Tom Seidmann-Freud e il segreto dell’infanzia

30/03/2023

Il 17 novembre del 1892, a Vienna, Marie Freud, sorella di Sigmund, mette al mondo la sua terza figlia, Marta Gertrud. Una bambina introversa, sempre un po’ in ombra rispetto alla sorella di poco maggiore Lilly, così bella e affascinante. Un’infanzia da brutto anatroccolo sembra segnare i suoi primi anni di vita. Marta sublima questa sua condizione attraverso il disegno che, poco alla volta, diventa la sua vita. Le sue doti sono davvero notevoli. Gershom Scholem, che la conobbe a Monaco tra il 1919 e il 1920, la descriverà come “un’illustratrice di talento, anzi forse proprio di genio, specializzata in libri per bambini, che in parte scriveva lei stessa”. È col nome di Tom Seidmann-Freud che Marta passerà alla storia come una delle più geniali e innovatrici illustratrici di libri per l’infanzia del Novecento. Il nome maschile, Tom, lo aveva preso perché temeva che il suo genere le avrebbe impedito di avanzare nel mondo dell’arte.

Marta era una donna estremamente sensibile e, sicuramente, tormentata. Sempre Scholem, che la “stimava molto”, ricorda come sembrasse che Tom si nutrisse di fumo, in una sorta di insofferenza verso l’esistente e, al contempo, di tensione perpetua verso un’alterità, un altro mondo, un’utopia. Intrisi di utopia sono, senza dubbio, i suoi libri per l’infanzia. Certo, come è stato ricordato, si trattava di una trasposizione visiva e fantastica del sogno sionista di cui tutta la famiglia Freud era imbevuta. Ma sicuramente quella che traspare nelle sue storie è anche un’altra utopia, una Kinderland, dove la legge del dominio è sospesa e dove l’esistenza si apre alla sua dimensione ludica e avventurosa.
In uno dei suoi libri più fortunati, pubblicato postumo e recensito, più volte, in modo entusiastico da Walter Benjamin, nella prefazione scritta da Tom si poteva leggere: “Esso [il sillabario] non si prefigge l’acquisizione’ e il ‘dominio’ di un determinato programma – questo tipo di apprendimento è congeniale soltanto agli adulti -, bensì tiene conto della natura del bambino, per il quale l’apprendimento, come tutto il resto, significa spontaneamente una grande avventura”.

Tom Freud

Tom introduceva la dimensione del gioco all’interno della serietà dell’apprendimento, anche di quel primo apprendimento che risiede nell’acquisizione delle lettere attraverso le quali il mondo del sapere si rivela al bambino. Un suo progetto, purtroppo abortito, già nei primi anni venti, riguardava un libro dedicato all’apprendimento dell’alfabeto ebraico, che, ancor più di tutti gli altri alfabeti, porta in sé tanto la dimensione originaria del sapere quanto quella del fondamento ultimo del mondo, il grande nome di YHWH e il mistero dei settantadue nomi di Dio. Le poesie di Agnon, scritte appositamente per un pubblico di bambini, dovevano accompagnare i suoi disegni delle ventidue lettere dell’alfabeto. Si trattava di un modo di rendere alla parola, quella parola che è al centro della cultura e della religione ebraica, il suo carattere biomorfo (tutte le lettere, infatti, derivano da un disegno che, attraverso fasi sempre crescenti di astrazione, diviene un segno funzionale alla comunicazione). In altri termini, per riprendere le parole usate da Benjamin proprio per gli esperimenti di Tom sui sillabari, ci trovavamo di fronte a un modo di “superare con ingegnosità l’abisso tra cosa e segno”.

