Serpi di Laocoonte e raggi avvelenati

È uscito presso le Edizioni di Storia e Letteratura Anacronismi e didascalie. Prose varie 1913-1916 (XXXII-302 pp., € 28), ricco volume che per la prima volta raccoglie in un’edizione completa e testualmente affidabile la fitta produzione giornalistica assommata nei suoi ultimi anni di vita da Guido Gozzano. Il ricco commento del curatore Marco Maggi non manca di attrarre l’attenzione sulla, per il tempo inconsueta, preparazione “tecnica” degli articoli dal poeta dedicati alla fotografia e al cinema (per il quale, a dispetto della sufficienza qui ostentata, Gozzano scrisse anche una sceneggiatura su San Francesco d’Assisi: se ne veda l’edizione a cura di Mariarosa Masoero, Edizioni dell’Orso 1997). Dal volume, per la cortesia dell’editore e del curatore, presentiamo qui due brani di Gozzano (rispettivamente usciti su «la donna», 20 gennaio 1915 e su un «numero speciale dedicato alla cinematografia» dalla medesima testata il 5 maggio 1916), preceduti da una presentazione scritta da Marco Maggi appositamente per «Antinomie».

A.C.

Appartengono alla fase estrema della produzione gozzaniana (1915-1916) due prose dedicate alle nuove immagini tecniche, la fotografia e il cinematografo. La prima, «L’arte nata da un raggio e da un veleno!» (titolo desunto da Boito), rovescia il pregiudizio estetico, risalente a Baudelaire, contro l’invenzione di Daguerre; la seconda, Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte, liquida invece le ambizioni d’arte del cinematografo, «industria di celluloide».

Per comprendere i due opposti giudizi occorre risalire a una prosa di poco anteriore, intitolata Il fotografo dei Tre Magi. Gozzano vi inscena l’incontro con un ipotetico pittore di nome Thomas Leave, incaricato da un munifico editore statunitense di fare sopralluoghi sui luoghi della vita di Gesù e documentarli tramite fotografie, sulle quali basare in seguito le illustrazioni di un libro per l’infanzia. Nei dialoghi con il narratore, il pittore dal nome parlante (Thomas allude ovviamente al discepolo incredulo) oppone la verità storica dei Magi, accessibile grazie all’archeologia e allo studio scientifico del passato, all’anacronismo della tradizione iconografica, che fa di questi personaggi «l’invariabile […] re medievale, un principe della Rinascenza, un sultano di Costantinopoli». «Nulla è mutato» in quell’Oriente, asserisce il pittore, che pertanto allestisce le scene dei bozzetti da realizzarsi con la fotocamera adoperando gli scenari autentici e assoldando comparse sul posto. A quest’ossessione per l’esattezza storica, il narratore oppone i «poetici errori storici ed etnici» di una tradizione iconografica che va dall’arte tardoantica ai Preraffaeliti, all’interno della quale l’episodio dell’adorazione dei Magi viene via via inscenato con costumi e sfondi che mutano col mutare delle epoche: in un sarcofago ravennate i sapienti dell’Oriente appaiono col breve saio chiuso alla cintola col quale all’epoca vengono connotati tutti i «barbari»; nel Medioevo essi indossano «il lungo e pesante robone di velluto e il cappello conico e leggendario dell’astrologo e del negromante»; in età rinascimentale, a seguito dei viaggi di esplorazione e scoperta, uno tra loro, Gaspar, assume tratti africani… Tutto muta nella realtà, e con essa mutano le rappresentazioni; anche nell’apparentemente immutabile Oriente, dove il narratore, argutamente, si aspetta che da un momento all’altro appaia, tra i figuranti assoldati da Leave, «una miss con velo e con casco, moderna affigliata di Cook». Come è stato opportunamente osservato (L. E. Arrigoni, L’Oriente di Guido Gozzano: dall’immagine dell’India all’India come immagine. Appunti sul paratesto fotografico, «Rivista di letteratura italiana», 2010, XXVIII, 2, p. 25-40: 32), a proposito della fotografia «Gozzano non critica tanto il ruolo dell’immagine in sé, bensì la piattezza della funzione documentaria»; piattezza che è al contrario scongiurata dall’anacronismo, in virtù della sovrapposizione di piani temporali che lo caratterizza.

«L’arte nata da un raggio e da un veleno!» si colloca sulla medesima linea interpretativa. Vale la pena osservare che si tratta di un fototesto, accompagnato da clichés di Sciutto e Bosella, i rinomati fotografi delle celebrità, dai quali lo stesso Gozzano si era fatto ritrarre qualche anno prima. In questo scritto Gozzano rivendica senza indecisioni la natura artistica della fotografia, a condizione che, com’è il caso degli artefici di cui si parla nell’articolo, essa si affranchi «da ogni materialità meccanica come lo spirito si affranca dalla materia»; poste queste condizioni, la fotografia può competere con l’incisione e addirittura con la pittura.

