Vuoti di origine e infiniti attuali

29/03/2023

Come individui e come specie, siamo segnati dalla carenza di conoscenze certe sulle origini di cose essenziali quali l’universo, la materia e gli stessi organismi viventi. Resta ugualmente indecidibile se il cosmo vi sia da sempre, se abbia preso a esistere una volta e basta, o se l’essere e il non essere costituiscano invece due condizioni interdipendenti, tanto che il balzo stesso dell’inizio ancestrale le vedrebbe già coinvolte entrambe. Le difficoltà incontrate nello sciogliere tali incognite rappresentano, almeno finora, un tratto antropologico inalterabile. Per affascinanti che siano, domande come «C’è una ragione per la quale siamo al mondo?», «Da dove veniamo?» e «Dove andiamo?» conducono a uno stallo e possono facilmente tradursi in motivo di ansia e tormento. Per quanto i filosofi lo abbiano pensato e ripensato negli ultimi secoli, uno dei quesiti metafisici per eccellenza – «Perché c’è qualcosa, anziché nulla?» – resta irrisolto.

L’ignoto è talmente connaturato al tema delle origini che è difficile, se non impossibile, figurarsi l’antecedente non solo di fenomeni macroscopici quali l’incipit del cosmo e della vita, ma anche di quelli attinenti all’ambito individuale: per esempio, il fatto di non ricordare la propria nascita. In uno dei primi miti filosofici, quello di Edipo, l’eroe tragico è posto dinanzi al dilemma per eccellenza, allorché Tiresia gli domanda: «Ma sai tu da chi sei nato?». Dalla formazione della materia primordiale allo strutturarsi e scomporsi delle identità personali, ognuno di questi processi slitta repentinamente nel dominio dell’inosservabile, o perché si situa in un altrove spazio-temporale o perché è impercepibile nel suo svolgimento. L’oblio è un ingrediente fattivo della vita, al punto che talvolta è arduo ricordare con esattezza finanche il sorgere di un pensiero o di un’emozione.

Ciò detto, però, c’è molto da apprendere precisamente dal fatto di sapere di non sapere. Una crescita di consapevolezza dell’enigma delle origini potrebbe costituire un potente incentivo all’inclinazione al sapere. Che l’incipit primordiale sia indimostrabile e indefinibile, privo di presupposti e riscontri empirici, smetterebbe di costituire un ostacolo. Lo si potrebbe immaginare come un accadimento puro, sorto dal e nel “nulla”, laddove quest’ultimo è il nome scevro di contenuto che rende intuibile il vacuum dell’origine nella sua ineffabilità, convertendolo in oggetto di indagine. E non si tratterebbe di un cedimento all’irrazionale. L’attendibilità di un universo generatosi senza cause appurabili è contemplata dalla scienza nel corso del Novecento. Anche se il “nulla” discusso dai cosmologi non corrisponde all’inscrutabile significato assunto dal termine negli ambiti della teologia e della metafisica, nondimeno le loro teorie scuotono accreditate leggi della fisica. Al punto che si è tentati di invertire la domanda consueta e chiedersi perché ci sia il niente invece di qualcosa. I contributi della scienza invogliano così a ripensare in una luce diversa sia gli argomenti formulati dalla filosofia in merito tanto all’essere quanto al niente che vi si oppone, sia alcune credenze centrali nelle religioni monoteistiche, come quelle della tradizione giudaico-cristiana o islamica, secondo cui il tempo e ogni cosa sarebbero attivati da un Dio originario e originante dal nulla.

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L’adimensionalità associata agli inizi può connotare l’apparizione di un quid senza antecedenti come pure il ritorno di un quid antichissimo, ma trascurato e incomprensibile fino alla sua rinascita. Tale condizione attiene, cioè, al verificarsi di rotture, curvature o fenditure temporali in virtù delle quali la concatenazione del prima e del dopo si arresta allorché ciò che non c’era fino a quel momento – poiché ritenuto impossibile, latente, invisibile, inesistente – affiora e altera lo status quo. Questi accadimenti riguardano non solo l’universo nella sua inscrutabile immensità, ma pure la vita terrena nella sua percepibile complessità. Meritano l’appellativo di “infinitamente improbabile” (espressione introdotta da Hannah Arendt) i “miracoli” affatto umani che, come quelli soprannaturali, sono eventi che comportano l’interruzione di una serie di processi all’apparenza regolari e la coeva emergenza di un “inatteso imprevisto”. Non a caso, dopo aver osservato come nell’antichità classica, greca e latina, l’esperienza dell’essere liberi coincidesse con la capacità di agire e intraprendere qualcosa di nuovo, Arendt argomenta che, più che la volontà, sarebbe la fede a guidare gli individui nell’avviare e nel realizzare quanto avviato.

