Linda Carrara, paesaggi con serpente

06/04/2023

Nell’ambito del progetto Ultima (a cura di Tommaso Di Dio, Giuseppe Nibali Guzzetta, Damiano Scaramella e Fabrizio Sinisi) è appena uscito il primo numero di una nuova collana di testi, «Ultima*Grafie», dedicata al rapporto fra scrittura, fotografia e vite d’artista. Questo primo capitolo (161 pp., € 23) è su Linda Carrara, la cui vita e opera sono al centro del fuoco incrociato di una molteplicità di sguardi e scritture: quelli del poeta Tommaso Di Dio, del fotografo Flavio Pescatori, della curatrice della pubblicazione Ilaria Mai e dell’artista stessa. Per la cortesia di autori ed editore, proponiamo qui una parte del saggio di Di Dio accompagnata da una selezione delle foto di Pescatori.

Inizio, inizi

Questo saggio inizia come un racconto.
Ma il racconto subito si ferma perché un gesto al centro lo divide, lo lacera e lo piega.
Una linea si piega e non smette di piegarsi e ripiegarsi.
Sembra che si moltiplichi e diventa una forma a più dimensioni.
Non c’è contesto, non c’è paesaggio, solo contorno.
Apri gli occhi, chiudi gli occhi. Cosa è?
È nella mente e ha molti lati.
Pensi che sia ripetibile. Pensi che somigli a qualcosa, ma non vedi, non sai, non capisci.
Pensi che possa ritrovarsi, che possa funzionare come un calco.
Pensi alle mani nel fango, vicino ai fiumi.
Pensi alle mani nella sabbia, vicina al mare.
Se metti una mano nella sabbia, se metti una mano nel fango e poi la sollevi
quello che succede è che si evidenzia sulla terra una cavità,
una superficie vuota che corrisponde a ciò che hai tolto.
È un vuoto che sta al posto della mano, è il gemello di una mano,
è il fratello perduto della tua mano:
è la nostalgia infinita di una mano, il desiderio immenso di una mano qualsiasi
e al contempo la memoria di quella sola e unica mano
che affondò, con tutto il suo peso, nel fango e nella sabbia.
Ma tu non sai niente. Non hai neanche lontanamente idea di cosa accadrà.
Apri gli occhi, chiudi gli occhi.
È un gioco. È una stella.
È qualcosa che esiste nel giogo della mente.
Apri gli occhi, chiudi gli occhi.
Ora prova a farlo, su:
prova a disegnarlo.

[…]

Vene, reliquie

C’è nella pittura di Linda Carrara una meditazione sui resti. E ciò che resta è sempre una materia che è stata toccata, una materia che è stata abbandonata. Qualcosa è avvenuto e ha lasciato dietro di sé un ramo caduto, una buccia, un’impronta, un riflesso sull’acqua che la memoria sa trattenere. Dipingere è fare esperienza di un processo per cui un resto affiora e resta impresso sulla pelle dell’immagine. Una meditazione sul contatto: una pittura per contatto. Nel tessuto omogeneo della natura, ecco: una vena appare. Si fa rilievo, emerge fisicamente. Il gesto del pittore è raccogliere il contorno di ciò che affiora e dare esistenza a questo resto, dargli forma, consistenza: far restare il resto, dare un’immagine a questo arresto, che non diventi mai resto immobile, ma riposo (to rest) in una teca dipinta.

La vena è sempre ciò che affiora e rivela l’altrove. La vena è la discontinuità, ciò che recide e perciò unisce. Si narra che Michelangelo abbia scolpito il Cristo della Minerva in due versioni. La prima nel 1514-1516 è conservata oggi nella chiesa del monastero di San Vincenzo a Bassano Romano. La scultura rappresenta un Cristo preconciliare, completamente nudo e slanciato, che sorregge la croce e ha nella propria mano gli strumenti del suo martirio. Pur essendo la presa salda, tutta la composizione dei pesi è fatta in modo tale che il corpo del Cristo sembri stare e non stare abbandonando la croce. Se il braccio trattiene saldamente il legno, la testa è però rivolta dal lato opposto, verso un tempo altro, verso il luogo della risurrezione e della salvezza. La scultura coglie in modo esemplare il vortice fra i tempi che la storia evangelica ha voluto mostrare: il punto in cui la morte è salvezza, la fine è resurrezione: lo sguardo del dolore, rivolto al passato, si tramuta in azione verso la Gerusalemme celeste. Ma perché allora questo superbo capolavoro fu abbandonato? A lavorazione quasi ultimata, emerse sul volto del Cristo una sgradevole venatura nera. Ancora visibile sul monumento, la linea spessa, un segmento sinuoso di marmo nero cupo si addensa oscuro. Sembra una serpe: va dalla base del naso, lambisce la narice destra e crolla lungo la barba, ai lati del mento. L’imperfezione era già nel blocco di marmo, ma divenne visibile solo a processo quasi ultimato. La vena emerge solo nel lavoro, soltanto nel lavorio dei marmi. È il problema imprevedibile: ciò che negava il candore assoluto impose l’abbandono della scultura. Il Cristo risorto non poteva avere macchia.