Affermazioni simili sembrerebbero riportare Gozzano nell’alveo del pittorialismo a quell’epoca ormai al tramonto; a ben guardare, però, l’affinità con le belle arti della tradizione non è che la premessa a un raffinato gioco di anacronismi, all’interno del quale l’autore mette in scena la sovrapposizione tra soggetti e tecniche contemporanei, racchiusi entro cornici d’epoca, ora capricciosamente rococò, ora austeramente stile Impero. Correttamente è stato scritto (E. Ajello, Il racconto delle immagini. La fotografia nella modernità letteraria, Pisa, Edizioni ETS, 2008, p. 81) che Gozzano riconosce alla fotografia “una particolare capacità evocativa”; a condizione di precisare che tale qualità consiste nella produzione di anacronismi, forse l’epifania più incisiva della poetica delle «cose stridule».

Sullo stesso metro va misurato l’ambivalente giudizio sul cinematografo contenuto ne Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte. Gianni Rondolino ha scritto che, nelle pagine dedicate al cinema, Gozzano si è limitato a guardare «davanti alla macchina da presa, ciò che avveniva nei teatri di posa, e poi ciò che avveniva nelle sale cinematografiche», senza prestare attenzione al linguaggio e al messaggio della pellicola («La Musa paziente osservatrice». Gozzano e il cinema, in Guido Gozzano, I giorni, le opere, Firenze, Olschki, 1985, pp. 267-280: p. 279). Il nastro di celluloide contiene in realtà un’attenta lettura del segno cinematografico, dalla quale dipende il rifiuto di attribuirgli lo statuto di arte. Il cinegiornale «sunteggia in modo più eloquente di dieci quotidiani» le vicende dell’attualità «vicine e lontane»; il romanzo d’appendice che mai si sarebbe letto «in mezz’ora vi sfila vertiginoso dinnanzi» nell’adattamento per lo schermo, e quasi riscatta il giudizio negativo sull’autore; attraverso i panoramas du monde proiettati nelle sale, «con l’importo di una consumazione andate in Cina per l’incoronazione dell’Imperatrice, o passate per l’Africa Centrale per le cacce di Roosevelt». Il «cartiglio vertiginoso» comprime lo spazio e il tempo, al pari, aggiungiamo, di dispositivi coevi come le esposizioni universali e i romanzi di fantascienza (H. G. Wells); di qui il rifiuto di attribuirgli lo statuto di opera d’arte, perché l’arte è sì, per Gozzano, compressione di tempi e spazi, ma anacronistica e anatopistica, non lineare e non orientata. Ciò che il poeta non riesce a immaginare è la produttività anacronistica della pellicola (cfr. Time Machine. Cinematic Temporalities, a cura di Antonio Somaini et al., Milano, Skira, 2020), quella, per esempio, dei film di Aleksandr Sokurov, nel piano-sequenza di Arca russa, il cui protagonista è ombra tra le ombre come certi personaggi delle rievocazioni storiche gozzaniane, o nel time-lapse di Francofonia.

Marco Maggi

Ritratto fotografico di Guido Gozzano con passepartout recante l’iscrizione «Sciutto | Genova» e la dedica manoscritta: «A Carlo. | Guido | S. Francesco d’Albaro. 10.2.908» (Archivio del Centro di Studi di Letteratura Italiana in Piemonte «Guido Gozzano-Cesare Pavese» dell’Università di Torino, AG XIII 1-4.

«L’arte nata da un raggio e da un veleno!» (A proposito della Mostra d’arte fotografica dei signori Sciutto e Bosella di Genova)

Quando Arrigo Boito, molti anni or sono, scriveva quest’endecasillabo armonioso non pensava certo quanta profezia fosse nelle sue parole. Oggi la profezia è avverata in un cimento nobilissimo, in una vittoria ormai decretata anche dai critici più togati ai due valorosi campioni dell’arte fotografica: Sciutto e Bosella.

Da anni il loro nome è tra i primi che la moda addita al gran pubblico: oggi non la moda deve additarli, ma l’arte. Ne sono degni. Chi ha seguìto l’evolversi della loro produzione può affermare quale sforzo continuo verso il meglio sia la carriera di questi due artisti, quale saggio lodevole d’ansia e d’incontentabilità si possa ricostrurre risalendo soltanto a dieci, quindici anni or sono.