Quindi, se lo si immagina nella sua integrità, il cominciamento ci rammenta che non tutto è computabile: c’è una differenza tra i calcoli e le previsioni di una macchina pensante e i pensieri elaborati da un essere umano. La prima prospetta percorsi, struttura sequenze o fornisce risposte progressive ai problemi all’interno di fasi controllate da predefinite regole di inferenza o da un programma “intelligente”. Al contrario, la nostra mente può avvalersi di intuizioni, emozioni e intenzioni di senso che non ammettono necessariamente dimostrazione, né sono immediatamente deducibili da alcunché. Semmai, esse potrebbero esistere quali punti di vista assenti in altre menti, nonché nella medesima che ha appena iniziato a contemplarli. Tale forma di cominciamento andrà più propriamente intesa come una “creazione” che suscita, qualifica e compone le rispettive valenze di essere e non essere in una nuova unità. A questa dinamica già allude Friedrich Hegel, secondo il quale la molteplicità dell’essere è inquantificabile, plasmata dalla forza attiva del negativo e dall’occorrenza di crepe, squilibri e vuoti che trasformano l’insieme realizzando una compagine inedita della vita dello spirito. Per il filosofo tedesco, essere è quel che diviene “non” non essere, ed entrambe le polarità sono fondamentali nel processo dialettico. Difatti, agli inizi dell’Ottocento, egli è il primo pensatore moderno a gettare le basi per comprendere l’importanza della creazione ex nihilo, o “dal nulla”, indipendentemente dall’azione di un Dio o dal ricorso alla trascendenza.

Si è pertanto ispirati a considerare l’eventualità che l’ex nihilo possa ripetersi e rinnovarsi ora e ancora, dentro e oltre un qualsivoglia campo di mediazioni storiche, empiriche, concettuali o tecno- logiche. Come nel caso dei miracoli, ma con proprietà immanenti, lo straordinario si intreccia con l’ordinario e ci si ritrova a dubitare che l’impossibile sia impossibile. In alternativa, si può supporre che un inizio denoti il possibile in sé, slegato da deduzioni o potenzialità nascoste. Una creazione siffatta comporta il formarsi di una “seconda” vita, tanto irriducibile alla presunta primarietà del dato di natura quanto indeducibile secondo gli schemi di una preordinata cultura. Sospesa tra passato e futuro, essa esercita un’attiva resistenza alla finitudine: oltrepassa i limiti di cui prendiamo coscienza attraverso il corpo, il linguaggio, il mondo e il contatto con gli altri esseri viventi. Sarà il campione di un’intelligenza nuova, discontinua e non immediatamente identificabile, eppure potrà rivelarsi capace di trasmettere un’eredità, rianimare geni assopiti, armonizzare tradizione e slanci verso l’avvenire. Ma, ammesso che l’inclinazione alla creazione nel e dal nulla possa rappresentare una risorsa d’infinito per gli individui come per la specie, c’è modo di osservare e di contribuire a chiarire in che cosa consista l’ex nihilo nella sfera delle attività umane?