Il gioco, il disegno, la fuga nella dimensione utopica dell’infanzia, diveniva così un’altra possibilità di pensare o, per dir meglio, di rendere visibili, tangibili, immaginabili, non solo quel sogno di una cosa che fu il sionismo per almeno una generazione di ebrei prima della fondazione dello stato di Israele, ma kal vahomer, per usare un’espressione tipica della retorica rabbinica, che potremmo tradurre con “tanto più”, un modo di mostrare, attraverso il serissimo gioco dell’infanzia, il segreto del mondo. È sempre Benjamin, sempre riferendosi a Seidmann-Freud, a esprimere questa valenza profonda dei suoi disegni avvicinandoli alla grande letteratura: “Così come ha detto Goethe, – se non erro – di Lichtenberg, che dove faceva una battuta era nascosto un problema, si può affermare del gioco infantile: dove i bambini giocano è sepolto un segreto”.
Quale fosse il segreto di Tom, che era poi il segreto del mondo (non del mondo oggettivo dominato dagli adulti, ma di quello che è nella mente solitaria di ogni bambino), possiamo solo intuirlo guardando le sue tavole così delicate e melanconiche, così straordinariamente capaci di trasportare altrove e di lasciar entrare, in questo mondo, la luminosità di un altro, sempre in istanza per chiunque si lasci penetrare dal suo mistero, dalla sua luce, dal suo segreto.

Certo, la vita non le risparmiò nulla. Fino all’esperienza estrema, quando – a causa della crisi del ’29 e delle fallimentari condizioni delle case editrici (prima, Ophir, poi, Peregrin) fondate con il marito – rientrando a casa, mano nella mano con Angela, sua figlia di sette anni, trovò, appeso al soffitto, il suo amato Jakob. Fu un colpo da cui non si riprese più. Si lasciò lentamente morire di inedia e, alla fine, a quattro mesi dalla morte del marito, assunse una overdose di sonniferi.
La “serietà della vita”, la sua violenza, aveva avuto il sopravvento. Tom non aveva retto l’urto. Il sogno si era spezzato. L’utopia andata in frantumi. Per lei, come per molti altri prima e dopo di lei, non restava che la resa.

Eppure, anche di fronte a questa resa finale, sulla quale pare non potersi posare che il silenzio, l’assenza di ogni possibile parola ulteriore, c’è una frase che Angela, la figlia di Tom, affidò, all’età di ottantacinque anni, a suo figlio Amnon, una frase che ogni anima sensibile dovrebbe portare sempre nel cuore, quando la vita sembra essere davvero troppo volgare, quando si sente che non si riesce più a far fronte alle difficoltà, quando si ha la sensazione che il libro dei desideri (Il libro dei desideri esauditi è un volume di Seidmann-Freud del 1929) non trovi più ragion d’essere nel mondo della frustrazione; si tratta di una frase semplice che una bambina ha custodito come il segreto più profondo per un’intera vita completamente dedicata agli altri (Angela, adottata da Lilly, prese il nome di Aviva, “primavera” in ebraico, e si trasferì in Palestina, dove svolse per moltissimi anni la professione di infermiera); si tratta di una semplice domanda, destinata a rimanere senza risposta, ma che chiede, se così possiamo dire, di continuare a risuonare, perché in essa, forse, è davvero contenuto il segreto del mondo, quello degli adulti e quello dei bambini, perché nella domanda, in quella semplice domanda, dimora la terra utopica dell’eterna alleanza tra le generazioni: “Non capisco come abbiano potuto lasciarmi. Come hanno potuto lasciare me, una bambina di sette anni, tutta solo al mondo?”

In copertina: illustrazione tratta da Il viaggio sul pesce, scritto e illustrato da Tom Seidmann-Freud. Credit: Tom Seidmann-Freud Archive.

Federico Ferrari

(Milano, 1969). Insegna Filosofia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra i suoi ultimi libri: “L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine” (Johan & Levi, 2013), “L’anarca” (Mimesis, 2014; 2a ed. Sossella, 2023), “Oscillazioni” (SE, 2016), “Il silenzio dell’arte” (Sossella, 2021), “L’antinomia critica” (Sossella, 2023) e, con Jean-Luc Nancy, “Estasi” (Sossella, 2022).

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