Tutti ricordano, di quell’epoca, la Duse delle tragedie d’annunziane. Il pubblico concorde aveva esclamato che la perfezione massima era raggiunta. Ricordate le personalità che posarono nello studio famoso: tutta la bellezza muliebre, tutta l’intelligenza maschile italiana e internazionale. E il pubblico ammirato dinanzi ai quadri di saggio esclamava ancora una volta «la perfezione è raggiunta; non si può fare di più». Non era vero. Un anno, sei mesi dopo, l’opera era superata. Un nuovo stile, un nuovo orientamento si rivelava negli artisti incontentabili. E così d’anno in anno, fino ad oggi, la loro carriera fu, si può dire, un rinnegare metodico della bellezza raggiunta per anelare impazienti verso una bellezza più alta, più libera da tradizioni tecniche e convenzionali. E fu, sopra tutto, una lotta senza tregua contro una nemica acerrima e detestata: la macchina fotografica.

«la donna», XI, 242, 20 gennaio 1915, pp. 12-13, 16

Oggi l’opera di Sciutto e Bosella non ha più nulla di fotografico: s’è affrancata da ogni materialità meccanica come lo spirito si affranca dalla materia. Certi ritratti di dama gareggiano così profondamente, in leggiadria poetica, con le incisioni del 1700 che si potrebbero chiudere in disegni dell’epoca, ovali a ghirlandette, a nodi-amour e sottoscriverli in corsivo con 1a dicitura di prammatica: «Quefto è il ritratto dell’Ornatiffima Marchefa Elifa di Mafferano, efeguito ecc. ecc.». E la fotografia così disposta (sappiamo quanto ogni fotografia, anche bellissima, sia intollerabile in un salotto) sarebbe tollerabilissima nel più elegante salotto settecentesco.

Altri saggi, figure d’uomo segnatamente, rievocano a tal segno le incisioni dell’Impero che si potrebbero chiudere in una larga cornice di semplice legno nero e appendere in una galleria gentilizia, con le altre migliori di cent’anni fa, tra le effigi di Byron e di Lamartine. Altre rievocazioni non fanno pensare a stampe rare, ma a quadri famosi, alle tele dei maestri grandi e sopportano l’ingrandimento (pensate: l’ingrandimento: la delizia riservata fino a ieri ai salotti atroci e alle portinerie!), sopportano l’ingrandimento che, completato da una vecchia cornice d’oro pesante, può figurare, senza stridori, in una sala Rinascimento.

Tanto ha potuto l’arte appassionata sulla macchina senz’anima! Intendiamoci. Questo «ritornare all’antico» non è uno snob, una maniera ottenuta con i lenocinii di forma (sfocamenti, ritocchi, carte granulate, ecc.) che offre la tecnica e la chimica fotografica moderna. Lo stile – l’ars poetica, stavo per dire! – di questi artisti si è educato, affinato sui modelli migliori, con un lungo lavoro di assimilazione e di eliminazione. E dalla sintesi n’è derivato il buon gusto – (il Buon Gusto di Leonardo, nel suo Trattato della pittura, con b e g maiuscole…) – che informa la Mostra fotografica offerta ultimamente in Torino dalla Società Promotrice. Non c’è opera bella senza innato spirito d’arte. Ma non c’è arte senza coltura. E lo Sciutto ed il Bosella hanno studiato, meditato a lungo tutti i maestri di tutti i tempi migliori. Ancora ieri il Bosella mi parlava con entusiasmo commosso della «Lezione d’anatomia» di Rembrandt, mi parlava di certi interni sontuosi del Van Dick, di certi interni casalinghi (e non per questo meno poetici) di Franz Hals, di Holbein, degli altri fiamminghi, dove il protagonista o la protagonista vivono, ci parlano dopo secoli, non soltanto per la maestria con la quale è ritratto il loro volto e la loro persona, ma perché tutto l’ambiente forma intorno una degna cornice: ed è per il gentiluomo genovese una loggia del suo palazzo e dietro un lembo di quel mare, campo di gesta gloriose per il suo casato: è per «il mercante e la sua famiglia» un placido interno fiammingo, dove un negretto gioca con una scimmia, o due servi, in lontananza, salgono una scala reggendo un casco di banane o una balla di spezie…

– Pensi, invece, che cosa è la fotografia moderna! Un signore, una signora che si presentano a noi per la prima volta, quindi sconosciuti, impenetrabili, estranei alla nostra anima d’artista, e domandano non alla sagacia dell’artista, ma all’obiettivo adulatore d’essere fedelmente ritratti con meno anni e meno difetti che si può… E questo in un ambiente che non è il loro, aperto a tutto il pubblico come una sala di aspetto o di lettura. Mancanza assoluta di poesia, di fedeltà, di personalità, che il mestierante, rassegnato, compiace collocando il paziente in quelle date pose e in quelle date luci, sfruttate per la millesima volta, facendo scattare lo schermo e consegnando quindi le negative a ritoccatori che inverniciano, levigano i volti, rimpiccioliscono le bocche, ingrandiscono gli occhi e tolgono le rughe…

«la donna», XI, 242, 20 gennaio 1915, pp. 12-13, 16

Ora questo noi non l’abbiamo fatto, né lo faremo mai, finché ci assista una qualche idealità d’arte. E la nostra arte ha bisogno d’un procedimento analogo a quello che accompagna l’opera del pittore. Anzi, nel caso nostro, occorre uno studio ed una preparazione più tormentosa ancora.