Grotta di Lascaux

È uno degli interrogativi che guida questo libro. L’ipotesi pilota è che non sempre scatti la rimozione del non sapere e le origini appaiano in fuga dal qui e ora, che non sempre il cominciamento e il (ri)cominciamento vengano confinati nel dominio del sovrannaturale o reputati inverificabili. Un’eccezione al riguardo è rappresentata dalle opere delle arti visive. A partire dai graffiti della preistoria, gli esseri umani realizzano figurazioni la cui emergenza prescinde da cause determinate e può persino combaciare con l’apparizione di forme di vita altresì inedite. Come rileva Georges Bataille in un testo del 1955 dedicato alla caverna dipinta di Lascaux (che nei pressi del 1950 incarnava i primordi dell’arte universale), la nascita dell’arte coincide con l’altrettanto misteriosa comparsa dell’uomo dal fondo di un’animalità inesplicata. E ancora. In epoche contraddistinte da una solida coscienza storica, un’opera apprezzata come “arte” è stata talvolta ritenuta capace di marcare un inizio già a partire dalla metamorfosi degli elementi impiegati nella sua realizzazione, i quali smetterebbero così di essere una mera realtà predeterminata non appena confluiscono in un’originale forma significante di pensieri e sentimenti umani.

La facoltà artistica di iniziare è parimenti segnalata dal suo far passare una cosa per un’altra: per esempio, poche linee tracciate a matita sulla carta possono ricordare qualcuno, le fattezze di un individuo reale. Quel gesto introduce un nuovo ordine d’intelligibilità, sorto nel e dal vuoto di un nihil ma di per sé valevole sotto un profilo universale, prescindendo da tempi o luoghi specifici. Non a caso forse, sin dall’antichità, la letteratura dedicata alle opere d’arte visiva le magnifica quali artefici di una verosimiglianza tanto ingannevole quanto singolare e stupefacente; loda le effigi per il loro rendere presenti le persone assenti; reputa alcune creazioni artistiche meritevoli di memoria e perfettamente in grado di sfidare la corruttibilità del tempo, se non di offrire delle guide utili per il raggiungimento dell’immortalità fisica oltre che spirituale.

In virtù dell’arte, si dà dunque vita a entità che avrebbero potuto non essere, oppure essere differenti da quel che sono. Al loro cospetto, si ha modo di intuire lo svolgersi, la fluidità e gli arresti del processo creativo, specialmente quando si riceve la netta impressione che quel che non c’era adesso c’è. Ogni volta che azzera e (ri)significa – con sorprendente arbitrarietà –, un’opera d’arte rinnova sì l’enigma delle origini, ma mediante una procedura sui generis. Attesta un incipit senza implicare l’accettazione di una passiva originazione dal nulla – come nel caso del fiat primordiale cosmico immaginato nelle religioni –, bensì addebitandolo tanto a dei mutamenti di percezione, cognizione ed esperienza quanto a un’assertività originale di forme significanti potenzialmente diffuse ma ancora inarticolate, radicate nel passato ma celate o divenute incomprensibili, oppure totalmente inedite.

In ogni caso, la prerogativa di un’arte così intesa è quella di nullificare o mettere in questione un assetto consolidato, e di contenere in sé il proprio principio fondativo da cui trarre forza e legittimazione. Ci si rende conto che il nihil potrebbe operare quale elemento integrante nella prassi e nella significazione umana. Il dato materiale artisticamente (ri)creato dall’artista, nel generare e palesare un metodo, un punto di vista, un saper-fare creativo, diventa esso stesso identificabile come il principio, l’animatore incondizionato della genesi dal e nel nulla, che appare nella zona temporale del presente unitamente all’avverarsi dell’inizio. Insomma, nel dare luogo al nuovo, l’attività artistica adotta, adatta e provoca dei vuoti d’origine, così che le opere, ciascuna secondo ragioni e attraverso modalità sue proprie, concorrono nel testimoniare l’esemplarità dell’idea di un’arte che inizia. L’idea è un faro al fine di figurarsi un’effettiva umanizzazione dell’ex nihilo. Evidenziandone il carattere modellabile, essa offre un preciso intendimento della complessità dell’umano che, lungi dall’essere una sostanza definitivamente accertabile né tantomeno un elemento storico soggetto a incessanti relativizzazioni, è o diviene in funzione di eventi che attualizzano l’arcano di Genesi 1, 1 e dei miti dell’incipit cosmico. Un’opera d’arte che inizia indica che l’arcano è limitante se non lo si ripensa in chiave antropocentrica, ovvero riconoscendolo non solo connaturato all’identità della nostra specie, ma anche propellente al suo farsi carico della creazione di nuove forme di vita.