La pittura di Linda Carrara sembra rispondere a tutto questo. I suoi dipinti non nascondono la vena, anzi la cercano: la imitano, la sorreggono, la riproducono e la seguono. Sia essa un ramo, un riflesso sull’acqua, un frammento di legno. Tutto ciò che emerge dalla superficie può essere una vena nera, il punto che si situa fra la carne il sangue, il tracciato che erompe imprevisto ed è, appare fra la superficie e l’abisso al di là di ogni superficie. La pittura di Carrara sembra essere innanzitutto predisposizione di uno spazio dove la vena nera possa emergere e poi essere contemplata come reliquia. La pittura come luogo di predisposizione e cattura del clinamen venoso del mondo.

Contatti, fantasmi

Da qui l’abitudine di alcuni lavori maturi di Carrara di partire da una tela che ha subito un contatto e uno sfregamento con una precisa superficie di un paesaggio. Carrara stende la tela sulla parete di una grotta, su di un pavimento, su di un greto o su di un muro e strofina. Così compie un frottage che perlustra la superficie, la scansiona, centimetro per centimetro, e ne fa una fedelissima e parziale traduzione. La pelle bidimensionale della tela riporta così tutte le screpolature e tutte le imperfezioni della porzione di paesaggio su cui è stata posta. Sembrerebbe che qui Carrara abbia tratto ispirazione dalla fotografia, dove la lastra si impressiona della finissima trama di fotoni che trapassano l’obiettivo. Ma non è così: la superficie non raccoglie il contatto della luce. La pittura di Carrara non parte dall’impalpabile, ma dal contrario: dalla solidità materica del terreno di cui compie una riproduzione per diretto contatto. Così la tela diviene ancora una volta un dispositivo tattile: riproduce epidermicamente una porzione di paesaggio. È un ritaglio analogico del mondo. È una porzione di mondo carnalmente tradotta in figura. È pelle che riveste un paesaggio e ne porta traccia, facendosi traccia di quella gestazione, di quell’aver rivestito ed essersi rivestita. La tela rintraccia le vene del terreno, divenendo essa stessa supporto della traccia e facendosi modificare dall’azione del tracciamento: porta sulla propria materia le ombre venose.

Queste opere, più delle altre, sembrano mimare la logica degli oggetti santi. Le reliquie, infatti, non sono semplici oggetti né sono riproduzione della figura del santo: sono adorate perché hanno avuto un contatto con il suo corpo o perché sono state parte di esso. In virtù di questa materiale contiguità, gli oggetti santi sono contagiati per metonimia e, pur essendo parte, resto, residuo, hanno ancora la forza della totalità di cui consistettero. La reliquia è una “parte” che emana e conserva il potere del “tutto”. Così i dipinti di Carrara conservano la forza del terreno a cui hanno aderito. Assorbono le qualità del paesaggio prescelto per contiguità materiale, per estrema devozione e strofinamento.

Quale spazio resta alla pittura? Carrara sfida le partizioni di genere, ma resta immedicabilmente una pittrice. Il compito della pittura qui è quello di far emergere le vene e fantasticare sulle forme testimoniate dalla tela per contatto. Linda Carrara medita su questi tracciamenti e con la pittura ne enfatizza alcuni, ne nasconde altri, fa emergere figure, sintonie, somiglianze. In queste serie, il lavoro di Carrara è più quello di evocare le forme che di dipingerle. Per questo i quadri prodotti con questa tecnica sono superfici capaci di provocare un profondo turbamento in chi li veda: hanno un fascino peculiare e ipnotico. Sfuggono ad ogni somiglianza definita, ma le moltiplicano. Sono superficie visionarie, spettrali. Sono chôra, porzioni di territorio che divengono materia potenziale: supporti instabili e demiurgici[1]. Da un lato, sembrano porzioni di epidermidi umane o di animali giganti viste con il microscopio, dall’altra abissi sottomarini e ancora terre rocciose viste dall’alto, magari di pianeti altri da quelli terrestri. Le loro ombre, i loro rilievi non sembrano più elementi di una sintassi pittorica, ma generano un effetto di pareidolia per cui siamo messi sulle tracce di immagini che solo noi, in noi, possiamo vedere. Siamo come guardati da quelle superfici rosso sangue, verde smeraldo, grigio marmoree.