Mi spiego. Il pittore può adunare nella sua tela tutta la somma delle espressioni d’un volto, tutti i motivi principali e secondari che possono concorrere a dar valore completo all’opera sua. Noi no. La macchina solare non può cogliere che l’attimo e basta. Quindi sarebbe la fissità più meccanica e meno artistica se a tutto non si prevedesse con uno studio di preparazione completo. Tutto ciò che non è interpretato prima è irreparabile; il ritocco, le sfumature, ecc. non possono creare ciò che non è stato fatto dall’artista. Di qui la necessità di procedere come gli antichi maestri. Abolire più che si può lo studio e studiare il soggetto a domicilio. Qualche ora di conversazione basta a rivelare all’occhio esperto le linee più caratteristiche d’un volto, le espressioni più salienti, gli atteggiamenti più abituali. Nel frattempo si stabilisce una certa confidenza che toglie al soggetto ogni, anche non voluto, contegno di prammatica, ogni gêne; i muscoli facciali s’allentano sinceramente, le mani s’atteggiano, immemori, con grazia naturale; l’artista, in una parola, giunge ad impedire che il soggetto posi. E degli infiniti motivi colti in quelle poche ore sa ormai quali scegliere e come disporre il protagonista in una sintesi estetica che colga non le linee soltanto – arido cómpito fotografico – ma l’espressione, l’anima, intento primo dell’artista.

Nel frattempo il fotografo moderno è vissuto – sia pur qualche ora – nella casa nel soggetto da risaltare e ha veduto, intuito le cose che sono più in armonia intima con lui. Sarà la gentildonna alla quale conferisce un mistero di nobile eleganza una fuga di sale settecentesche profilantesi in audacia di simmetria e di luci alle sue spalle; o la signora attempata, dalla canizie d’argento, alla quale – se pur si può indulgere col ritocco di qualche ruga – non dovrà mancare il solito angolo semibuio della sala da pranzo e il cestello da lavoro e il cagnolino cinese; o sarà lo studioso a tavolino, in un négligé non esagerato, non troppo di maniera, come già usano i fotografi mestieranti. Non ci sono norme, c’è una norma sola: il buon senso e il buon gusto. Ed al buon gusto soltanto è affidato un criterio che sembra trascurabile ed è invece importantissimo: l’inquadratura d’un ritratto, il taglio esatto che equivale a ciò che sarebbe in poesia il giusto equilibrio d’un poema.

Una fotografia si deve leggere come si legge un quadro: il soggetto in evidenza e gli altri valori degradanti in proporzione e in tonalità, secondo l’importanza, fino a sfumare nella mezz’ombra.

Mezz’ombra, ho detto, e mai nero. II nero e il bianco assoluti, dei quali tanto s’è abusato negli ultimi anni in fotografia, non esistono assolutamente in pittura. Quindi ci si deve astenere dalle luci violente che sono un semplice inganno grossolano dell’obbiettivo; si ottengono con le mezze tinte anche crepuscolari effetti luminosissimi. E poi che parlo di valori le accennerò un soggetto dimenticato o trascurato (o forse temuto) dalla maggior parte dei fotografi: le mani. Le mani che i pittori sommi hanno ricercate e studiate con grande amore, perché significative quanto il volto. Non c’è bisogno di metterle in secondo piano per esagerarne la piccolezza; una mano normale può benissimo figurare accanto al viso, illuminarlo, commentarlo con la sua linea virile o femminea, aggiungere un motivo significativo di grazia o di forza.

I colori? È la questione che mi fanno tutti. È certo un’arme, l’arme prima che noi non abbiamo di fronte alla grande sorella maggiore: la pittura.

Abbiamo i valori. E l’uso, appunto per questa nostra inferiorità di mezzi riconosciuta, ne dev’essere abilissimo, parco, opportuno. Ecco un volto: il solino avrà la nota più chiara, non bianca però, poiché ne risulterebbe un bagliore niveo inverosimile che ridurrebbe una carnagione rosea ad una tinta mulatta. Poi ecco il mento raso, dove però il ritocco non deve abolire la lievissima ombra bluastra della sbarbatura che dà al volto una nota più virile; le guancie pur esse non ritoccate che in qualche punto, perché traspaia viva la fibra, la grana – direi – della carne.

E il naso, ritoccato nella sua lucentezza eccessiva (era un gioco di riflessione leggiera) ma lasciato intatto nelle papille un po’ butterate dal vaiuolo. Ecco, le confesso che se questa fosse l’effigie d’una signora le avrei fatto grazia con un ritocco un po’ più forte…».