Ritratto di Giotto da Le Vite (1568) di Giorgio Vasari

Delle esperienze e cognizioni connesse a questa idea offre una varietà di riscontri la cultura artistica sviluppatasi dall’epoca rinascimentale in avanti, nell’area geoculturale che abbraccia l’Europa moderna e poi l’America del Nord. Al riguardo, un modello archetipico è fornito dall’esempio trecentesco di Giotto, già apprezzato dai suoi contemporanei come fautore di una “rinascita”, nel duplice senso di ripresa di un saper-fare pittorico caduto in disuso dopo l’antichità e di messa a punto di una pratica significante radicalmente nuova. Per un lungo periodo, l’idea di un’opera d’arte che inizia sfuma e risuona in pensatori come Goethe, Hugo, Croce e Heidegger; diviene patente in pochi ma rilevanti artisti, da Michelangelo a Picasso. L’esemplarità di un nuovo inizio può venire percepita immediatamente, come in Giotto, ma anche in un distante ambito storico-culturale allorché lo si considera un evento la cui forza o necessità appare retroattivamente, come nel caso dei dipinti di Caravaggio o Vermeer.

Tale figurazione di una molteplicità anarchica dell’arte, nella quale affiorano e/o si collocano i suoi nuovi inizi ex nihilo, non prevede affatto una capitolazione al relativismo. Non c’è alcun livellamento dei fenomeni artistici né un’omologante indistinzione tra arte e non arte. Al contrario, la scoperta che una o più opere possano significare un inizio comporta per ciascuna il riconoscimento di un’imperatività del suo esserci che incarna verità, valori e significati precisi e durevoli, anche a dispetto di rimozioni e occultamenti. La persistenza a-dimensionale degli incipit artistici conferisce loro alcune caratteristiche dell’infinito così come verrà inteso nella modernità. È allora che, definito nei rivoluzionari termini di pura immanenza, esso smette di riferirsi a una potenzialità latente come nel greco apeiron (un concetto probabilmente introdotto da Anassimandro per denotare l’amorfo e l’illimitato) o di riguardare quel processo di superamento di un limite che però dischiude un ulteriore elemento da superare, senza mai svincolarsi dal finito – un malinteso criticato da Hegel come “cattivo infinito”. Un’arte che inizia è accostabile al pensiero di un infinito “attuale”, intrinseco alla realtà e perpetuamente in atto. Se la matematica e la logica moderne hanno legittimato il concetto dell’attualità dell’infinito in maniera completamente razionale, non va forse colta anche nell’arte un’analoga ambizione autofondativa, perseguita con modalità specificamente attinenti alla (ri)creazione della materia?

Un’opera d’arte che inizia pare incentivare la nostra adattabilità all’ex nihilo proprio mentre evidenzia la multiscalare pervasività dell’uomo; quest’ultimo si rivela una sostanza plastica e ubiqua, incline alle metamorfosi, se non alla consapevolezza del vuoto dal e nel quale si incentrano tanto le sue creazioni quanto il suo stesso esserci. Un (ri)cominciamento artistico potrà dunque essere interpretato come il segnale di un bisogno di mutazione antropologica: esso è parte di un DNA che sarebbe fuorviante restringere alla sola arte. Il progetto di studiare l’idea di un’arte che inizia è così non solo reminiscente di quelle tendenze filosofiche novecentesche inclini a postulare un forte nesso tra libertà e inizio, ma risuona inoltre con gli intenti di alcune significative frange della filosofia contemporanea impegnate nella critica alla finitudine.

Tuttavia, se per un verso l’epoca moderna ha talvolta permesso all’arte e agli artisti di coltivare un’agentività speciale, nel contempo si registra anche una sorta di controrivoluzione che sembra aver avuto la meglio nel corso del Novecento. In essa, mentre all’invenzione del nuovo subentrano la sfrenata proliferazione delle novità e la spinta al facile sensazionalismo, i fenomeni artistici scadono – e a livello planetario – a oggetti di marketing, voyeurismo e consumerismo. La pratica di quegli artisti contemporanei che scientemente ambiscono ad allinearsi con il business ha maggiori chance di gode- re di visibilità pubblica appunto perché rispecchia la mentalità egemonica del capitale. In questo modo, oltre ad avallare le ingiustizie e le contraddizioni di quel modello di sviluppo, si nega l’originalità allo scopo di trarre profitto dalla replicabilità incontrollata; si attutisce ogni scombussolamento o mutazione catastrofica legata all’ex nihilo; si rende opaca l’idea che qui si vuole esaminare.