In più, la loro qualità materica e pittorica insieme sfida la distinzione di genere. Sono sì dipinti, ma anche sculture, perché in loro la materia resta come un calco al contrario. Eppure sono anche una performance perché nel supporto della tela è conservato non solo una porzione di spazio, ma il suo “momento”: la conformazione unica che aveva nel preciso momento in cui è stato compiuto il frottage. Ancora poi, sembrano essere il culmine di quella ricerca verso l’anonimia che abbiamo già visto in azione nelle opere precedenti. Infatti qui, la pittrice sembra limitare la propria arte a quella della decalcomania. Qui l’opera è davvero e definitivamente abbandonata alle mani altrui e il clinamen venoso del mondo è messo in scena in tutta la sua fantasmatica forza. La pittura evoca le vene del paesaggio, o meglio: consiste soltanto nella finzione dei loro tracciati erratici.

Metamorfosi, arcani

Una pelle di serpente, verde grigia e opaca, si distende sul retro di un pannello, sul lato inferiore. Si allunga sul bianco marmo dipinto e, poco sotto, la pittura finge un pezzo di scotch di carta su cui leggiamo: «flesh». Non capiamo se sia pelle vera o meno: se sia l’ennesimo inganno della pittura oppure, questa volta, realtà concreta. Ma c’è differenza? Il serpente ha lasciato sul dipinto la sua pelle, ha compiuto la sua muta; così lo spettatore: davanti all’immagine è toccato da un sospetto che lo trasforma[2].

Nella pittura di Linda Carrara, dopo le calibrate composizioni di oggetti sospesi e l’esperienza dei frottage, si fa strada una pittura atmosferica e tonale che riscopre la dimensione del paesaggio. Ma non è il paesaggio settecentesco delle vedute, è piuttosto quello intimo e circoscritto del locus amoenus: sono luoghi strappati all’improvviso al caos della selva, sono radure. Lucus i latini chiamavano lo spazio che si apriva improvviso fra le frasche e, inondato da una luce fresca e mobile, era prescelto per celebrare i sacrifici e l’incontro con il divino. I paesaggi più recenti di Linda Carrara sono luci: la scoperta di una dimensione interna, l’ingresso verso una spazialità dentro lo spazio, una divaricazione che, pur restando uterina, fa apparire la luce del fuori più chiara, limpida, tersa. Eppure qui nulla è immobile, ma tutto è preparazione, attesa, sottile e impercettibile organico movimento. Sono paesaggi con serpente, potremmo dire: luoghi la cui quiete è attraversata dal presagio di un incontro, di una metamorfosi, di un travalicamento.

Ricordano l’antro ombroso, cosparso di rara edera, di cui forse discutono i tre filosofi di Giorgione nel celebre quadro. Ma qui nessuno umano è ammesso alla vista. Si direbbe che siano stagni, pozze, fondi di quiete e impermanenza. Arcano era detto il pavimento del pozzo, la superficie dove si adagiavano le mattonelle al fondo del canale orizzontale per far sì che l’acqua non fosse del tutto assorbita dal terreno, ma vi rimanesse e così potesse restare, in riposo e preparazione di chi abbia voluto attingervi. Al paesaggio di Carrara si arriva come dopo un percorso, attraversando un sentiero immaginario e invisibile. E poi da lì si deve ancora procedere, arrivare al fondo del pozzo, all’arcano: si arriva da qualche parte soltanto a patto che si abbia il desiderio di attingere qualcosa.

[…]


[1] Si veda la mostra chôra (2019).

[2] Si veda la mostra In fondo al pozzo (2020).

Tommaso Di Dio

(1982) vive e lavora a Milano. È autore di alcune raccolte di poesie, fra cui “Favole” (Transeuropa, 2009), “Tua e di tutti” (Pordenonelegge-Lietocolle, 2014) e “Verso le stelle glaciali” (Interlinea, 2020). Si occupa di critica letteraria, filosofia e traduzione. In particolare, dal 2015 è membro del comitato scientifico del laboratorio di filosofia e cultura Mechrí ed è dal 2018 tra i curatori del progetto di poesia e arti visive Ultima. Nel 2020, ha curato e tradotto la prima edizione integrale italiana del classico del modernismo americano “La primavera e tutto il resto” (1923) di William Carlos Williams. Nel 2022 è stato pubblicato il suo ultimo libro di poesia, per Scalpendi Editore, dal titolo “Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo”. (ph. Dino Ignani)

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