Emilio Bosella ride, parla, dice con la sua voce sommessa le cose che poteva forse dire un mastro fiorentino o fiammingo ad un suo novizio ammirato.

E quando m’offre il dono di qualche positiva che più mi piace, io non so davvero e scelgo a caso, forse nemmeno tra le cose migliori. Ma tutte son belle e credo di non far torto ai due artisti presentandone a Donna alcune: troppo poche.

E non voglio far torto alle lettrici commentando le belle prove. Ecco una Madre: un motivo così semplice eppure di tale intensità affettiva (guardate l’espressione di lei e l’abbandono del piccolo!) che poche volte abbiamo visto in pittura.

Ed ecco un bel bimbo, un poco torvo, che legge il giornale e sembra la fotografia di un quadro del Cremona.

E non ricorda un Holbein questo ritratto di Benelli? Non ricorda un Velasquez questo autoritratto del Bosella?

Ho parlato di ritratti soltanto. Lo stesso criterio innovatore è applicato al paesaggio. Criterio che in fondo si riduce ad una sola grande parola: Poesia. Non è forse un’elegia di De Musset questo lembo di Venezia piovorna?

E questo profilo di Genova navale non ricorda le cose più forti di Gabriele D’Annunzio: alcune terzine delle Canzoni d’Oltremare o alcune strofe della Laus Vitae: le Città terribili?

Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte

Incomincio così, perché mi balena nel ricordo la réclame di una Casa americana dove il gruppo tragico è parodiato con un’ironia tutta yankee, e il padre e i figli disperati sono assaliti, allacciati, soffocati non dai serpenti di Tenedo, ma dal modernissimo nastro fotogrammatico. Il gruppo ha un simbolo che sorpassa forse le intenzioni commerciali dell’onesto disegnatore, un simbolo che può rendere pensosi noi Latini, e farci meditare sul passato fulgidissimo, sul presente burrascoso, sul futuro enigmatico.

Quest’arte… ma che arte: quest’industria di celluloide: figliuola disonesta e fortunata della vecchietta che pellegrinava le piazze ed i mercati esibendo su di un rettangolo di tela dipinta e infissa su di un bastone la lacrimevole istoria di Genoveffa, o di Rosina e del Bersagliere infedele (perché questi e non altri sono i suoi antenati), quest’avventuriera e cortigiana risalita che ha la potenza e la prepotenza del danaro, e sa camuffarsi, stilizzarsi così bene da imitare qualche volta, quasi alla perfezione, la principessa; quest’industria non è un’invenzione latina (e meniamone altissimo vanto!), è un trovato nordico, elaborato dalla tecnica sorniona e paziente degli ottici teutonici; e, passata attraverso vicende di pura perfezione meccanica, alla Francia e all’Italia luminose…

E – come tutte le lebbre che ci vennero dal Nord – si diffuse, prosperò in Francia ed in Italia come nel suo terreno più adatto, trovò in Francia ed in Italia – eredi prime di quanto la Terra ha espresso in pura bellezza – trovò due organismi da corrompere. E li ha corrotti.

In Italia assistiamo da dieci anni a questo trionfo industriale, una delle nostre glorie sul mercato del mondo, e – sia detto a mezza voce – una delle nostre vergogne artistiche, se facciamo tacere in noi l’affarista e consultiamo soltanto la nostra intima coscienza d’artisti.

Certo nel Nord la lebbra ha attecchito molto meno: manca il Sole e manca l’Arte; al sole sopperiscono col magnesio, ma all’arte non c’è succedaneo che serva. E il cinematografo è un’industria che ha bisogno dell’arte. Questo è il fenomeno tragico e interessante, un fenomeno che mi ricorda quella mosca parassita che penetra nella crisalide delle nostre più smaglianti farfalle diurne, vi soggiorna, se ne nutre, pur non uccidendole, ma sostituendosi a poco a poco: così che l’allevatore, in attesa, ne vede uscire non la farfalla magnifica, ma una volgarissima mosca. La quale resta una mosca, e la farfalla, farfalla. Così pellicola ed arte restano quelle che sono; divise, inconciliabili fino all’ultima molecola, come certe sostanze non amalgamabili assolutamente. Ed è questa l’unica certezza consolante. L’arte resta quella che era e quella che è: una signora per bene; il cinematografo resta un ricchissimo signore. Che cosa altro sia non possiamo, per ora, dire; come tutti i fenomeni troppo vasti nel tempo e nello spazio, non è definibile dai contemporanei che hanno lo sguardo troppo vicino. E poi è necessario vedere la sua evoluzione; e non saremo noi, ma i figli dei nostri figli – e forse nemmen loro – quelli che assisteranno alla chiusa della parabola. La quale è per ora all’inizio, si può dire, e nella sua fase più vitale, se si pensa che prosegue imperterrita in pieno conflitto europeo e, fra tante crisi di industrie necessarie, è l’industria inutile che meno ne soffre…