Chi scrive non è in grado di affermare se il binomio di opere e nuovi inizi sia stato cardine in altre civiltà, o se costituisca una categoria valida ai fini di una ricognizione dell’arte mondiale. Benché una sensibilità verso autori, opere o stili stimati senza antecedenti emerga già nella letteratura dell’antica Cina o della Grecia classica, la ricorrenza di quel binomio, per quanto irregolare, è di sicuro rintracciabile in seno all’Occidente nell’era post-giottesca.

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Il riesame che qui verrà tentato non riflette una supervalutazione dell’Occidente a scapito delle culture altre, ma risponde al bisogno di riappropriarsi di una diversa modernità, di un’indigenità che l’Europa, una volta accettata la sua recente condizione di provincia, potrebbe in parte ritrovare in una matrice “umanistica” tutta da ripensare, nonché in forme d’arte connotate da un’accentuata tensione antropologica.

L’urgenza di sviluppare nuove definizioni dell’umano è specialmente avvertita nell’era della globalizzazione e dell’antropocene. A tal fine, può quindi tornare utile raschiare la muffa da un intendimento dell’arte ramificatosi dal Rinascimento fino al secolo scorso, e che ha poco da spartire con l’Occidente per come verrà spesso inteso, o frainteso, dopo la Seconda guerra mondiale. Non più indicativo di una civiltà in grado di scoprire contraddizioni, accogliere il dissenso o immaginare alternative al suo interno, “occidentale” è diventato sinonimo di una mentalità marchiata da un’aggressiva ricerca della libertà nei consumi e nello stile di vita, come pure da un’egemonia planetaria perseguita mediante una stretta alleanza tra il potere delle armi e quello del denaro e della tecnologia. In un simile scenario, è opportuno chiedersi se l’accoppiamento tra opere d’arte e nuovi inizi possa non solo costituire un residuo di speranze e utopie europee che irrompe nell’era post-occidentale, ma offrire uno strumento efficace per criticare il presente.

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Non è avventato suggerire che, come tra il 12.000 e il 7.500 a.C. si registra la grande rivoluzione neolitica e con essa la comparsa dell’Homo Sapiens – un salto inedito nell’esserci dell’animale uomo che, da cacciatore-raccoglitore, passa al ruolo di produttore del proprio cibo tramite l’agricoltura e l’allevamento del bestiame –, così siano altrettanto plausibili ulteriori metamorfosi, in misure e tempi diversi, sebbene se ne ignorino luoghi, tempi, modalità e ragioni. In un certo senso, l’umanità continua ad auspicarsi un (ri) cominciamento della vita, una resurrezione che influisca sull’asset- to delle cose e lo trasformi, al punto che esse non saranno più come prima: una speranza, questa, che è paradossalmente rafforzata dal difetto di certezze in merito all’inizio degli inizi. Anche se solo inavvertitamente, e in maniera incostante, il riproporsi del binomio di opere e nuovi inizi esprime questo auspicio in seno alla storia della cultura artistica. Ad animarlo, forse, c’è il desiderio di resistere alla tirannia del finito e di reclamare l’infinito e l’eterno quali componenti della nostra condizione terrena.

Il testo qui presentato è un estratto del “prologo” del volume di Gabriele Guercio Opere d’arte e nuovi inizi, di recente pubblicazione presso Quodlibet. Ringraziamo autore ed editore per il permesso alla riproduzione.

In copertina: Jan Vermeer, Allegoria della Pittura, 1666 (particolare)

Gabriele Guercio

è storico dell’arte e saggista. Tra i suoi libri ricordiamo "Art as Existence. The Artist’s Monograph and Its Project" (2006), "The Great Subtraction" (2012), "L’arte non evolve. L’universo immobile di Gino De Dominicis" (2015) e "Il demone di Picasso. Creatività generica e assoluto della creazione" (2017).

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