutte le risorse della sua perizia stilistica. Qualcun altro, che certo non confondeva feticisticamente il dittatore e la sua effigie, ha compiuto un gesto plastico di modificazione dell’opera (che potendo sarebbe arrivato al totale annientamento), altrettanto esteticamente intenzionato, anche se di volontà opposta a quella del suo primo autore. Atto violento, senza dubbio. Ma quello di Wildt lo era di meno? Non recava anch’esso violenza a chi da quel busto e da colui che vi era effigiato si sentiva non solo oltraggiato ma anche minacciato nella sua stessa esistenza in questa vita? Della bellezza, povero ostaggio tra il comfort e la volontà di potenza, discuteremo un’altra volta. Importa ora insistere sulla similarità dei mezzi. Un referente da descrivere, cioè da interpretare. Un materiale, il bronzo – se le picconate si fossero abbattute su marmo, gesso o ceramica, l’esito sarebbe stato diverso. Un giudizio, infine, che non è mai stato, in estrema istanza, “estetico” nel senso più diffusamente inteso. Né da parte di Wildt, trovasse o non trovasse Mussolini bello, ma sì la sua mimesis. Né da parte dei partigiani, che si sono accaniti sulla sua riproduzione in quanto trovavano insostenibile il soggetto, non la sua mimesis. In entrambi i casi, quel giudizio era politico, laddove “politico” va inteso come esistenziale. O lui, e dunque noi. Oppure o lui o noi.
Eppure, nessuno di quei due gesti, che si contrappongono e si completano nel loro tendere agli estremi, avrebbe potuto darsi senza la mediazione dell’aisthesis, che prima di ogni altra cosa è reazione vitale del soggetto, nella sua propria presenza, al mondo per come esso gli si mostra, e non mera opposizione bello/brutto. Stessi mezzi, la manipolazione senza condizioni della materia: come settanta anni prima ci fu chi filosofò col martello, trent’anni dopo ci fu chi fece arte con la fiamma ossidrica o, faute de mieux, con il piccone. Scopi simbolici opposti, esaltazione o esecrazione. E un risultato che non può essere definito la sintesi ma la compresenza inconciliabile di due volontà in aperta opposizione tra loro, nello stesso oggetto in quanto fatto, non mero dato. Se è a questo risultato che abbiamo attribuito la palma, più che della “bellezza”, della compiutezza estetica, è perché Mussolini non è mai stato più Mussolini di così. In nessun’altra occasione egli ha accolto in sé tutto quello che l’animale umano poteva fare di lui. Altro che alternativa ontologica tra violenza e interpretazione. Non c’era che la violenza a poterlo raffigurare – contraddizione in termini per chi intenda ancora attenersi al principio rassicurante che l’interprete non usa violenza e viceversa. Se una tale antinomia valga solo in casi estremi o non sia invece la norma, di volta in volta diversamente addomesticata, di una prerogativa insita nella specie umana, è questione che non può essere risolta qui, ma solo assunta come ipotesi, da considerarsi con il ciglio asciutto di chi non chiede sconti. Voglio/non voglio che questa cosa esista: non è così che sempre procede l’arte? Non c’è inevitabilmente in essa un quanto indeterminato di iconoclastia?
Condizione indispensabile perché ciò sia accaduto e accada è la Storia. Una Storia restituita alla sua radicale contingenza, scevra di ogni teleologia; eppure non un banale ammasso di accidenti. Nel caso nostro: una dittatura; la piaggeria magari anche sincera di uno scultore; l’ostilità irriducibile di chi di quella dittatura voleva cancellare ogni vestigia… Catena di eventi motivati, anche se non necessitati a priori. E non si nutra qui troppo timore per lo spauracchio dell’a posteriori, da non confondersi mai e poi mai con il senno di poi. Non doveva obbligatoriamente andare così. Ma poiché è andata così, il busto spicconato il 25 aprile 1945 è dotato di una Gestalt non arbitraria, più compiuta dell’“originale”, perché collettore di più Storia di quanta avrebbe potuto porgercene la volontà del primo esecutore. Grazie a quell’anelito di distruzione, riuscita a metà per la bruta, accidentale indisponibilità della materia, possiamo vedere non solo chi siamo stati, ma anche i modi in cui avremmo potuto essere. Nel tempo, certo, ma al tempo stesso nello stesso tempo. Senza che ciò, beninteso, autorizzi ad alcun peloso pluralismo, irenismo, accreditamento reciproco tra predilezioni opposte. Solo la più mortale delle lotte può far balenare la scintilla che ci permette di cogliere in un lampo due possibilità di essere, più che rivali, fratricide.
Nata gemella omozigote della Storia, l’arte la nega in quanto la perfora nelle sue occasioni non ancora né mai o mai del tutto realizzate. Qualunque opera, diceva sempre Adorno, tende al suo fondo alla distruzione di ogni altra. Naturalmente, pii museificatori di tutto quanto abbia “valore”, non glielo permettiamo. Al costo altissimo di menomarla, col nostro perbenismo peraltro inevitabile, della sua più losca ambizione e insieme della sua promessa più paradisiaca. Firmare l’essere. Fermare il divenire, a meno che con ciò non si intenda il noiosissimo, scevro di rischi avvicendarsi degli interpreti. Fare piazza pulita di tutto ciò che, per amore di quello che qui e ora si vuole, non avrebbe mai dovuto esistere. L’opera è il giorno del giudizio delle altre. E al tempo stesso, dunque, esiste per essere distrutta. Tra le tante cose di cui dobbiamo essere grati al 25 aprile, c’è anche l’averci fatto intravedere, per poi lasciarla subito risommergere dal comprensibile terror panico di ammetterla, questa verità.