Il cinematografo ha bisogno dell’arte: non si nutre che di quella. E dal suo covo nordico si diresse fatalmente verso la terra dell’arte. In nessuna parte del mondo si sviluppò come in Italia. Tutto gli è stato dato, gli si dà in alimento quotidiano, in un’avidità non mai stanca e non mai sazia: bellezza, grazia, valentia di attori e di attrici, ingegno d’autori, di pittori, di musici, scenari storici offerti dai monumenti nostri più illustri e dalle città più gloriose, panorami incantevoli, arte e luce: tutte cose che noi soltanto possiamo dare, più di tutti, meglio di tutti, senza esaurirci mai. E ne abbiamo in compenso il danaro, molto danaro: una fonte di floridezza nazionale, quale non si poteva immaginare otto, dieci anni fa. Consolante? Forse. Certo non rattristante se si pensa che l’arte ne esce immune. Anzi ne esce purificata e più forte, così come certi organismi dopo una febbre violenta espellono ogni elemento inutile ed impuro.

Nella concorrenza che la film fa al teatro non soffrono che gli elementi drammatici scadenti; i valori autentici non crollano: restano soli, senza colleghi mediocri; ed è meglio. Le sale dei teatri non si sfollano perché s’affollano gli enormi saloni dei cinema. Il pubblico assiepa gli uni e gli altri. Chi si lascia tentare, questa sera, da due, tre chilometri cinedrammatici, non rinunzia, certo, domani, alla grande interpretazione shakespeariana d’un attore illustre, alla commedia arguta di una nostra gaia, valentissima attrice. Corruttore? (Corruttore estetico, intendo). Forse no. La folla plebea che stipa il cinema non è sottratta ai teatri; è folla che a teatro non va, perché non lo comprende e s’annoia; la pellicola figurata condensa in minimo spazio, in minimo tempo, con minima spesa e senza nessuno sforzo psicologico ed intellettuale, un diletto visivo, il quale – per quanto nulla abbia a che fare con l’arte – è superiore sempre alla bettola ed al café-chantant. Tre quarti del pubblico conosce i grandi capolavori drammatici e letterari attraverso la pellicola e senza la pellicola non li avrebbe conosciuti mai, nemmeno di nome. È una conoscenza approssimativa, è vero, ma è pur già qualche cosa. È già qualche cosa dover leggere e imprimere nella memoria qualche frase di Shakespeare, qualche battuta dialogata dei Promessi Sposi, qualche verso dantesco, sia pure proiettati nel modestissimo scopo di titolo e di sottotitolo. È una conoscenza «di vista», che dissoda il terreno per la cultura a venire.

Il cinematografo non è arte, non sarà mai arte. Ma come industria bisogna rendergli giustizia contro le calunnie dello snob e del partito preso: è, cioè, tra le industrie, quella che più si sforza di far dell’estetica e che raggiunge, qualche volta, un attimo fugace di vera bellezza.

L’esperienza tecnica è giunta a tale perfezione che l’intreccio poliziesco più grossolano è sopportabile per l’esecuzione fotografica di buon gusto, per il lusso dei personaggi e dei paesaggi; così che anche lo spettatore non volgare entra nelle sale vilipese ed è costretto ad indulgere con un sorriso non lontano dall’ammirazione…

Se è vero che ogni paesaggio è uno stato d’animo, la film fa della psicologia meravigliosa. So bene, il gioco di parole non serve: la psicologia è interdetta allo schermo silenzioso: anche gli attori più illustri, tentati dal cinema, hanno dato prova inadeguata; la mimica resterà sempre mimica e la più bella maschera non raggiungerà mai i limiti dell’arte, il gesto più eloquente non avrà mai il valore d’un grido, d’una sillaba, d’un sospiro. Poco importa. C’è il teatro per questo, il teatro incrollabile ed immortale. Il pubblico intelligente che va al cinematografo (e ci va ogni giorno di più e più di quanto si creda) è convinto da un’altra logica, sedotto da altre lusinghe. Ci sono sere vuote, quando si consulta invano la lista dei teatri, dove non c’è cosa che valga tre ore consecutive, o si ripete la produzione sentita per l’ennesima volta, sere in cui il cervello stanco non ha forza d’attenzione e non desidera la buona commedia e il buon attore, così come non desidera il buon libro; sere negate al cervello, all’arte. E si pensa allora ad una cosa leggera, non faticosa, che non sia il teatro, ma che sia un pochino di più del caffè o del club con le sue riviste e i suoi amici annoiati, o delle pietose turpitudini del caffè di varietà; e allora il cinematografo offre questo quid medium. Ed offre altre cose, molte più cose che lo spettatore profano non creda. Offre prima di tutto, locali – parlo delle sale di prim’ordine – di una grandiosità linda e signorile che solleva lo spirito più dei cupi teatri centenari, e dove si respira non so che aria pura e che frivolezza consolatrice; sarà il jardin d’hiver nella sua decente pseudo-flora da hôtel cosmopolita, o la decente mediocrità del concerto d’attesa, o la decente indecenza delle danze eseguite da una coppia d’avventurieri. Si entra, si guarda senza osservare: la noia non passa, ma prende un altro colore: non è più la noia grigia e livida del caffè e della strada, è la noia candida delle mattonelle a smalto, la noia chiara opalescente delle molte lunule elettriche, la noia «colorita» dell’ambiente, ed il caffè sorbito in un angolo pittoresco, sotto la curva di un palmizio di latta, adagiati in una sedia di vimini, ha un gusto meno disperato che non quello centellinato nell’amaro calice delle chicchere quotidiane…

Dimenticavo: c’è anche lo spettacolo, che può essere, sovente, una cosa interessante: la cronistoria settimanale che sunteggia in modo più eloquente di dieci quotidiani le miserie e le vicende politiche e non politiche, vicine e lontane; il dramma desunto dal romanzo d’appendice che non avreste il tempo né la forza di legger mai, e in mezz’ora vi sfila vertiginoso dinnanzi in un’esecuzione fotografica qualche volta eccellente, certo superiore alla prosa che vi torcerebbe i precordi sin dalla prima pagina; e vi riconciliate sovente con l’autore popolare di trenta romanzi di mille pagine l’uno, vi riconciliate con lui che esecravate senza averne letta una parola (capita sempre così) e dovete convenire che un’energia intellettuale, sia pure votata allo scopo meccanico della più grossolana immaginazione, va riconosciuta e rispettata e non giudicata e vilipesa a priori; la film poliziesca, fantastica, a trucchi sensazionali, annoierebbe: ma si gode dell’esecuzione fastosa, dei paesaggi, della bella attrice, si gode anche dei trucchi, soddisfatti di vittoriosa malignità, se si riesce a scoprire il lato ingenuo, umiliati e un poco ammirati se il trucco sfugge alla vostra indagine. E altre cose ci sono, che soltanto la film ci può offrire, e a quale prezzo modesto! Con l’importo di una consumazione andate in Cina per l’Incoronazione dell’Imperatrice, o passate nell’Africa Centrale per le cacce di Roosevelt. E, credete a me, quanto la pellicola ritrae in fatto di viaggi è il meglio che l’esotismo possa dare; nel ricordo e nel rimpianto di chi ha molto pellegrinato la Terra non resta certo di più e di meglio di quanto appaia in mezz’ora sul cartiglio vertiginoso…

Ci sono i paesaggi e ci sono le attrici famose per bellezza e per valentia: sono una forma di paesaggio (sia detto con sopportazione e senza sorrisi grossolani), una nota pittoresca anche quella, che si gode certo di più sullo schermo silenzioso che alla ribalta. Alla ribalta c’è l’arte che distrae e la distanza che sottrae; in film si gode placidamente e borghesemente della bella donna e della sua mimica. II pubblico femminile, poi, si precipita assillato di curiosità per vedere ben vicino, in primo piano, investita violentemente dalla luce implacabile e rivelatrice, il volto dell’artista non più giovanissima. E quale fremito, che sembra di sollievo, se per un attimo la bellezza s’offusca e la giovinezza dilegua (è risaputo che nemmeno il più soave volto diciottenne resiste sempre felicemente a duemila metri di istantanee), e quale stupore che sembra di scontento se la bellezza, la giovinezza dell’attrice resiste e offre ai mille occhi implacabili un volto perfetto! Assistevo sere fa ad una film con a protagonista una bellezza mondiale, ed il pubblico femminile era palesemente deluso, direi quasi sdegnato di non veder apparire sullo schermo i quarantasette anni ben noti della bellezza famosa; era privilegio eccezionale, lenocinio di trucchi parigini, scaltrezza fotografica, ma la protagonista sembrava una giovinetta, quasi sempre, e negli attimi meno buoni una bella donna poco più che trentenne. E si diffondeva nella sala un’aura di protesta come contro un’ingiustizia, l’ingiustizia del Tempo: l’unico galantuomo!

Miserie, pettegolezzi, femminili e… maschili; ma sono anche questi un’attrattiva non ultima dell’ambiente cinematografico.

Siamo giunti a considerazioni molto lontane dall’arte. E ho parlato del nastro di celluloide nel più ottimista dei modi. Anche per illudermi un po’; e che il nastro senza fine ci avvolga di giorno in giorno come i serpi favolosi di Laocoonte, lo sentiamo tutti, e ci consultiamo l’un l’altro, non senza inquietudine, domandandoci come, dove si andrà a finire, e se l’equilibrio non sarà rotto, se la giustizia e le ragioni dell’arte, salve per ora, ma già messe a dura prova, non verranno un giorno sopraffatte e conculcate. Tutto è da attendersi, tutto è da temersi, con i tempi nuovi. Nelle ore più nere sono indotto dalla mia fantasia ad incubi paurosi, e la mia paura è nutrita di ricorsi artistici e di paralleli storici. Paralleli che risalgono a millennii, al tempo alessandrino; ricordate la leggenda di Thaïs? E ricordate il dialogo elegantemente platonico del Santo che s’incontra, a teatro, con l’amico poeta? Entrambi si lagnano, l’uno in nome della morale, l’altro in nome dell’arte, della decadenza del teatro. «È finita – dice il poeta – è finita per l’arte; Euripide, Sofocle, Eschilo sono dimenticati; la parola annoia le turbe frettolose; preferiscono la mimica, il gesto, la scena rapida e muta. Guarda, guarda, amico mio, quale profanazione intorno all’ara sacra, in nome di Dionisio? Istrioni che ieri erano schiavi e facchini, cortigiane sfacciate che non saprebbero dire una sillaba, ma che ben sanno l’arte delle curve procaci e dello sguardo lascivo. Che pantomima indegna, amico mio! Ed ecco la folla che delira alla tragedia d’un meccanico nubiano e analfabeta. Guarda che frenesia per la danza aerea – trucco di corde – per la metamorfosi di Leda – trucco di stoppa e di piume – per la ferita che spiccia sangue, sangue bovino in una vescica dissimulata dal peplo. E questa che applaude! È finita per l’arte della sillaba. La pantomima basta. Che vuoi che faccia un poeta?».

Sono le parole di quasi due millenni addietro, ma non sembrano il dialogo di un poeta e di un filosofo dei nostri giorni, tavolineggianti nell’hall vetrato ed infiorato di un cinema elegante? Il raffronto è più che singolare, è inquietante. A eguali sintomi eguali pericoli son da temersi. La decadenza del teatro latino e il trionfo dell’arte mimica importata dai barbari segnarono l’avvento di dieci secoli e più di oscurità spaventosa. Che cosa ci prepara, oggi, questa industria potente e prepotente come il danaro? Voglia il cielo che non sia un sintomo di decadenza che ci avvolge insensibilmente e che non avvertiamo, come non si avverte l’atmosfera viziata a poco a poco. Certo in quest’ora storica tutto è sintomatico ed enigmatico, anche il nastro che chiude il mondo in un intrico sempre più fitto di celluloide figurata.

Ma che cosa fare, che cosa pensare?
Forse ciò che fanno e pensano i poeti. Niente.

… più saggio quegli che si gode estatico
dell’Apparenza, senza batter ciglio,
come di cosa impressa nel cartiglio
fotogrammatico!

In copertina: foto di gruppo degli amici de La Marinetta

Guido Gozzano

(Torino 1883 - ivi 1916) è stato un poeta italiano. Ritenuto il massimo esponente del crepuscolarismo, nelle sue opere riserva lo stesso commosso distacco e lo stesso sguardo ironico alla vacua fede letteraria, per la quale non si può non provare vergogna, e al personaggio autobiografico con cui racconta il dannunzianesimo vissuto nella grigia realtà quotidiana. Puntando su una poesia capace di assecondare l'andamento del parlato senza uscire dalla metrica tradizionale, persegue con una felicità proverbiale la rivalutazione estetica del reale già avviata proprio da D'Annunzio, e per questa via scopre che il fascino libresco, conferito dalla patina del tempo alle "buone cose di pessimo gusto", del passato, non si distingue poi molto dalle attrattive dell'arte. Tra le sue opere si ricordano le raccolte di versi "La via del rifugio" (1907) e "I colloqui" (1911).

Marco Maggi

è professore straordinario di Letterature comparate e teoria della letteratura all’Università della Svizzera italiana. Ha pubblicato “Walter Benjamin e Dante. Una costellazione nello spazio delle immagini” (Donzelli 2017) e “Modernità visuale nei ‘Promessi Sposi’. Romanzo e fantasmagoria da Manzoni a Bellocchio” (Bruno Mondadori 2019) e ha curato edizioni di testi del Seicento (“Aurore barocche. Concerto di arti sorelle”, Aragno 2006, e “Vocabulario italiano” di Emanuele Tesauro, Olschki 2008). Ha curato la riedizione di Rensselaer W. Lee, “Ut pictura poesis” (SE 2011) e Mario Praz, “Studi sul concettismo” (Abscondita 2014). È responsabile del fondo Lea Ritter Santini presso l’archivio del Centro studi Natalino Sapegno. Per la Radio Svizzera Italiana ha curato le 44 puntate di “Classici italiani. Da Francesco d’Assisi a Italo Calvino”. Collabora regolarmente a "L’Indice dei Libri del Mese".

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